giovedì 13 agosto 2015

L’economia russa crolla, ma Putin è più forte della crisi

Nel 2015 è prevista una caduta del Pil oltre il 3%. Ma la ripresa del prezzo del petrolio e la fine delle sanzioni europee tranquillizzano lo zar

EVARISTO SA/AFP/Getty Images

L’economia russa non andava così male da un bel po’ di tempo. I dati del secondo trimestre 2015 forniti da Rosstat, l’Agenzia nazionale di statistica, indicano un calo del 4,6 per cento, peggiore delle previsioni fatte dal governo del premier Dmitri Medvedev che lo davano del 4,4 per cento. Se il Pil russo nel 2014 era salito dello 0,6 per cento, quest’anno è prevista una caduta oltre il 3 per cento, un tonfo simile a quello del 2009 quando la crisi scatenata negli Stati Uniti arrivò pesantemente sino a Mosca.

Nel 2010 il crollo fu successivamente compensato con una crescita del 4,2 per cento. Anche per il 2016 è previsto il recupero, anche se la Banca Mondiale nel suo ultimo rapporto di giugno 2015 lo ha quantificato solo dello 0,7 per cento. Meglio sarà nel 2017 con il 2,5 per cento. Nonostante, dunque, la Russia non goda di un buon momento, tra la crisi interna e le sanzioni internazionali che hanno appesantito il quadro non proprio roseo, il futuro non pare quindi catastrofico. E a dirlo è appunto la World Bank, non nota per essere un’istituzione filoputiniana.

La questione è facilmente spiegabile con il fatto che i prezzi del petrolio, in caduta libera nel 2014, hanno ripreso lentamente a risalire la china e per il prossimo anno la previsione è che il prezzo del greggio si attesti poco oltre i 60 dollari al barile. Non si tratta dei più di 100 del 2011 o del 2012, ma è comunque una cifra sufficiente per garantire a Mosca, grande produttrice ed esportatrice di oro nero, entrate in grado di tenere a galla la nave in tempesta. Il timoniere Vladimir Putin in questo senso non si è mai agitato troppo e ha sempre tranquillizzato i russi, che con Boris Eltsin avevano sperimentato il default economico nel 1998, quasi in chiusura del primo decennio postcomunista fatto di colpi di Stato, guerre e saccheggi oligarchici.

E, paradossalmente, più l’economia russa oggi va male, più salgono i rating del presidente, tanto che lo scorso giugno il Levada Center ha registrato il consenso record dell’89 per cento. Le due cose in realtà non sono direttamente collegate, è però un dato di fatto che Putin ha saputo coagulare la stragrande maggioranza dell’elettorato spingendo sui toni nazionalistici nei momenti di difficoltà. Sino ad ora, e con le prospettive di un recupero economico in tempi relativamente brevi, il Cremlino non ha sofferto per nulla l’impatto della crisi e delle sanzioni occidentali. Almeno a livello politico. A livello economico a produrre più perdite sono state in realtà le stesse controsanzioni russe con lo stop all’import di prodotti agricoli (-40 per cento nel primo semestre del 2015), anche se il Fondo Monetario Internazionale ipotizza sul lungo periodo un calo del pil russo sino al 9 per cento nel caso del mantenimento da parte di Europa e Stati Uniti dei provvedimenti ristrettivi, nel peggiore degli scenari e con molte variabili.

Tra i se e i ma il condizionale è comunque un modo che Vladimir Putin considera poco ed è per questo che tenta di ricondurre al pragmatismo quella parte dell’Europa che non si accoda pedissequamente agli Stati Uniti. Bruxelles ha prolungato a giugno per sei mesi le sanzioni contro la Russia, ma è difficile credere che entro la fine dell’anno la crisi ucraina potrà essere risolta. Sarà già tanto se nelle prossime settimane non si assisterà a un ritorno alla guerra aperta. Il conflitto ha una dinamica propria e dipende solo in parte da ciò che può essere deciso a Mosca: il partito della guerra a Kiev e i falchi che lo sostengono non sono certo immuni da responsabilità.

La Russia potrà essere così sanzionata per il sostegno ai separatisti del Donbass per i prossimi decenni, tanto più che la Crimea annessa nel marzo del 2014 difficilmente ritornerà sotto la sovranità ucraina, oppure l’Europa dovrà decidere di smetterla con l’autolesionismo giustificato con il perseguimento di ideali fittizi, abbandonando il doppiopesismo che fa di Mosca diavolo e Pechino e Riad, giusto per citare due insospettabili culle della democrazia, degli angioletti. Putin da parte sua può dormire sonni tranquilli, a meno di cataclismi improvvisi che sballino anche le previsioni della Banca Mondiale sul breve periodo. Sino al 2018, anno in cui scade il mandato presidenziale, Vladimir Vladimirovich potrà contare su un impianto economico relativamente stabile, anche se bisognoso di correttivi, e su un consenso popolare ampio. Elementi che gli consentiranno di decidere se rimanere al Cremlino per altri sei anni o invece cedere lo scettro a un futuro delfino.

Fonte: Linkiesta.it

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