Cosa dicono le indagini sul medico e l'infermiera accusati di avere causato volontariamente la morte di almeno cinque persone
I giornali di oggi dedicano ampio spazio a un’inchiesta giudiziaria su alcune morti sospette avvenute all’ospedale di Saronno, in provincia di Varese, che ieri ha portato all’arresto di un medico e di un’infermiera della struttura sanitaria, dove risultano indagate 14 persone. Molti dettagli della vicenda non sono ancora chiari e per ora è disponibile la sola versione della procura, che tra le altre cose ha utilizzato lo strumento delle intercettazioni – telefoniche e ambientali – per raccogliere informazioni sugli indagati. Il medico e l’infermiera sono accusati di avere causato la morte di almeno cinque persone, la maggior parte delle quali erano state ricoverate nell’ospedale di Saronno con patologie di vario tipo, in alcuni casi piuttosto gravi.
I due arresti
Leonardo Cazzaniga è un medico anestesista, ha 60 anni e lavora da molti anni all’ospedale di Saronno. Vive a Rovellasca, in provincia di Como, e fino a qualche mese fa era in servizio presso il pronto soccorso. È stato arrestato ieri con l’accusa di avere causato la morte di quattro pazienti in ospedale, tramite la somministrazione di alte dosi di anestetici e altri farmaci.
Laura Taroni è un’infermiera, ha 40 anni e lavora nello stesso ospedale di Cazzaniga, con il quale ha una relazione. Vive a Lomazzo, in provincia di Como, ed è stata arrestata con l’accusa di avere organizzato con Cazzaniga l’omicidio del marito, che costituiva un ostacolo alla loro relazione.
L’inchiesta
Le accuse contro Cazzaniga e Taroni sono state formalizzate in seguito a una lunga indagine avviata dalla procura di Busto Arsizio, e condotta dal reparto operativo dei carabinieri di Saronno, in seguito ad alcune segnalazioni del personale medico dell’ospedale locale. Analizzando lo storico dei ricoveri e dei decessi in alcuni reparti, gli inquirenti hanno notato discrepanze e morti sospette che li hanno poi portati verso Cazzaniga.
Le morti in ospedale
Le date indicate dalla procura sono 8 febbraio 2012, 30 aprile 2012, 15 febbraio 2013 e 9 aprile 2013: secondo l’accusa, in queste date ad alcuni pazienti furono somministrate alte dosi di farmaci come clorpromazina, midazolam, morfina, propofol e promazina. I pazienti di Cazzaniga erano tutti anziani e con diverse patologie: un malato di tumore di 69 anni, uno di 71 anni malato di Parkinson in fase avanzata, una di 77 anni malata di cancro e un 93enne ricoverato per la rottura di un femore.
Secondo le testimonianze raccolte in ospedale dalla procura, Cazzaniga si faceva chiamare “dio” e “angelo della morte”, ripetendolo spesso anche davanti ai pazienti, con frasi come: “Con questo paziente dispiego le mie ali dell’angelo della morte” o “Io sono dio”. Nel caso di pazienti anziani con malattie gravi diceva di volere applicare quello che definiva “protocollo Cazzaniga”, secondo le accuse un mix di farmaci che utilizzava per causare la morte degli assistiti. In una telefonata con Taroni intercettata dagli inquirenti, pubblicata solo parzialmente dal Corriere della Sera e quindi da prendere con qualche riserva, Cazzaniga aveva definito “eutanasia” il suo modo di procedere, ma l’infermiera lo aveva corretto dicendo: “L’eutanasia è un’altra cosa: è quando una persona lucida e cosciente ti chiede di porre fine alla sua vita”. All’obiezione di Taroni, Cazzaniga aveva risposto: “Allora è omicidio volontario”.
La morte del marito di Taroni
Leonardo Cazzaniga e Laura Taroni avevano da tempo una relazione, che era iniziata ancora prima del matrimonio di Taroni con Massimo Guerra, un uomo di 46 anni morto il 30 giugno 2013. Secondo l’accusa, Guerra non aveva particolari problemi di salute, ma era stato convinto dalla moglie di essere affetto da diabete e da alcuni problemi cardiaci. Le malattie sarebbero state inventate da Taroni con la complicità di Cazzaniga, che avrebbe firmato falsi referti degli esami di laboratorio per accertare le condizioni di salute di Guerra, sottoposto anche ad alcuni ricoveri perché diceva di sentirsi sempre molto stanco e debilitato.
La procura dice che Taroni dal 2011 aveva iniziato a somministrare di nascosto al marito dosi crescenti di antidepressivi, con l’obiettivo di ottenere un calo della libido. In seguito era passata alla somministrazione, sempre all’insaputa di Guerra, di dosi di insulina anche se non risultava che il marito fosse realmente diabetico. Sempre più malato e debilitato, Guerra fu trovato morto nel salotto di casa nell’estate del 2013, Taroni chiamò la guardia medica dicendo: “Mio marito ha avuto un infarto”. Il corpo di Guerra fu cremato, un’idea definita “geniale” da Cazzaniga in un’altra intercettazione effettuata dalla procura di una conversazione con l’infermiera. La cremazione secondo la procura avrebbe consentito di nascondere le prove sull’effettiva morte del marito, ma non è ancora chiaro se fossero stati eseguiti accertamenti sul corpo di Guerra dopo la morte, considerata la sua giovane età.
Altre morti sospette
La procura sospetta che Taroni, con la complicità di Cazzaniga, avesse anche causato la morte della madre, che si opponeva alla sua relazione con il medico. L’ipotesi è basata, tra le altre cose, su alcune intercettazioni ambientali nelle quali si sente Taroni mentre parla con i figli di 9 e 11 anni circa la morte della loro nonna: i due bambini sono stati affidati dal tribunale dei minori a una struttura di accoglienza. Ci sono ulteriori sospetti sulla morte del padre di Guerra, ma anche in questo caso non sono disponibili molti dettagli. Per ora il giudice per le indagini preliminari del tribunale di Busto Arsizio ha imputato un solo delitto a Taroni.
Le indagini in ospedale
In seguito ad alcune segnalazioni da parte del personale, l’Azienda ospedaliera di Busto Arsizio – dalla quale dipende l’ospedale di Saronno – aveva disposto un’indagine interna su alcune morti avvenute nella struttura. L’inchiesta era stata chiusa senza l’avvio di provvedimenti disciplinari nei confronti di Cazzaniga, cosa che secondo il pubblico ministero Cristian Ria fu parte di una “catena di omissioni” che deve essere indagata. Tra le quattordici persone messe sotto indagine ci sono il direttore sanitario, il direttore del pronto soccorso, due medici del reparto, l’ex direttore dell’Azienda ospedaliera di Busto Arsizio, un medico del pronto soccorso, tre medici della commissione che eseguì le indagini e un altro medico.
Fonte: Il Post
mercoledì 30 novembre 2016
I dirigenti di Banca Etruria sono stati assolti
Nel primo procedimento per il fallimento della banca toscana: la sentenza potrebbe avere effetti anche sulle indagini in corso
Tre dirigenti di Banca Etruria sono stati assolti dal tribunale di Arezzo nel corso di uno dei procedimenti sul fallimento dell’istituto. L’ex presidente Giuseppe Fornasari, l’ex direttore generale Luca Bronchi e il direttore centrale Canestri Davide Canesti erano accusati di ostacolo alla vigilanza per due episodi avvenuti nel 2011 e nel 2012. Secondo l’accusa i tre manager avevano finanziato in maniera irregolare gli acquirenti di una società del gruppo. Successivamente, sempre secondo l’accusa, avrebbero nascosto la gravità di alcuni crediti deteriorati (cioè prestiti non più esigibili) all’interno del bilancio.
Il giudice per le indagini preliminari Annamaria Lopresti ha assolto tutti e tre gli imputati perché “il fatto non sussiste”, nel primo caso, e perché “il fatto non costituisce reato”, nel secondo. I magistrati avevano chiesto tra i due anni e i due anni e otto mesi per i tre imputati. Banca Etruria, insieme ad altre tre banche popolari, si è trovata in una situazione molto difficile nel corso del 2015 e in autunno è stata salvata con un intervento del governo, che ha applicato un versione parziale della procedura di bail-in.
I tre manager e altri dirigenti della banca sono indagati in altri procedimenti in cui vengono ipotizzati reati come truffa, fatture false e bancarotta. Non è chiaro se tra gli indagati oggi ci sia ancora il padre del ministro per le Riforme, Maria Elena Boschi, che per alcuni anni è stato consigliere d’amministrazione della banca. Diversi giornali oggi scrivono che molte di queste indagini, nessuna delle quali è ancora entrato nella fase processuale, si basano sull’ipotesi che i manager della società fossero a conoscenza del pessimo stato di salute della banca e che si siano adoperati per nasconderlo alla vigilanza della Banca d’Italia, agli azionisti e ai clienti della banca. La sentenza di oggi, secondo cui i manager non hanno nascosto informazioni sensibili alla vigilanza, potrebbe quindi avere effetti anche sulle altre indagini.
Fonte: Il Post
Tre dirigenti di Banca Etruria sono stati assolti dal tribunale di Arezzo nel corso di uno dei procedimenti sul fallimento dell’istituto. L’ex presidente Giuseppe Fornasari, l’ex direttore generale Luca Bronchi e il direttore centrale Canestri Davide Canesti erano accusati di ostacolo alla vigilanza per due episodi avvenuti nel 2011 e nel 2012. Secondo l’accusa i tre manager avevano finanziato in maniera irregolare gli acquirenti di una società del gruppo. Successivamente, sempre secondo l’accusa, avrebbero nascosto la gravità di alcuni crediti deteriorati (cioè prestiti non più esigibili) all’interno del bilancio.
Il giudice per le indagini preliminari Annamaria Lopresti ha assolto tutti e tre gli imputati perché “il fatto non sussiste”, nel primo caso, e perché “il fatto non costituisce reato”, nel secondo. I magistrati avevano chiesto tra i due anni e i due anni e otto mesi per i tre imputati. Banca Etruria, insieme ad altre tre banche popolari, si è trovata in una situazione molto difficile nel corso del 2015 e in autunno è stata salvata con un intervento del governo, che ha applicato un versione parziale della procedura di bail-in.
I tre manager e altri dirigenti della banca sono indagati in altri procedimenti in cui vengono ipotizzati reati come truffa, fatture false e bancarotta. Non è chiaro se tra gli indagati oggi ci sia ancora il padre del ministro per le Riforme, Maria Elena Boschi, che per alcuni anni è stato consigliere d’amministrazione della banca. Diversi giornali oggi scrivono che molte di queste indagini, nessuna delle quali è ancora entrato nella fase processuale, si basano sull’ipotesi che i manager della società fossero a conoscenza del pessimo stato di salute della banca e che si siano adoperati per nasconderlo alla vigilanza della Banca d’Italia, agli azionisti e ai clienti della banca. La sentenza di oggi, secondo cui i manager non hanno nascosto informazioni sensibili alla vigilanza, potrebbe quindi avere effetti anche sulle altre indagini.
Fonte: Il Post
Hollande è intenzionato a ricandidarsi all'Eliseo
La prospettiva ha evidenziato le divisioni all’interno del partito socialista francese, dove in molti vogliono sfidare la leadership dell'impopolare presidente
Nonostante abbia un livello di approvazione bassissimo tra gli elettori – secondo alcuni sondaggi inferiore al 4 per cento – il presidente francese François Hollande ha lasciato trapelare che parteciperà alle primarie del partito socialista, per sfidare gli oppositori interni e, in caso di vittoria, il rivale repubblicano François Fillon.
Hollande, adesso che il centrodestra ha scelto come candidato all’Eliseo un conservatore cattolico, dalle idee liberiste, è convinto di essere l’unico in grado di riunificare il fronte della sinistra.
La prospettiva della ricandidatura di Hollande ha evidenziato le divisioni all’interno del partito socialista. Secondo i sondaggi, la bassa popolarità dell’attuale presidente della Repubblica non permetterebbe a Hollande di andare oltre il 10 per cento dei voti e di superare il primo turno.
Al ballottaggio si sfiderebbero quindi il partito repubblicano di Fillon e il Front National di Marine Le Pen.
Questo scenario, dopo una lunga serie di sconfitte a livello locale, rischierebbe di mettere a rischio la posizione di molti deputati socialisti nelle elezioni dell’Assemblea parlamentare, nel giugno 2017.
Il programma liberista e pro mercato di Fillon è stato immediatamente attaccato dalla Le Pen, che vuole essere percepita dagli elettori francesi come l’unica candidata intenzionata a difendere la classe dei lavoratori.
Negli ultimi mesi, inoltre, si sono acuite le vecchie fratture all’interno del partito socialista, tra coloro che hanno approvato le politiche più orientate al mercato di Hollande e del suo governo guidato da Manuel Valls e coloro che vorrebbero un riposizionamento a sinistra. Sono dunque in molti a voler sfidare la leadership dell’attuale presidente.
Le pressioni perché si candidi alle primarie il primo ministro si sono fatte sempre più insistenti. Domenica 27 novembre Valls ha rotto il suo voto di fedeltà nei confronti del suo presidente, annunciando che potrebbe sfidarlo alle primarie.
Tuttavia Valls non vanta un grande consenso tra gli elettori, a causa della sua contrastata riforma del mercato del lavoro, mentre è sostenuto dai riformatori del partito socialista.
L’ex ministro dell’economia Arnauld Montebourgh ha in più occasioni ribadito di avere intenzione di candidarsi alle primarie per dare voce alla corrente più a sinistra dello schieramento.
Due settimane fa ha annunciato che correrà per l’Eliseo anche l’ex ministro dell’economia di Hollande Emmanuel Macron, con un programma centrista, mentre a sinistra lo spazio è occupato da Jean-Luc Mélenchon, come candidato indipendente.
Fonte: The Post Internazionale
Il presidente francese François Hollande ha un livello di approvazione del 4 per cento tra gli elettori. Credit: Reuters
Nonostante abbia un livello di approvazione bassissimo tra gli elettori – secondo alcuni sondaggi inferiore al 4 per cento – il presidente francese François Hollande ha lasciato trapelare che parteciperà alle primarie del partito socialista, per sfidare gli oppositori interni e, in caso di vittoria, il rivale repubblicano François Fillon.
Hollande, adesso che il centrodestra ha scelto come candidato all’Eliseo un conservatore cattolico, dalle idee liberiste, è convinto di essere l’unico in grado di riunificare il fronte della sinistra.
La prospettiva della ricandidatura di Hollande ha evidenziato le divisioni all’interno del partito socialista. Secondo i sondaggi, la bassa popolarità dell’attuale presidente della Repubblica non permetterebbe a Hollande di andare oltre il 10 per cento dei voti e di superare il primo turno.
Al ballottaggio si sfiderebbero quindi il partito repubblicano di Fillon e il Front National di Marine Le Pen.
Questo scenario, dopo una lunga serie di sconfitte a livello locale, rischierebbe di mettere a rischio la posizione di molti deputati socialisti nelle elezioni dell’Assemblea parlamentare, nel giugno 2017.
Il programma liberista e pro mercato di Fillon è stato immediatamente attaccato dalla Le Pen, che vuole essere percepita dagli elettori francesi come l’unica candidata intenzionata a difendere la classe dei lavoratori.
Negli ultimi mesi, inoltre, si sono acuite le vecchie fratture all’interno del partito socialista, tra coloro che hanno approvato le politiche più orientate al mercato di Hollande e del suo governo guidato da Manuel Valls e coloro che vorrebbero un riposizionamento a sinistra. Sono dunque in molti a voler sfidare la leadership dell’attuale presidente.
Le pressioni perché si candidi alle primarie il primo ministro si sono fatte sempre più insistenti. Domenica 27 novembre Valls ha rotto il suo voto di fedeltà nei confronti del suo presidente, annunciando che potrebbe sfidarlo alle primarie.
Tuttavia Valls non vanta un grande consenso tra gli elettori, a causa della sua contrastata riforma del mercato del lavoro, mentre è sostenuto dai riformatori del partito socialista.
L’ex ministro dell’economia Arnauld Montebourgh ha in più occasioni ribadito di avere intenzione di candidarsi alle primarie per dare voce alla corrente più a sinistra dello schieramento.
Due settimane fa ha annunciato che correrà per l’Eliseo anche l’ex ministro dell’economia di Hollande Emmanuel Macron, con un programma centrista, mentre a sinistra lo spazio è occupato da Jean-Luc Mélenchon, come candidato indipendente.
Fonte: The Post Internazionale
Israele ha attaccato in Siria un convoglio di armi per Hezbollah
Nel mirino del raid israeliano un nascondiglio d’armi e una spedizione di componenti missilistiche e armi verso il Libano
Israele avrebbe attaccato nella mattina di mercoledì 30 novembre alcuni nascondigli di armi e un convoglio di veicoli dell'esercito siriano, destinati agli Hezbollah libanesi.
Lo riportano media arabi, ripresi da quelli israeliani, che attribuiscono l'attacco all'aviazione dello stato ebraico.
L'arsenale colpito, secondo il giornale Rai Al-Youm, con base a Londra, apparterrebbe al quarto battaglione dell'esercito siriano, mentre il convoglio sarebbe stato centrato non lontano dall'autostrada che collega Beirut a Damasco.
Il giornale libanese Elnashra, anche questo citato dai media israeliani, ha riferito che quattro forti esplosioni sono state avvertite vicino Damasco, dove sarebbe stato colpito il nascondiglio di armi.
Le forze armate israeliane non hanno né confermato né smentito la notizia, come di solito fanno in questi casi. Hezbollah ha invece confermato.
Durante la guerra civile in Siria Israele ha colpito più volte postazioni e convogli degli sciiti libanesi, una delle colonne del fronte internazionale guidato dall’Iran che combatte al fianco di Assad contro ribelli e gruppi estremisti islamici.
Nei giorni scorsi quattro miliziani dell'Isis sono stati uccisi dall'esercito israeliano dopo l'attacco a una pattuglia dello stato ebraico sulle alture del Golan, in quello che è considerato il primo scontro diretto con il sedicente Stato islamico.
Sebbene la maggioranza dei politici israeliani inizialmente si sia rallegrata dei guai del presidente siriano Bashar al-Assad — alleato e finanziatore di Hezbollah, che ha centinaia di missili schierati al confine con Gerusalemme —, l’opinione pubblica israeliana è preoccupata per l’instabilità della regione.
Fonte: The Post Internazionale
Un jet israeliano impegnato in un'operazione militare. Credit: Jerry Lampen
Israele avrebbe attaccato nella mattina di mercoledì 30 novembre alcuni nascondigli di armi e un convoglio di veicoli dell'esercito siriano, destinati agli Hezbollah libanesi.
Lo riportano media arabi, ripresi da quelli israeliani, che attribuiscono l'attacco all'aviazione dello stato ebraico.
L'arsenale colpito, secondo il giornale Rai Al-Youm, con base a Londra, apparterrebbe al quarto battaglione dell'esercito siriano, mentre il convoglio sarebbe stato centrato non lontano dall'autostrada che collega Beirut a Damasco.
Il giornale libanese Elnashra, anche questo citato dai media israeliani, ha riferito che quattro forti esplosioni sono state avvertite vicino Damasco, dove sarebbe stato colpito il nascondiglio di armi.
Le forze armate israeliane non hanno né confermato né smentito la notizia, come di solito fanno in questi casi. Hezbollah ha invece confermato.
Durante la guerra civile in Siria Israele ha colpito più volte postazioni e convogli degli sciiti libanesi, una delle colonne del fronte internazionale guidato dall’Iran che combatte al fianco di Assad contro ribelli e gruppi estremisti islamici.
Nei giorni scorsi quattro miliziani dell'Isis sono stati uccisi dall'esercito israeliano dopo l'attacco a una pattuglia dello stato ebraico sulle alture del Golan, in quello che è considerato il primo scontro diretto con il sedicente Stato islamico.
Sebbene la maggioranza dei politici israeliani inizialmente si sia rallegrata dei guai del presidente siriano Bashar al-Assad — alleato e finanziatore di Hezbollah, che ha centinaia di missili schierati al confine con Gerusalemme —, l’opinione pubblica israeliana è preoccupata per l’instabilità della regione.
Fonte: The Post Internazionale
martedì 29 novembre 2016
L’ultimo guaio Lapo Elkann
Alcuni giornali statunitensi scrivono che è stato fermato e poi rilasciato a New York, e dovrà comparire in tribunale per aver simulato un sequestro
Alcuni siti di news statunitensi tra cui The Daily Beast scrivono che lo scorso fine settimana Lapo Elkann, noto imprenditore italiano e fratello di John Elkann, presidente di FCA, è stato arrestato e poi rilasciato dalla polizia di New York per aver simulato un sequestro. Nei prossimi mesi dovrà comparire davanti a un giudice per la formalizzazione dell’accusa di falsa denuncia. La notizia è stata ripresa da altri giornali statunitensi che hanno aggiunto qualche dettaglio, ma non è stata confermata dalla famiglia Elkann: Daily Beast cita come sua fonte dei funzionari di polizia anonimi, quindi meglio prendere con una certa cautela i dettagli del racconto.
Secondo quanto riportato da Daily Beast e New York Daily News, Lapo Elkann sarebbe arrivato a New York per il giorno del Ringraziamento, il 24 novembre. Qui avrebbe contattato una escort transgender di 29 anni (secondo il New York Daily News, mentre il Daily Beast parla di “male escort”, cioè di un uomo) e avrebbe trascorso con questa persona due giorni in una casa di Manhattan consumando cocaina, alcol e marijuana. Finiti i soldi, la persona che era con Elkann avrebbe anticipato il denaro per comprare altra droga e lui per restituirlo avrebbe organizzato il falso sequestro, raccontando alla propria famiglia di essere stato trattenuto contro la sua volontà da una persona che gli avrebbe fatto del male se non gli avessero consegnato subito 10 mila dollari.
La famiglia di Elkann avrebbe a quel punto informato la polizia di New York della richiesta di riscatto. Un loro rappresentante avrebbe dato appuntamento a Elkann per la consegna e quando lui e la persona che era con lui si sono presentati, la polizia li avrebbe arrestati. Gli investigatori avrebbero accertato che l’idea era stata di Elkann: a lui sarebbe stata dunque consegnata una citazione a comparire in tribunale, mentre la persona che era con lui è stata rilasciata senza conseguenze.
Nel 2005 Lapo Elkann, che ha 39 anni, aveva rischiato di morire per overdose nell’appartamento di una donna transessuale a Torino. ANSA scrive di aver contattato delle fonti a lui vicine che hanno dichiarato «di non avere nulla da commentare o da aggiungere alla notizia circolata».
Fonte: Il Post
Lapo Elkann, Milano, 27 giugno 2016 (Guido De Bortoli/Getty Images)
Alcuni siti di news statunitensi tra cui The Daily Beast scrivono che lo scorso fine settimana Lapo Elkann, noto imprenditore italiano e fratello di John Elkann, presidente di FCA, è stato arrestato e poi rilasciato dalla polizia di New York per aver simulato un sequestro. Nei prossimi mesi dovrà comparire davanti a un giudice per la formalizzazione dell’accusa di falsa denuncia. La notizia è stata ripresa da altri giornali statunitensi che hanno aggiunto qualche dettaglio, ma non è stata confermata dalla famiglia Elkann: Daily Beast cita come sua fonte dei funzionari di polizia anonimi, quindi meglio prendere con una certa cautela i dettagli del racconto.
Secondo quanto riportato da Daily Beast e New York Daily News, Lapo Elkann sarebbe arrivato a New York per il giorno del Ringraziamento, il 24 novembre. Qui avrebbe contattato una escort transgender di 29 anni (secondo il New York Daily News, mentre il Daily Beast parla di “male escort”, cioè di un uomo) e avrebbe trascorso con questa persona due giorni in una casa di Manhattan consumando cocaina, alcol e marijuana. Finiti i soldi, la persona che era con Elkann avrebbe anticipato il denaro per comprare altra droga e lui per restituirlo avrebbe organizzato il falso sequestro, raccontando alla propria famiglia di essere stato trattenuto contro la sua volontà da una persona che gli avrebbe fatto del male se non gli avessero consegnato subito 10 mila dollari.
La famiglia di Elkann avrebbe a quel punto informato la polizia di New York della richiesta di riscatto. Un loro rappresentante avrebbe dato appuntamento a Elkann per la consegna e quando lui e la persona che era con lui si sono presentati, la polizia li avrebbe arrestati. Gli investigatori avrebbero accertato che l’idea era stata di Elkann: a lui sarebbe stata dunque consegnata una citazione a comparire in tribunale, mentre la persona che era con lui è stata rilasciata senza conseguenze.
Nel 2005 Lapo Elkann, che ha 39 anni, aveva rischiato di morire per overdose nell’appartamento di una donna transessuale a Torino. ANSA scrive di aver contattato delle fonti a lui vicine che hanno dichiarato «di non avere nulla da commentare o da aggiungere alla notizia circolata».
Fonte: Il Post
L'esercito siriano conquista alcuni quartieri chiave ad Aleppo est
Negli ultimi due giorni le forze del regime siriano e gli alleati hanno condotto una rapida avanzata. Migliaia di civili hanno lasciato la zona controllata dai ribelli
Migliaia di civili hanno lasciato la parte orientale di Aleppo, che si trova sotto il controllo dei ribelli, a seguito di un rapido avanzamento dell'esercito siriano e dei suoi alleati. Lo hanno riferito alcuni residenti e l'Osservatorio siriano per i diritti umani, ente di monitoraggio con sede nel Regno Unito.
I mezzi d'informazione statali siriani hanno riferito lunedì 28 novembre che le forze governative hanno conquistato il quartiere di al-Sakhour, ad Aleppo est, una zona cruciale nella lotta per il controllo della città perché divide in due parti il territorio controllato dai ribelli. La notizia è stata confermata anche dall'Osservatorio siriano per i diritti umani.
Sabato 26 novembre l'esercito è riuscito ad assumere il controllo del quartiere di Hanano, nella parte orientale della città. Il giorno successivo ha conquistato invece la zona vicina di Jabal Badro. Successivamente i militari hanno riferito di aver preso un terzo quartiere, Holok, e di aver ucciso un gran numero di "terroristi", parola che il regime utilizza per descrivere i suoi oppositori.
I media statali sostengono inoltre che le truppe stanno spingendo sui quartieri vicini di Bustan al Basha e Haydariya compiendo significativi passi avanti.
Secondo l'Osservatorio siriano per i diritti umani sono circa 10mila i civili che si sono spostati nelle zone occidentali sotto il controllo del governo o in un quartiere settentrionale sotto il controllo curdo. I media di stato siriani sostengono invece che il numero sia di oltre 1.500 mentre quelli russi dicono che si tratti di 2.500 persone.
"I raid aerei non si fermano e noi insieme ai nostri vicini abbiamo deciso di partire dato che l'esercito si avvicina", ha detto all'agenzia Reuters Abdullah Ansari, che ha lasciato la zona di Haydariya per dirigersi verso sud con la sua famiglia composta da sei persone.
La veloce avanzata degli ultimi due giorni, dopo settimane di bombardamenti delle forze aeree russe e siriane, fa temere ai ribelli che la parte nord di Aleppo potrebbe essere divisa da quella sud. Questo indebolirebbe il loro controllo sul territorio e renderebbe un numero maggiore di abitanti della città vicini alla prima linea.
A cinque anni e mezzo dall'inizio della guerra civile siriana, conquistare la città di Aleppo sarebbe un risultato importante per il presidente siriano Bashar al-Assad. Centinaia di migliaia di persone sono morte dall'inizio del conflitto e 11milioni di altre sono state sfollate.
Fonte: The Post Internazionale
Del fumo si alza da una costruzione dopo un attacco nel quartiere controllato dai ribelli di al-Shaar, ad Aleppo est. Credit: Abdalrhman Ismail
Migliaia di civili hanno lasciato la parte orientale di Aleppo, che si trova sotto il controllo dei ribelli, a seguito di un rapido avanzamento dell'esercito siriano e dei suoi alleati. Lo hanno riferito alcuni residenti e l'Osservatorio siriano per i diritti umani, ente di monitoraggio con sede nel Regno Unito.
I mezzi d'informazione statali siriani hanno riferito lunedì 28 novembre che le forze governative hanno conquistato il quartiere di al-Sakhour, ad Aleppo est, una zona cruciale nella lotta per il controllo della città perché divide in due parti il territorio controllato dai ribelli. La notizia è stata confermata anche dall'Osservatorio siriano per i diritti umani.
Sabato 26 novembre l'esercito è riuscito ad assumere il controllo del quartiere di Hanano, nella parte orientale della città. Il giorno successivo ha conquistato invece la zona vicina di Jabal Badro. Successivamente i militari hanno riferito di aver preso un terzo quartiere, Holok, e di aver ucciso un gran numero di "terroristi", parola che il regime utilizza per descrivere i suoi oppositori.
I media statali sostengono inoltre che le truppe stanno spingendo sui quartieri vicini di Bustan al Basha e Haydariya compiendo significativi passi avanti.
Secondo l'Osservatorio siriano per i diritti umani sono circa 10mila i civili che si sono spostati nelle zone occidentali sotto il controllo del governo o in un quartiere settentrionale sotto il controllo curdo. I media di stato siriani sostengono invece che il numero sia di oltre 1.500 mentre quelli russi dicono che si tratti di 2.500 persone.
"I raid aerei non si fermano e noi insieme ai nostri vicini abbiamo deciso di partire dato che l'esercito si avvicina", ha detto all'agenzia Reuters Abdullah Ansari, che ha lasciato la zona di Haydariya per dirigersi verso sud con la sua famiglia composta da sei persone.
La veloce avanzata degli ultimi due giorni, dopo settimane di bombardamenti delle forze aeree russe e siriane, fa temere ai ribelli che la parte nord di Aleppo potrebbe essere divisa da quella sud. Questo indebolirebbe il loro controllo sul territorio e renderebbe un numero maggiore di abitanti della città vicini alla prima linea.
A cinque anni e mezzo dall'inizio della guerra civile siriana, conquistare la città di Aleppo sarebbe un risultato importante per il presidente siriano Bashar al-Assad. Centinaia di migliaia di persone sono morte dall'inizio del conflitto e 11milioni di altre sono state sfollate.
Fonte: The Post Internazionale
La guerra del governo nigeriano ai mendicanti
A causa delle condizioni in cui versa il sistema sanitario, la maggior parte delle persone che mendicano per le vie di Lagos sono disabili o hanno malattie mentali
La controversa legge per contrastare “la minaccia dell’accattonaggio per strada” che il parlamento nigeriano sta per approvare, secondo la denuncia delle organizzazioni a difesa dei diritti umani, ha avuto già l’effetto di una persecuzione ai danni di decine di migliaia di persone disabili e con problemi mentali.
L’accattonaggio in strada a Lagos, la città più popolosa della Nigeria, è illegale e può costare fino a 50 euro di multa e tre mesi di carcere se il mendicante non ha denaro per pagare la sanzione.
A causa delle cattive condizioni in cui versa il sistema sanitario nigeriano, la maggior parte delle persone che mendicano per le vie della città non lo fanno per scelta, ma sono disabili o hanno malattie mentali e dunque imprigionarli è una violazione dei diritti umani.
Secondo l’accusa delle organizzazioni umanitarie, a causa di questa legge negli ultimi anni sono state incarcerate illegalmente decine di migliaia di soggetti vulnerabili, che in realtà avrebbero bisogno di assistenza.
Sebbene il reato esista anche in molte altre nazioni del mondo, le associazioni contestano i metodi brutali della polizia e la scarsa trasparenza negli arresti.
Adesso il parlamento vorrebbe renderla addirittura più severa ed estendere il bando a tutta la nazione. Secondo i sostenitori della proposta di legge, infatti, l’incremento del numero di mendicanti è conseguenza dello sfruttamento criminale e non della povertà diffusa nella nazione.
Secondo un comunicato del governo, da aprile a oggi sono state salvate dalle strade 1.340 cittadini con problemi mentali. Dopo essere arrestati, i mendicanti vengono ospitate nei centri di riabilitazione.
Ma secondo numerose denunce, nelle strutture le condizioni di vita sono inaccettabili: non sono rispettati i diritti umani e i malati mancano dell’attenzione e delle cure mediche necessarie, e subiscono addirittura torture.
Inoltre, in base alle leggi dello stato di Lagos, centinaia di persone sono state deportate dal loro stato di origine in altre zone della Nigeria.
Fonte: The Post Internazionale
Una piazza con un mercato ambulante a Lagos. Credit: Akintunde Akinleye
La controversa legge per contrastare “la minaccia dell’accattonaggio per strada” che il parlamento nigeriano sta per approvare, secondo la denuncia delle organizzazioni a difesa dei diritti umani, ha avuto già l’effetto di una persecuzione ai danni di decine di migliaia di persone disabili e con problemi mentali.
L’accattonaggio in strada a Lagos, la città più popolosa della Nigeria, è illegale e può costare fino a 50 euro di multa e tre mesi di carcere se il mendicante non ha denaro per pagare la sanzione.
A causa delle cattive condizioni in cui versa il sistema sanitario nigeriano, la maggior parte delle persone che mendicano per le vie della città non lo fanno per scelta, ma sono disabili o hanno malattie mentali e dunque imprigionarli è una violazione dei diritti umani.
Secondo l’accusa delle organizzazioni umanitarie, a causa di questa legge negli ultimi anni sono state incarcerate illegalmente decine di migliaia di soggetti vulnerabili, che in realtà avrebbero bisogno di assistenza.
Sebbene il reato esista anche in molte altre nazioni del mondo, le associazioni contestano i metodi brutali della polizia e la scarsa trasparenza negli arresti.
Adesso il parlamento vorrebbe renderla addirittura più severa ed estendere il bando a tutta la nazione. Secondo i sostenitori della proposta di legge, infatti, l’incremento del numero di mendicanti è conseguenza dello sfruttamento criminale e non della povertà diffusa nella nazione.
Secondo un comunicato del governo, da aprile a oggi sono state salvate dalle strade 1.340 cittadini con problemi mentali. Dopo essere arrestati, i mendicanti vengono ospitate nei centri di riabilitazione.
Ma secondo numerose denunce, nelle strutture le condizioni di vita sono inaccettabili: non sono rispettati i diritti umani e i malati mancano dell’attenzione e delle cure mediche necessarie, e subiscono addirittura torture.
Inoltre, in base alle leggi dello stato di Lagos, centinaia di persone sono state deportate dal loro stato di origine in altre zone della Nigeria.
Fonte: The Post Internazionale
Aereo precipita in Colombia, a bordo anche una squadra brasiliana
Sul volo precipitato si trovavano 72 passeggeri e 9 membri dell'equipaggio. Secondo l'Associazione nazionale di aeronautica civile ci sono dei sopravvissuti
Un aereo con 81 persone a bordo, inclusa una squadra di calcio brasiliana, si è schiantato in Colombia vicino alla città di Medellin. Secondo quanto comunicato da Alfredo Bocanegra, capo dell'Associazione nazionale di aeronautica civile, ci sono almeno sei superstiti: tre sono giocatori della Chapecoense, secondo quanto riportato dai media brasiliani.
Un funzionario dell'ente ha riferito che è "innegabile" che il bilancio delle vittime sarà alto, anche se è ancora troppo presto per stabilire quanti siano rimasti uccisi nello schianto. Secondo la polizia, le vittime sono 76.
I calciatori erano tra i 72 passeggeri a bordo, insieme ai 9 membri dell'equipaggio. Il velivolo si è schiantato nella notte e le cattive condizioni meteorologiche hanno reso accessibile il luogo dello schianto solo via terra, secondo quanto riferito dalle autorità di Medellin, dove era previsto atterrasse il volo.
La squadra di calcio doveva giocare la finale per la Coppa del Sud America a Medellin, a circa 245 chilometri dalla capitale della Colombia, Bogotá.
Fonte: The Post Internazionale
Immagine diffusa dai media colombiani del luogo dell'incidente aereo. Foto Twitter
Un aereo con 81 persone a bordo, inclusa una squadra di calcio brasiliana, si è schiantato in Colombia vicino alla città di Medellin. Secondo quanto comunicato da Alfredo Bocanegra, capo dell'Associazione nazionale di aeronautica civile, ci sono almeno sei superstiti: tre sono giocatori della Chapecoense, secondo quanto riportato dai media brasiliani.
Un funzionario dell'ente ha riferito che è "innegabile" che il bilancio delle vittime sarà alto, anche se è ancora troppo presto per stabilire quanti siano rimasti uccisi nello schianto. Secondo la polizia, le vittime sono 76.
I calciatori erano tra i 72 passeggeri a bordo, insieme ai 9 membri dell'equipaggio. Il velivolo si è schiantato nella notte e le cattive condizioni meteorologiche hanno reso accessibile il luogo dello schianto solo via terra, secondo quanto riferito dalle autorità di Medellin, dove era previsto atterrasse il volo.
La squadra di calcio doveva giocare la finale per la Coppa del Sud America a Medellin, a circa 245 chilometri dalla capitale della Colombia, Bogotá.
Fonte: The Post Internazionale
lunedì 28 novembre 2016
Trump sostiene che alcuni brogli elettorali gli hanno impedito di vincere il voto popolare
Il presidente eletto non ha fornito prove delle sue affermazioni, ma ha detto che si sono verificate irregolarità in Virginia, New Hampshire e California
Donald Trump non si accontenta di aver vinto la maggioranza dei voti dei collegi elettorali e in un tweet di domenica 27 novembre scrive che si sarebbe aggiudicato anche il voto popolare se non si fossero verificati dei brogli.
"Avrei vinto anche il voto popolare se avessimo escluso il milione di persone che ha votato illegalmente", recita il tweet. Il presidente eletto non fornisce tuttavia alcuna prova delle presunte irregolarità da lui citate.
L'affermazione arriva dopo che i membri della campagna elettorale di Hillary Clinton, candidata sconfitta alle presidenziali statunitensi, hanno fatto sapere che sosterranno il riconteggio dei voti in Wisconsin chiesto dalla candidata del Partito dei verdi Jill Stein, la quale si è impegnata a presentare a breve un'istanza simile anche in Michigan e Pennsylvania. La richiesta è stata definita "ridicola" da Trump.
Le elezioni dell'8 novembre si sono concluse con la vittoria del repubblicano Donald Trump sulla candidata democratica Hillary Clinton. Il primo infatti ha conquistato 290 collegi elettorali (denominati "Grandi Elettori") contro i 232 di Hillary Clinton.
--- Leggi anche: Il paradosso del voto popolare
Il voto popolare tuttavia è stato conquistato dalla Clinton, che ha ricevuto circa il 48 per cento dei voti contro il 46,6 per cento di Trump. La distanza tra i due candidati è di circa due milioni di voti, ma ci si aspetta che il numero continui a salire dal momento che lo scrutinio non si è ancora concluso in stati popolosi come ad esempio la California.
Alcune ore dopo, Trump ha scritto un nuovo tweet per specificare che "seri brogli elettorali si sono verificati in Virginia, New Hampshire e California", tre stati in cui la Clinton ha vinto, criticando i media che non stanno riportando questa informazione.
Secondo alcuni analisti, al contrario, ci sono le prove della manomissione nelle votazioni dei tre stati in cui il candidato repubblicano Donald Trump ha vinto con uno stretto margine.
Donald Trump durante un comizio ad Asheville, North Carolina, nel corso della campagna elettorale. Credit: Mike Segar
Donald Trump non si accontenta di aver vinto la maggioranza dei voti dei collegi elettorali e in un tweet di domenica 27 novembre scrive che si sarebbe aggiudicato anche il voto popolare se non si fossero verificati dei brogli.
"Avrei vinto anche il voto popolare se avessimo escluso il milione di persone che ha votato illegalmente", recita il tweet. Il presidente eletto non fornisce tuttavia alcuna prova delle presunte irregolarità da lui citate.
L'affermazione arriva dopo che i membri della campagna elettorale di Hillary Clinton, candidata sconfitta alle presidenziali statunitensi, hanno fatto sapere che sosterranno il riconteggio dei voti in Wisconsin chiesto dalla candidata del Partito dei verdi Jill Stein, la quale si è impegnata a presentare a breve un'istanza simile anche in Michigan e Pennsylvania. La richiesta è stata definita "ridicola" da Trump.
Le elezioni dell'8 novembre si sono concluse con la vittoria del repubblicano Donald Trump sulla candidata democratica Hillary Clinton. Il primo infatti ha conquistato 290 collegi elettorali (denominati "Grandi Elettori") contro i 232 di Hillary Clinton.
--- Leggi anche: Il paradosso del voto popolare
Il voto popolare tuttavia è stato conquistato dalla Clinton, che ha ricevuto circa il 48 per cento dei voti contro il 46,6 per cento di Trump. La distanza tra i due candidati è di circa due milioni di voti, ma ci si aspetta che il numero continui a salire dal momento che lo scrutinio non si è ancora concluso in stati popolosi come ad esempio la California.
Alcune ore dopo, Trump ha scritto un nuovo tweet per specificare che "seri brogli elettorali si sono verificati in Virginia, New Hampshire e California", tre stati in cui la Clinton ha vinto, criticando i media che non stanno riportando questa informazione.
Secondo alcuni analisti, al contrario, ci sono le prove della manomissione nelle votazioni dei tre stati in cui il candidato repubblicano Donald Trump ha vinto con uno stretto margine.
Fonte: The Post InternazionaleIn addition to winning the Electoral College in a landslide, I won the popular vote if you deduct the millions of people who voted illegally— Donald J. Trump (@realDonaldTrump) 27 novembre 2016
Fillon ha vinto le primarie del centro destra in Francia
Ammiratore della Thatcher il suo programma prevede una serie di riforme economiche di stampo liberista
François Fillon domenica 27 novembre ha vinto le primarie del centrodestra francese e sarà il candidato del partito repubblicano alle presidenziali del 2017. Fillon, ex primo ministro ammiratore di Margaret Thatcher, ha un piano di riforme liberiste come l’abolizione della settimana lavorativa di 35 ore, l’innalzamento dell’età pensionistica, tagli alla spesa pubblica e abbassamento delle tasse.
“Adesso devo convincere che per l’intera nazione il nostro programma è l’unico modo per far crescere l’occupazione, ripartire l’economia, la crescita e combattere il fanatismo che ci ha dichiarato guerra. È questa la mia inusuale sfida: dire alla Francia la verità e cambiare radicalmente il sistema”, ha detto Fillon visibilmente emozionato durante la conferenza stampa dal quartier generale della sua campagna elettorale.
La vittoria di Fillon sull’avversario Alain Juppé, con un programma centrista più moderato e fino a poche settimane fa dato favorito dai sondaggi, è stata schiacciante: l’ex premier ha ottenuto il 66,5 per cento dei voti.
Le elezioni presidenziali nella seconda economia dell’area Euro sono considerate un’altra tappa fondamentale per testare l’avanzata dei movimenti populisti in Europa, con un elettorato come quello francese arrabbiato a causa dell’alta disoccupazione e spaventato dalla serie di attacchi terroristici degli estremisti islamici negli ultimi due anni.
Tuttavia, in una nazione che è scesa in strada per protestare contro una riforma del lavoro sicuramente più moderata rispetto alle radicali idee di Fillon, il suo programma liberista potrebbe favorire ulteriormente l’estrema destra di Le Pen.
“Per noi è un candidato perfetto, il suo progetto è completamente diverso dal nostro: la cura di austerità proposta dal suo programma porterebbe al caos”, ha infatti commentato Florian Philippot del Front National.
Il partito fondato dal padre di Marine, Jean-Marie, aveva idee simili a quelle di Fillon, ma con l’arrivo della figlia ha radicalmente cambiato le posizioni e adesso promette di abbassare l’età della pensione e aumentare sensibilmente la spesa pubblica.
Nel frattempo la sinistra continua ad essere divisa e incerta sulle prossime tappe. Tutti gli occhi sono puntati sull’attuale presidente François Hollande che a breve dovrebbe annunciare la sua decisione se correre o meno alle primarie del partito socialista a gennaio, mentre si fanno più insistenti le voci che il premier Manuel Valls abbia scelto di candidarsi.
Entrambi, tuttavia, secondo i sondaggi godono di una bassissima popolarità tra gli elettori, ma sperano che il programma liberista di Fillon convinca gli elettori a votare comunque a sinistra. Due settimane fa ha annunciato l’intenzione di correre per l’Eliseo anche l’ex ministro dell’economia di Hollande, Emmanuel Macron, con un programma centrista.
Fonte: The Post Internazionale
François Fillon sarà il candidato all'Eliseo del partito repubblicano. Credit: Gonzalo Fuentes
François Fillon domenica 27 novembre ha vinto le primarie del centrodestra francese e sarà il candidato del partito repubblicano alle presidenziali del 2017. Fillon, ex primo ministro ammiratore di Margaret Thatcher, ha un piano di riforme liberiste come l’abolizione della settimana lavorativa di 35 ore, l’innalzamento dell’età pensionistica, tagli alla spesa pubblica e abbassamento delle tasse.
“Adesso devo convincere che per l’intera nazione il nostro programma è l’unico modo per far crescere l’occupazione, ripartire l’economia, la crescita e combattere il fanatismo che ci ha dichiarato guerra. È questa la mia inusuale sfida: dire alla Francia la verità e cambiare radicalmente il sistema”, ha detto Fillon visibilmente emozionato durante la conferenza stampa dal quartier generale della sua campagna elettorale.
La vittoria di Fillon sull’avversario Alain Juppé, con un programma centrista più moderato e fino a poche settimane fa dato favorito dai sondaggi, è stata schiacciante: l’ex premier ha ottenuto il 66,5 per cento dei voti.
Le elezioni presidenziali nella seconda economia dell’area Euro sono considerate un’altra tappa fondamentale per testare l’avanzata dei movimenti populisti in Europa, con un elettorato come quello francese arrabbiato a causa dell’alta disoccupazione e spaventato dalla serie di attacchi terroristici degli estremisti islamici negli ultimi due anni.
Tuttavia, in una nazione che è scesa in strada per protestare contro una riforma del lavoro sicuramente più moderata rispetto alle radicali idee di Fillon, il suo programma liberista potrebbe favorire ulteriormente l’estrema destra di Le Pen.
“Per noi è un candidato perfetto, il suo progetto è completamente diverso dal nostro: la cura di austerità proposta dal suo programma porterebbe al caos”, ha infatti commentato Florian Philippot del Front National.
Il partito fondato dal padre di Marine, Jean-Marie, aveva idee simili a quelle di Fillon, ma con l’arrivo della figlia ha radicalmente cambiato le posizioni e adesso promette di abbassare l’età della pensione e aumentare sensibilmente la spesa pubblica.
Nel frattempo la sinistra continua ad essere divisa e incerta sulle prossime tappe. Tutti gli occhi sono puntati sull’attuale presidente François Hollande che a breve dovrebbe annunciare la sua decisione se correre o meno alle primarie del partito socialista a gennaio, mentre si fanno più insistenti le voci che il premier Manuel Valls abbia scelto di candidarsi.
Entrambi, tuttavia, secondo i sondaggi godono di una bassissima popolarità tra gli elettori, ma sperano che il programma liberista di Fillon convinca gli elettori a votare comunque a sinistra. Due settimane fa ha annunciato l’intenzione di correre per l’Eliseo anche l’ex ministro dell’economia di Hollande, Emmanuel Macron, con un programma centrista.
Fonte: The Post Internazionale
domenica 27 novembre 2016
Il grande buco di Firenze
È grande come uno stadio e avrebbe dovuto ospitare la nuova stazione per l'alta velocità: dopo 23 anni e quasi 800 milioni di euro spesi, i lavori si sono fermati
Il buco inizia sull’argine del Mugnone, un piccolo affluente dell’Arno, e finisce mezzo chilometro più a nord, all’altezza di via Circondaria. Dall’alto sembra una sottile striscia di terra accanto alle case della zona nord di Firenze, ma le foto satellitari non rendono l’idea delle sue dimensioni. È lungo 450 metri, largo 60 e ha una superficie di 27 mila metri quadrati: quanto lo Stadio Olimpico di Roma. Oggi è profondo dieci metri, ma secondo il progetto le ruspe dovrebbero scendere fino a 40. In questo buco, a meno di due chilometri dal Duomo, dovrebbe sorgere la nuova stazione per treni ad alta velocità di Firenze. È un progetto iniziato nel 1996 che permetterebbe di aumentare il numero di treni per pendolari liberando i binari esistenti da quelli ad alta velocità, di diminuire il traffico in parte della città e di rivitalizzare l’area di Firenze nord. Il tutto grazie a una stazione avveniristica, progettata dallo studio di Norman Foster, uno degli architetti più celebri al mondo. Il problema è che a 40 metri di profondità le ruspe probabilmente non ci arriveranno mai.
«Il progetto di fare una stazione da 30 mila metri quadrati non esiste più», ha detto il sindaco di Firenze Dario Nardella lo scorso 7 novembre, dopo che, pochi giorni prima, aveva ordinato di fermare i camion che dal cantiere portavano via la terra scavata dal fondo del buco. Ma la decisione di fermare i lavori risale almeno alla scorsa primavera, quando a marzo Nardella si incontrò con il presidente del Consiglio Matteo Renzi per discutere lo sviluppo delle infrastrutture cittadine. Oggi il cantiere è semivuoto e i lavori procedono lentamente.
Le ragioni che hanno fermato il progetto sono varie: dal timore che la stazione sia troppo costosa e non riesca a ripagarsi, a quello di causare troppe divisioni in una città delicata, di cui è stato sindaco il presidente del Consiglio, dove sono in corso molti altri progetti altrettanto controversi. Quel che è sicuro è che dopo 23 anni e quasi ottocento milioni di euro spesi, la “stazione Foster” non la vuole più nessuno: non il comune, non il governo e neppure Ferrovie dello Stato.
Fermare la Foster, però, significa lasciare irrisolti i problemi che ne avevano suggerito la costruzione. La rete ferroviaria di Firenze è vicina al punto di saturazione e già oggi i treni per pendolari devono spesso fermarsi a lungo fuori dalla stazione per permettere il passaggio di quelli ad alta velocità. La Toscana pianifica di raddoppiare i treni per pendolari nei prossimi anni, ma non è chiaro come questo obiettivo potrà essere raggiunto se la stazione principale di Firenze, Santa Maria Novella, continuerà a essere affollata di Frecciarossa e altri treni veloci.
È dalla nascita dell’alta velocità, nei primi anni Novanta, che ingegneri e politici studiano come risolvere questo problema. Il primo progetto, nel 1993, prevedeva di dirottare i treni veloci da Santa Maria Novella alla stazione di Campo di Marte, ma fu rapidamente abbandonato. Campo di Marte è in una posizione scomoda, non facile da raggiungere: trasformarla in una grande stazione per treni ad alta velocità avrebbe significato cambiare completamente la viabilità cittadina.
Nel 1996 il progetto Campo di Marte venne abbandonato e si decise per la costruzione di una nuova stazione sotterranea a circa due chilometri a nord di Santa Maria Novella, non molto lontano dal grande buco dove da poche settimane le ruspe hanno smesso di scavare. L’idea era costruire una stazione che i treni veloci avrebbero raggiunto tramite una serie di tunnel, così da liberare sia la stazione di Santa Maria Novella che i binari di superficie, permettendo allo stesso tempo di aumentare i treni per pendolari e creare una linea di metropolitana di superficie nel tratto che oggi è saturato dai treni veloci. Tra il 2002 e il 2003 il progetto venne messo a gara e l’appalto per progettare la stazione venne vinto dallo studio Foster. Per quasi dieci anni il progetto avanzò faticosamente, tra inchieste della magistratura, ostacoli burocratici e polemiche con l’opposizione in consiglio comunale e con i gruppi di cittadini contrari ai lavori. Fu in questo periodo che Matteo Renzi iniziò per la prima volta a interessarsi alla stazione.
Da presidente della provincia Renzi aveva dato il suo assenso ai lavori, ma quando nel 2009 venne eletto sindaco di Firenze iniziò a contestare il progetto. Nel 2011 il suo scontro con il governo, allora presieduto da Silvio Berlusconi, e con l’amministratore delegato di Trenitalia, Mauro Moretti, il più forte sostenitore della stazione, arrivò sulle pagine dei giornali. «O le Ferrovie fanno le cose per bene o le Ferrovie a Firenze le cose non le fanno», disse Renzi: «Questa opera pubblica la vuole il Governo: secondo noi potrebbero risparmiarsela». L’allora ministro per le Infrastrutture, Altero Matteoli, rispose a tono: «Quando Renzi viene a Roma alle riunioni al ministero ringrazia per quanto stiamo facendo e quando riprende il treno per Firenze comincia a criticare. La sua è un’orgia logorroica senza precedenti».
Le trattative proseguirono per mesi e nell’estate del 2011 si raggiunse un compromesso: il gruppo Ferrovie dello Stato non avrebbe più costruito una serie di opere complementari alla stazione Foster, ma in cambio avrebbe versato al comune quasi 100 milioni di euro. In sostanza, in cambio di denaro “contante” Renzi rinunciò alla costruzione di una stazione di superficie accanto alla Foster, che avrebbe permesso ai viaggiatori in arrivo con treni regionali di salire immediatamente sui treni ad alta velocità senza dover arrivare fino a Santa Maria Novelle per poi tornare indietro. Rinunciò anche alle altre stazioni lungo la cintura ferroviaria che circonda la città, che avrebbero permesso di creare un sistema di metropolitana di superficie. Fu una decisione di compromesso, spiega il professor Alessandro Fantechi, autore insieme ad altri esperti di trasporti di un lungo dossier sulla storia della stazione Foster: «Con l’accordo del 2011 il progetto della stazione venne parecchio indebolito. La scelta fu di rinunciare alle stazioni del treno metropolitano e monetizzare questa rinuncia». I lavori su questo progetto oramai ridimensionato proseguirono per i cinque anni successivi. Tre imprese diverse si succedettero ai lavori (prima Coopsette, poi il consorzio Nodavia e infine l’impresa Condotte), iniziando a scavare l’enorme buco che si può vedere ancora oggi.
A dicembre del 2015 il progetto sembrava oramai avviato alla sua conclusione. Le ultime difficoltà burocratiche (una complessa questione su come categorizzare le terre degli scavi) sembravano quasi superate e anche lo scavo del tunnel sotterraneo, bloccato da anni, appariva a un passo dal ripartire. Poi il 26 marzo scorso il Corriere Fiorentino pubblicò in esclusiva la notizia di un incontro avvenuto poche settimane prima tra Renzi e Nardella. Come ha scritto Sergio Rizzo sul Corriere della Sera: «Il premier si presenta al Comune e presiede di fatto una giunta straordinaria per fare il punto sui finanziamenti governativi per le infrastrutture della sua città: in quell’occasione si decreta la fine dello scalo sotterraneo dell’alta velocità che tutti ormai chiamano stazione Foster». Si è trattato della quarta posizione assunta da Renzi sulla Foster: era favorevole da presidente della Provincia, contrario da sindaco, favorevole dopo l’accordo con le Ferrovie e infine nuovamente contrario.
I motivi per fermare la costruzione sono tanti. Come spesso accade con le grandi opere, i costi della stazione sono lievitati: oltre agli 800 milioni di euro già spesi, se ne prevedono altri 700 da spendere nei prossimi tre anni. Inoltre le stazioni posizionate fuori dai centri città si sono dimostrate cattivi investimenti per le Ferrovie dello Stato. La nuova stazione di Roma Tiburtina, costruita poco distante dalla stazione principale e inaugurata nel 2011, avrebbe dovuto ospitare un grande centro commerciale in grado di ripagare i costi di gestione della stazione. I passeggeri, però, preferiscono arrivare alla stazione più vicina al centro, Roma Termini. Tiburtina oggi è quasi deserta e i suoi spazi commerciali sono in buona parte sfitti. Il presidente del Consiglio Matteo Renzi non ha commentato pubblicamente la situazione della stazione Foster. Il Post ha provato a raggiungere Nardella per avere un suo commento, ma il sindaco non è risultato raggiungibile.
La decisione di fermare il cantiere all’improvviso, dopo anni di lavori e dopo aver speso centinaia di milioni di euro, ha sorpreso moltissime persone in città. Secondo Giovanni Mantovani, presidente dell’Associazione italiana per l’ingegneria del traffico e dei trasporti, per quanto il progetto potesse essere discutibile, non ha senso fermarlo oggi: «Interrompere i lavori a questo punto dopo aver fatto un concorso internazionale, aver ottenuto un progetto di altissima qualità e aver fatto dei lavori significativi… uno potrebbe dire: perché non ci avete pensato prima?». Il professor Fantechi è d’accordo con lui: «È una decisione che nasce in maniera un po’ estemporanea, senza uno studio dettagliato su cosa fare nel nodo ferroviario di Firenze».
Oggi al progetto è rimasto un unico difensore: il presidente della Toscana Enrico Rossi, che conta sul fatto che la nuova infrastruttura gli permetta di raddoppiare il traffico per i pendolari come ha promesso di fare. Secondo Ferrovie dello Stato, che da un anno è guidata da Renato Mazzoncini, ex amministratore della municipalizzata dei trasporti di Firenze e considerato molto vicino a Renzi, il traffico dei treni per pendolari potrà essere raddoppiato anche senza spostare i treni da Santa Maria Novella alla stazione Foster. Un nuovo sistema di segnaletica e una gestione più intelligente degli orari dei treni, secondo Mazzoncini, permetterà di raddoppiare il numero di treni nel nodo di Firenze, senza necessità di spostare i convogli ad alta velocità. Non tutti gli esperti, però, sono convinti: «Resta il fatto che una stazione di testa ha dei limiti fisici. Dire che si riuscirà a raddoppiarne la capacità mi lascia perplesso», spiega l’ingegner Mantovani. Le stazioni “di testa” sono quelle – come Santa Maria Novella – in cui i treni non possono passare e poi proseguire la loro corsa, ma devono entrare e poi uscire invertendo la direzione.
Nelle ultime settimane sembra che comune e regione abbiano raggiunto una sorta di accordo che dovrebbe riuscire, almeno in teoria, ad accontentare tutti. Il progetto di costruire una grande stazione sarà abbandonato a favore di una struttura più piccola o addirittura di un ritorno al progetto del 1993: ingrandire la stazione di Campo di Marte e trasformarla nello scalo per i treni ad alta velocità. Il tunnel sotterraneo, invece, sarà costruito in ogni caso, sia per evitare di dover pagare pesanti penali alla ditta che sta lavorando al progetto, sia per liberare i binari di superficie almeno dai treni che non fermano a Firenze (quelli che fermano, invece, continueranno a utilizzare la vecchia linea). Su cosa fare di quel buco grande come uno stadio e costato quasi 800 milioni di euro, però, nessuno sembra avere le idee chiare.
Fonte: Il Post
(Ufficio stampa Condotte)
Il buco inizia sull’argine del Mugnone, un piccolo affluente dell’Arno, e finisce mezzo chilometro più a nord, all’altezza di via Circondaria. Dall’alto sembra una sottile striscia di terra accanto alle case della zona nord di Firenze, ma le foto satellitari non rendono l’idea delle sue dimensioni. È lungo 450 metri, largo 60 e ha una superficie di 27 mila metri quadrati: quanto lo Stadio Olimpico di Roma. Oggi è profondo dieci metri, ma secondo il progetto le ruspe dovrebbero scendere fino a 40. In questo buco, a meno di due chilometri dal Duomo, dovrebbe sorgere la nuova stazione per treni ad alta velocità di Firenze. È un progetto iniziato nel 1996 che permetterebbe di aumentare il numero di treni per pendolari liberando i binari esistenti da quelli ad alta velocità, di diminuire il traffico in parte della città e di rivitalizzare l’area di Firenze nord. Il tutto grazie a una stazione avveniristica, progettata dallo studio di Norman Foster, uno degli architetti più celebri al mondo. Il problema è che a 40 metri di profondità le ruspe probabilmente non ci arriveranno mai.
Una fotografia satellitare dell’area dei lavori
«Il progetto di fare una stazione da 30 mila metri quadrati non esiste più», ha detto il sindaco di Firenze Dario Nardella lo scorso 7 novembre, dopo che, pochi giorni prima, aveva ordinato di fermare i camion che dal cantiere portavano via la terra scavata dal fondo del buco. Ma la decisione di fermare i lavori risale almeno alla scorsa primavera, quando a marzo Nardella si incontrò con il presidente del Consiglio Matteo Renzi per discutere lo sviluppo delle infrastrutture cittadine. Oggi il cantiere è semivuoto e i lavori procedono lentamente.
Le ragioni che hanno fermato il progetto sono varie: dal timore che la stazione sia troppo costosa e non riesca a ripagarsi, a quello di causare troppe divisioni in una città delicata, di cui è stato sindaco il presidente del Consiglio, dove sono in corso molti altri progetti altrettanto controversi. Quel che è sicuro è che dopo 23 anni e quasi ottocento milioni di euro spesi, la “stazione Foster” non la vuole più nessuno: non il comune, non il governo e neppure Ferrovie dello Stato.
Fermare la Foster, però, significa lasciare irrisolti i problemi che ne avevano suggerito la costruzione. La rete ferroviaria di Firenze è vicina al punto di saturazione e già oggi i treni per pendolari devono spesso fermarsi a lungo fuori dalla stazione per permettere il passaggio di quelli ad alta velocità. La Toscana pianifica di raddoppiare i treni per pendolari nei prossimi anni, ma non è chiaro come questo obiettivo potrà essere raggiunto se la stazione principale di Firenze, Santa Maria Novella, continuerà a essere affollata di Frecciarossa e altri treni veloci.
È dalla nascita dell’alta velocità, nei primi anni Novanta, che ingegneri e politici studiano come risolvere questo problema. Il primo progetto, nel 1993, prevedeva di dirottare i treni veloci da Santa Maria Novella alla stazione di Campo di Marte, ma fu rapidamente abbandonato. Campo di Marte è in una posizione scomoda, non facile da raggiungere: trasformarla in una grande stazione per treni ad alta velocità avrebbe significato cambiare completamente la viabilità cittadina.
Nel 1996 il progetto Campo di Marte venne abbandonato e si decise per la costruzione di una nuova stazione sotterranea a circa due chilometri a nord di Santa Maria Novella, non molto lontano dal grande buco dove da poche settimane le ruspe hanno smesso di scavare. L’idea era costruire una stazione che i treni veloci avrebbero raggiunto tramite una serie di tunnel, così da liberare sia la stazione di Santa Maria Novella che i binari di superficie, permettendo allo stesso tempo di aumentare i treni per pendolari e creare una linea di metropolitana di superficie nel tratto che oggi è saturato dai treni veloci. Tra il 2002 e il 2003 il progetto venne messo a gara e l’appalto per progettare la stazione venne vinto dallo studio Foster. Per quasi dieci anni il progetto avanzò faticosamente, tra inchieste della magistratura, ostacoli burocratici e polemiche con l’opposizione in consiglio comunale e con i gruppi di cittadini contrari ai lavori. Fu in questo periodo che Matteo Renzi iniziò per la prima volta a interessarsi alla stazione.
Da presidente della provincia Renzi aveva dato il suo assenso ai lavori, ma quando nel 2009 venne eletto sindaco di Firenze iniziò a contestare il progetto. Nel 2011 il suo scontro con il governo, allora presieduto da Silvio Berlusconi, e con l’amministratore delegato di Trenitalia, Mauro Moretti, il più forte sostenitore della stazione, arrivò sulle pagine dei giornali. «O le Ferrovie fanno le cose per bene o le Ferrovie a Firenze le cose non le fanno», disse Renzi: «Questa opera pubblica la vuole il Governo: secondo noi potrebbero risparmiarsela». L’allora ministro per le Infrastrutture, Altero Matteoli, rispose a tono: «Quando Renzi viene a Roma alle riunioni al ministero ringrazia per quanto stiamo facendo e quando riprende il treno per Firenze comincia a criticare. La sua è un’orgia logorroica senza precedenti».
Le trattative proseguirono per mesi e nell’estate del 2011 si raggiunse un compromesso: il gruppo Ferrovie dello Stato non avrebbe più costruito una serie di opere complementari alla stazione Foster, ma in cambio avrebbe versato al comune quasi 100 milioni di euro. In sostanza, in cambio di denaro “contante” Renzi rinunciò alla costruzione di una stazione di superficie accanto alla Foster, che avrebbe permesso ai viaggiatori in arrivo con treni regionali di salire immediatamente sui treni ad alta velocità senza dover arrivare fino a Santa Maria Novelle per poi tornare indietro. Rinunciò anche alle altre stazioni lungo la cintura ferroviaria che circonda la città, che avrebbero permesso di creare un sistema di metropolitana di superficie. Fu una decisione di compromesso, spiega il professor Alessandro Fantechi, autore insieme ad altri esperti di trasporti di un lungo dossier sulla storia della stazione Foster: «Con l’accordo del 2011 il progetto della stazione venne parecchio indebolito. La scelta fu di rinunciare alle stazioni del treno metropolitano e monetizzare questa rinuncia». I lavori su questo progetto oramai ridimensionato proseguirono per i cinque anni successivi. Tre imprese diverse si succedettero ai lavori (prima Coopsette, poi il consorzio Nodavia e infine l’impresa Condotte), iniziando a scavare l’enorme buco che si può vedere ancora oggi.
A dicembre del 2015 il progetto sembrava oramai avviato alla sua conclusione. Le ultime difficoltà burocratiche (una complessa questione su come categorizzare le terre degli scavi) sembravano quasi superate e anche lo scavo del tunnel sotterraneo, bloccato da anni, appariva a un passo dal ripartire. Poi il 26 marzo scorso il Corriere Fiorentino pubblicò in esclusiva la notizia di un incontro avvenuto poche settimane prima tra Renzi e Nardella. Come ha scritto Sergio Rizzo sul Corriere della Sera: «Il premier si presenta al Comune e presiede di fatto una giunta straordinaria per fare il punto sui finanziamenti governativi per le infrastrutture della sua città: in quell’occasione si decreta la fine dello scalo sotterraneo dell’alta velocità che tutti ormai chiamano stazione Foster». Si è trattato della quarta posizione assunta da Renzi sulla Foster: era favorevole da presidente della Provincia, contrario da sindaco, favorevole dopo l’accordo con le Ferrovie e infine nuovamente contrario.
I motivi per fermare la costruzione sono tanti. Come spesso accade con le grandi opere, i costi della stazione sono lievitati: oltre agli 800 milioni di euro già spesi, se ne prevedono altri 700 da spendere nei prossimi tre anni. Inoltre le stazioni posizionate fuori dai centri città si sono dimostrate cattivi investimenti per le Ferrovie dello Stato. La nuova stazione di Roma Tiburtina, costruita poco distante dalla stazione principale e inaugurata nel 2011, avrebbe dovuto ospitare un grande centro commerciale in grado di ripagare i costi di gestione della stazione. I passeggeri, però, preferiscono arrivare alla stazione più vicina al centro, Roma Termini. Tiburtina oggi è quasi deserta e i suoi spazi commerciali sono in buona parte sfitti. Il presidente del Consiglio Matteo Renzi non ha commentato pubblicamente la situazione della stazione Foster. Il Post ha provato a raggiungere Nardella per avere un suo commento, ma il sindaco non è risultato raggiungibile.
Uno schema dei progetti alternativi realizzato da RFI
La decisione di fermare il cantiere all’improvviso, dopo anni di lavori e dopo aver speso centinaia di milioni di euro, ha sorpreso moltissime persone in città. Secondo Giovanni Mantovani, presidente dell’Associazione italiana per l’ingegneria del traffico e dei trasporti, per quanto il progetto potesse essere discutibile, non ha senso fermarlo oggi: «Interrompere i lavori a questo punto dopo aver fatto un concorso internazionale, aver ottenuto un progetto di altissima qualità e aver fatto dei lavori significativi… uno potrebbe dire: perché non ci avete pensato prima?». Il professor Fantechi è d’accordo con lui: «È una decisione che nasce in maniera un po’ estemporanea, senza uno studio dettagliato su cosa fare nel nodo ferroviario di Firenze».
Oggi al progetto è rimasto un unico difensore: il presidente della Toscana Enrico Rossi, che conta sul fatto che la nuova infrastruttura gli permetta di raddoppiare il traffico per i pendolari come ha promesso di fare. Secondo Ferrovie dello Stato, che da un anno è guidata da Renato Mazzoncini, ex amministratore della municipalizzata dei trasporti di Firenze e considerato molto vicino a Renzi, il traffico dei treni per pendolari potrà essere raddoppiato anche senza spostare i treni da Santa Maria Novella alla stazione Foster. Un nuovo sistema di segnaletica e una gestione più intelligente degli orari dei treni, secondo Mazzoncini, permetterà di raddoppiare il numero di treni nel nodo di Firenze, senza necessità di spostare i convogli ad alta velocità. Non tutti gli esperti, però, sono convinti: «Resta il fatto che una stazione di testa ha dei limiti fisici. Dire che si riuscirà a raddoppiarne la capacità mi lascia perplesso», spiega l’ingegner Mantovani. Le stazioni “di testa” sono quelle – come Santa Maria Novella – in cui i treni non possono passare e poi proseguire la loro corsa, ma devono entrare e poi uscire invertendo la direzione.
Nelle ultime settimane sembra che comune e regione abbiano raggiunto una sorta di accordo che dovrebbe riuscire, almeno in teoria, ad accontentare tutti. Il progetto di costruire una grande stazione sarà abbandonato a favore di una struttura più piccola o addirittura di un ritorno al progetto del 1993: ingrandire la stazione di Campo di Marte e trasformarla nello scalo per i treni ad alta velocità. Il tunnel sotterraneo, invece, sarà costruito in ogni caso, sia per evitare di dover pagare pesanti penali alla ditta che sta lavorando al progetto, sia per liberare i binari di superficie almeno dai treni che non fermano a Firenze (quelli che fermano, invece, continueranno a utilizzare la vecchia linea). Su cosa fare di quel buco grande come uno stadio e costato quasi 800 milioni di euro, però, nessuno sembra avere le idee chiare.
Fonte: Il Post
Attentato contro una caserma a Bologna
Un ordigno è esploso in una caserma dei carabinieri senza fare vittime. Oggi il presidente del consiglio Matteo Renzi si trova nel capoluogo
Un ordigno è esploso nella notte tra il 26 e il 27 di novembre all'ingresso di una caserma dei carabinieri nella zona di Corticella, alla periferia di Bologna, senza uccidere o ferire nessuno. Secondo i media si è trattato di un ordigno artigianale composto da due taniche di benzina e una miccia, fatto che lascerebbe pensare alla pista anarchica.
Nell'esplosione, avvenuta intorno alle tre di notte, è stata divelta la porta e sono andati in frantumi i vetri dell'ingresso e delle finestre al pian terreno. Il ministro dell'Ambiente Gianluca Galletti - che è di Bologna - si è recato sul posto definendo l'attentato un gesto vigliacco. Anche il sindaco del capoluogo emiliano, Virginio Merola, ha condannato il gesto.
Non è chiaro se ci siano legami col fatto che il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, si trova il 27 novembre a Bologna per un evento elettorale in vista del referendum costituzionale del 4 dicembre.
Fonte: The Post Internazionale
Un ordigno è esploso nella notte tra il 26 e il 27 di novembre all'ingresso di una caserma dei carabinieri nella zona di Corticella, alla periferia di Bologna, senza uccidere o ferire nessuno. Secondo i media si è trattato di un ordigno artigianale composto da due taniche di benzina e una miccia, fatto che lascerebbe pensare alla pista anarchica.
Nell'esplosione, avvenuta intorno alle tre di notte, è stata divelta la porta e sono andati in frantumi i vetri dell'ingresso e delle finestre al pian terreno. Il ministro dell'Ambiente Gianluca Galletti - che è di Bologna - si è recato sul posto definendo l'attentato un gesto vigliacco. Anche il sindaco del capoluogo emiliano, Virginio Merola, ha condannato il gesto.
Non è chiaro se ci siano legami col fatto che il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, si trova il 27 novembre a Bologna per un evento elettorale in vista del referendum costituzionale del 4 dicembre.
Fonte: The Post Internazionale
sabato 26 novembre 2016
Il sindaco di Agropoli e le frasi sulle clientele: «De Luca è fatto così… con me scherza…»
Franco Alfieri risponde alle polemiche: «Mi posso mai offendere con il presidente?»
«Il presidente è fatto così. Usa con me un linguaggio scherzoso, mi prende un po’ in giro». Risponde così alle polemiche degli ultimi giorni Franco Alfieri, sindaco di Agropoli, al quale si rivolgeva il governatore campano Vincenzo De Luca in un’intervento (poi pubblicato dal Fatto Quotidiano) in cui invitava gli amministratori locali ad utilizzare tutti i mezzi possibili (clientele comprese) per sostenere il Sì al referendum. Nella registrazione il presidente di Regione definiva Alfieri un «signore della clientela come Cristo comanda».
FRANCO ALFIERI SU VINCENZO DE LUCA: «LUI SCHERZA… MI PRENDE UN PO’ IN GIRO…»
Intervistato da Conchita Sannino per Repubblica, il primo cittadino del comune cilentano, oggi minimizza:
Sindaco, quelle parole di De Luca non aiutano il suo profilo di statista?
«Non posso certo dire che mi abbia fatto piacere. Però, che devo dirle? Mi posso mai offendere con De Luca? Il presidente è fatto così. Usa con me un linguaggio scherzoso, mi prende un po’ in giro. Però è ovvio che avrei voluto che non accadesse. Ma ormai si fanno battute, tutti a chiedermi se porto la frittura di pesce».
Nell’intervista Alfieri ha anche parlato dell’inchiesta che lo vede coinvolto per abuso e peculato insieme ad alcuni suoi fedelissimi e al fratello della deputata Pd del territorio Sabrina Capozzolo, funzionario da lui richiamato ad Agropoli. L’ipotesi è che il sindaco, come membro dell’Unione Comuni Alto Cilento, avrebbe favorito dirigenti e funzionari amici elargendo premi a titolo di ricompensa per aver recuperato quote di Tarsu:
Lei, già accusato di corruzione e salvo grazie alla prescrizione, ora è indagato per peculato e abuso.
«Ripeto: è solo un avviso di chiusura indagini, mica è una condanna. Io poi, come membro dell’Unione dei Comuni mi sono limitato a un atto di indirizzo. Poi che cosa ne so se nella gestione vi sono state inefficienze, o negligenze. Noi abbiamo fatto una cosa prevista dalla legge: ordinare recupero delle somme Tarsu e prevedere una ricompensa».
(Foto di copertina: ANSA / CESARE ABBATE)
Fonte: Giornalettismo
«Il presidente è fatto così. Usa con me un linguaggio scherzoso, mi prende un po’ in giro». Risponde così alle polemiche degli ultimi giorni Franco Alfieri, sindaco di Agropoli, al quale si rivolgeva il governatore campano Vincenzo De Luca in un’intervento (poi pubblicato dal Fatto Quotidiano) in cui invitava gli amministratori locali ad utilizzare tutti i mezzi possibili (clientele comprese) per sostenere il Sì al referendum. Nella registrazione il presidente di Regione definiva Alfieri un «signore della clientela come Cristo comanda».
FRANCO ALFIERI SU VINCENZO DE LUCA: «LUI SCHERZA… MI PRENDE UN PO’ IN GIRO…»
Intervistato da Conchita Sannino per Repubblica, il primo cittadino del comune cilentano, oggi minimizza:
Sindaco, quelle parole di De Luca non aiutano il suo profilo di statista?
«Non posso certo dire che mi abbia fatto piacere. Però, che devo dirle? Mi posso mai offendere con De Luca? Il presidente è fatto così. Usa con me un linguaggio scherzoso, mi prende un po’ in giro. Però è ovvio che avrei voluto che non accadesse. Ma ormai si fanno battute, tutti a chiedermi se porto la frittura di pesce».
Nell’intervista Alfieri ha anche parlato dell’inchiesta che lo vede coinvolto per abuso e peculato insieme ad alcuni suoi fedelissimi e al fratello della deputata Pd del territorio Sabrina Capozzolo, funzionario da lui richiamato ad Agropoli. L’ipotesi è che il sindaco, come membro dell’Unione Comuni Alto Cilento, avrebbe favorito dirigenti e funzionari amici elargendo premi a titolo di ricompensa per aver recuperato quote di Tarsu:
Lei, già accusato di corruzione e salvo grazie alla prescrizione, ora è indagato per peculato e abuso.
«Ripeto: è solo un avviso di chiusura indagini, mica è una condanna. Io poi, come membro dell’Unione dei Comuni mi sono limitato a un atto di indirizzo. Poi che cosa ne so se nella gestione vi sono state inefficienze, o negligenze. Noi abbiamo fatto una cosa prevista dalla legge: ordinare recupero delle somme Tarsu e prevedere una ricompensa».
(Foto di copertina: ANSA / CESARE ABBATE)
Fonte: Giornalettismo
Fidel Castro è morto, davvero
Lo ha annunciato suo fratello Raúl stanotte: l'ex presidente di Cuba e leader della rivoluzione del 1959 aveva 90 anni
L’ex presidente cubano Fidel Castro è morto a 90 anni nella notte tra venerdì e sabato, ha annunciato suo fratello Raúl, attuale presidente di Cuba. «Il comandante della rivoluzione cubana è morto alle 22.29 di questa sera [le 4.29 in Italia, ndt]», ha detto. Castro, che era nato il 13 agosto 1926, è stato una delle personalità più importanti del Novecento. Negli anni Cinquanta aveva guidato la rivoluzione che aveva rovesciato il regime del dittatore Fulgencio Batista, e per i quasi cinquant’anni successivi ha governato Cuba, a capo di un regime comunista spesso accusato di gravi violazioni dei diritti civili, che nella seconda metà del Novecento fu tra i principali avversari degli Stati Uniti e tra i protagonisti della guerra fredda. Castro fu primo ministro dal 1959 al 1976, e poi presidente fino al 2008: è stato il leader nazionale che ha detenuto il potere per più tempo, nel Novecento, dopo la Regina Elisabetta II.
Da tempo Castro non era in buone condizioni di salute. Più volte negli ultimi anni era girata la falsa notizia della sua morte: il fatto che non lo si vedesse spesso in pubblico, nelle cerimonie importanti, aveva fatto pensare più volte che stesse per morire, anche nella stessa Cuba. Falsi annunci sulla sua morte sono apparsi almeno una decina di volte sui media online. Nel 2006, in seguito a una grave malattia, Castro aveva delegato il potere al fratello Raúl, ma esercitava ancora una grande influenza sulla vita politica del paese. A volte scriveva degli editoriali sul maggior quotidiano del paese, Granma, ma già nel 2011 aveva ceduto al fratello anche la carica di primo segretario del Partito comunista. Lo scorso aprile aveva tenuto un raro discorso al Congresso del Partito Comunista Cubano.
Il governo cubano ha indetto nove giorni di lutto nazionale, a partire da oggi: saranno sospesi tutti gli eventi pubblici, le bandiere saranno a mezz’asta e le radio e le televisioni trasmetteranno programmi «di informazione, patriottici e storici». Castro sarà cremato, e le sue ceneri saranno seppellite al cimitero Santa Ifigenia di Santiago de Cuba. I funerali di stato si terranno il 4 dicembre, e il 29 novembre sarà organizzata una cerimonia pubblica a L’Avana. Tra i primi leader internazionali a commentare la morte di Castro c’è stato il presidente russo Vladimir Putin, che lo ha definito «il simbolo di un’era», e ha ricordato la sua amicizia e alleanza con la Russia. Il presidente francese Francois Hollande ha descritto Castro come una «figura eminente del 20esimo secolo, che ha incarnato la rivoluzione cubana, sia nelle sue speranze che nelle sue successive disillusioni». Hollande però ha anche ricordato il passato di violazioni dei diritti umani della dittatura cubana.
Castro trasformò Cuba in uno degli stati protagonisti della geopolitica internazionale durante la guerra fredda: l’importanza internazionale dell’isola ebbe il suo culmine durante la cosiddetta “crisi dei missili” del 1962, il momento di massima tensione della rivalità tra Stati Uniti e Unione Sovietica, che schierò sull’isola i suoi missili nucleari dopo un fallito tentativo di invasione degli americani. Castro aveva fatto il suo ingresso a L’Avana nel 1959 a bordo di un carro armato, in una delle immagini più famose della rivoluzione e di tutto il Novecento, e nei cinquant’anni che seguirono governò l’isola con una passione politica con pochi eguali nel mondo, che attirò sulla sua figura molte celebrazioni, insieme alle moltissime critiche e accuse per il carattere totalitario del suo regime comunista. Negli ultimi due anni, per volere di Raúl Castro e soprattutto di Barack Obama, le relazioni tra Cuba e Stati Uniti sono cambiate per la prima volta, dopo la decisione del presidente statunitense di porre fine all’embargo sull’isola e la sua successiva storica visita all’Avana. Nella notte tra venerdì e sabato, subito dopo l’arrivo della notizia della morte di Castro, decine di oppositori del regime hanno festeggiato per le strade di Little Havana, il quartiere cubano di Miami, in Florida.
Castro era figlio di un proprietario terriero di origine spagnola, Fidel Alejandro Castro Ruz. Da giovane studiò giurisprudenza e all’inizio degli anni Cinquanta fece praticantato per diventare avvocato in uno studio legale, coltivando intanto la passione per la politica. Quando nel 1952 Batista realizzò un colpo di stato, dopo la sua mancata rielezione a presidente, Castro prima lo denunciò per aver violato la Costituzione, e poi organizzò un assalto armato alla caserma della Moncada, a Santiago. L’attacco non ebbe successo ma diede il nome al gruppo di Castro e dei suoi sostenitori: da allora si chiamarono “Movimento del 26 di luglio”, dal giorno in cui avvenne l’attacco fallito.
Dopo l’assalto alla caserma della Moncada, Castro fu arrestato e condannato a 15 anni di carcere, ma grazie a un’amnistia nel 1955 poté uscire di prigione e andare in esilio, prima in Messico e poi negli Stati Uniti. Mentre era in Costa Rica, incontrò Che Guevara, che in quel periodo stava viaggiando tra i paesi dell’America Latina. Castro tornò a Cuba nel 1956: lui e gli altri organizzatori della rivoluzione, tra cui lo stesso Che Guevara, arrivarono sull’isola a bordo di una barca chiamata Granma, da cui prese il nome il più importante quotidiano di Cuba. La lotta del gruppo contro la dittatura di Batista avvenne principalmente grazie ad azioni di guerriglia: la base dei combattenti era nelle montagne della Sierra Maestra. Dopo due anni di scontri, Castro e il suo gruppo di guerriglieri, che nel tempo arrivò a essere composto di circa 800 persone, entrarono vittoriosi a L’Avana. Batista fuggì da Cuba il giorno di Capodanno del 1959.
Castro era famoso per essere un abile oratore (anche non conoscendo lo spagnolo, lo si capisce facilmente ascoltando alcuni dei suoi discorsi che erano noti anche per essere molto lunghi), ma anche per le sue doti militari che gli permisero di vincere contro l’esercito di Batista, oltre che di sventare numerosi attentati alla sua vita nel corso del tempo. Portò Cuba fuori dall’influenza politica ed economica degli Stati Uniti, dopo aver smantellato l’esercito tradizionale – quello contro cui aveva combattuto durante gli anni di guerriglia – e avere nazionalizzato le terre e le raffinerie, che erano di proprietà di aziende statunitensi. Era chiamato anche Líder Máximo (cioè “Condottiero Supremo”) da quando, nel 1961, sventò un tentativo degli Stati Uniti di mettere fine al suo governo a Cuba: nell’aprile di quell’anno, infatti, ci fu la famosa invasione fallita della baia dei Porci, dopo la quale i rapporti tra Cuba e Stati Uniti si interruppero e Cuba cominciò a ricevere aiuti economici e militari dall’Unione Sovietica.
Il governo di Castro si trasformò in breve in una dittatura comunista, anche se all’inizio non era questo l’orientamento politico di Castro, tanto che gli Stati Uniti avevano subito riconosciuto il nuovo esecutivo come legittimo. Ogni forma di dissenso politico fu repressa e la stampa cominciò a essere fortemente controllata dal governo. Almeno negli anni degli aiuti dall’Unione Sovietica, Castro mantenne un ampio consenso grazie alle conquiste sociali realizzate dalla rivoluzione. Negli anni Cuba è stata accusata più volte da organizzazioni e governi occidentali di non rispettare i diritti umani e civili fondamentali. Fin dal 1959, i rivoluzionari processarono diverse persone accusate di appoggiare Batista, che furono imprigionate o giustiziate. Lo storico Thomas Elliot Skidmore ha calcolato che ci furono 550 esecuzioni durante i primi sei mesi del 1959.
Castro ebbe sempre l’appoggio del Partido comunista cubano (PCC, che nacque dalla fusione del “Movimento del 26 di luglio” con il Partido Socialista Popularm che esisteva prima della rivoluzione) e negli anni Settanta consolidò il suo potere: fu sempre confermato come segretario del Partito e dal 1976, quando fu approvata la nuova Costituzione, fu eletto presidente del Consiglio di Stato e del nuovo Consiglio dei ministri. In questo ruolo fu riconfermato nel 1981 e nel 1986; in quel periodo iniziarono però per Cuba gli anni più complicati, legati alla fine degli aiuti sovietici.
Dopo il 1989, la fine della Guerra Fredda e la fine dell’Unione Sovietica, il paese rimase infatti in una situazione di isolamento economico internazionale e di grande crisi. Nel 1993 l’economia cubana si era contratta del 40 per cento. Castro proseguì nell’affermazione di un modello di economia pianificata di stampo socialista: rafforzò il controllo dello Stato, nazionalizzò ulteriormente l’industria e collettivizzò l’agricoltura. Poi però si decise ad aprire in qualche modo il paese all’economia internazionale, ad esempio favorendo lo sviluppo del turismo creando degli accordi con alcune catene di hotel di lusso. Nel 2006 Castro lasciò per la prima volta l’incarico di presidente al fratello perché dovette farsi operare all’intestino; l’avvicendamento al potere in seguito divenne definitivo. Raúl è ora al suo secondo mandato: è stato eletto il 24 febbraio 2008 e poi riconfermato il 24 febbraio 2013.
Fonte: Il Post
(ADALBERTO ROQUE/AFP/Getty Images)
L’ex presidente cubano Fidel Castro è morto a 90 anni nella notte tra venerdì e sabato, ha annunciato suo fratello Raúl, attuale presidente di Cuba. «Il comandante della rivoluzione cubana è morto alle 22.29 di questa sera [le 4.29 in Italia, ndt]», ha detto. Castro, che era nato il 13 agosto 1926, è stato una delle personalità più importanti del Novecento. Negli anni Cinquanta aveva guidato la rivoluzione che aveva rovesciato il regime del dittatore Fulgencio Batista, e per i quasi cinquant’anni successivi ha governato Cuba, a capo di un regime comunista spesso accusato di gravi violazioni dei diritti civili, che nella seconda metà del Novecento fu tra i principali avversari degli Stati Uniti e tra i protagonisti della guerra fredda. Castro fu primo ministro dal 1959 al 1976, e poi presidente fino al 2008: è stato il leader nazionale che ha detenuto il potere per più tempo, nel Novecento, dopo la Regina Elisabetta II.
Da tempo Castro non era in buone condizioni di salute. Più volte negli ultimi anni era girata la falsa notizia della sua morte: il fatto che non lo si vedesse spesso in pubblico, nelle cerimonie importanti, aveva fatto pensare più volte che stesse per morire, anche nella stessa Cuba. Falsi annunci sulla sua morte sono apparsi almeno una decina di volte sui media online. Nel 2006, in seguito a una grave malattia, Castro aveva delegato il potere al fratello Raúl, ma esercitava ancora una grande influenza sulla vita politica del paese. A volte scriveva degli editoriali sul maggior quotidiano del paese, Granma, ma già nel 2011 aveva ceduto al fratello anche la carica di primo segretario del Partito comunista. Lo scorso aprile aveva tenuto un raro discorso al Congresso del Partito Comunista Cubano.
Il governo cubano ha indetto nove giorni di lutto nazionale, a partire da oggi: saranno sospesi tutti gli eventi pubblici, le bandiere saranno a mezz’asta e le radio e le televisioni trasmetteranno programmi «di informazione, patriottici e storici». Castro sarà cremato, e le sue ceneri saranno seppellite al cimitero Santa Ifigenia di Santiago de Cuba. I funerali di stato si terranno il 4 dicembre, e il 29 novembre sarà organizzata una cerimonia pubblica a L’Avana. Tra i primi leader internazionali a commentare la morte di Castro c’è stato il presidente russo Vladimir Putin, che lo ha definito «il simbolo di un’era», e ha ricordato la sua amicizia e alleanza con la Russia. Il presidente francese Francois Hollande ha descritto Castro come una «figura eminente del 20esimo secolo, che ha incarnato la rivoluzione cubana, sia nelle sue speranze che nelle sue successive disillusioni». Hollande però ha anche ricordato il passato di violazioni dei diritti umani della dittatura cubana.
Información de Raúl Castro sobre el fallecimiento del líder de la Revolución Cubana #FidelCastro #Cuba pic.twitter.com/vSwWY3gdiH— CubanitoenCuba (@CubanitoenCuba) 26 novembre 2016
Castro trasformò Cuba in uno degli stati protagonisti della geopolitica internazionale durante la guerra fredda: l’importanza internazionale dell’isola ebbe il suo culmine durante la cosiddetta “crisi dei missili” del 1962, il momento di massima tensione della rivalità tra Stati Uniti e Unione Sovietica, che schierò sull’isola i suoi missili nucleari dopo un fallito tentativo di invasione degli americani. Castro aveva fatto il suo ingresso a L’Avana nel 1959 a bordo di un carro armato, in una delle immagini più famose della rivoluzione e di tutto il Novecento, e nei cinquant’anni che seguirono governò l’isola con una passione politica con pochi eguali nel mondo, che attirò sulla sua figura molte celebrazioni, insieme alle moltissime critiche e accuse per il carattere totalitario del suo regime comunista. Negli ultimi due anni, per volere di Raúl Castro e soprattutto di Barack Obama, le relazioni tra Cuba e Stati Uniti sono cambiate per la prima volta, dopo la decisione del presidente statunitense di porre fine all’embargo sull’isola e la sua successiva storica visita all’Avana. Nella notte tra venerdì e sabato, subito dopo l’arrivo della notizia della morte di Castro, decine di oppositori del regime hanno festeggiato per le strade di Little Havana, il quartiere cubano di Miami, in Florida.
Cubans march down Calle Ocho in Little Havana in Miami celebrating Fidel Castro's death (raining & almost 2am but that won't stop the party) pic.twitter.com/LxvWAuxGsO— Vera Bergengruen (@VeraMBergen) 26 novembre 2016
Castro era figlio di un proprietario terriero di origine spagnola, Fidel Alejandro Castro Ruz. Da giovane studiò giurisprudenza e all’inizio degli anni Cinquanta fece praticantato per diventare avvocato in uno studio legale, coltivando intanto la passione per la politica. Quando nel 1952 Batista realizzò un colpo di stato, dopo la sua mancata rielezione a presidente, Castro prima lo denunciò per aver violato la Costituzione, e poi organizzò un assalto armato alla caserma della Moncada, a Santiago. L’attacco non ebbe successo ma diede il nome al gruppo di Castro e dei suoi sostenitori: da allora si chiamarono “Movimento del 26 di luglio”, dal giorno in cui avvenne l’attacco fallito.
Dopo l’assalto alla caserma della Moncada, Castro fu arrestato e condannato a 15 anni di carcere, ma grazie a un’amnistia nel 1955 poté uscire di prigione e andare in esilio, prima in Messico e poi negli Stati Uniti. Mentre era in Costa Rica, incontrò Che Guevara, che in quel periodo stava viaggiando tra i paesi dell’America Latina. Castro tornò a Cuba nel 1956: lui e gli altri organizzatori della rivoluzione, tra cui lo stesso Che Guevara, arrivarono sull’isola a bordo di una barca chiamata Granma, da cui prese il nome il più importante quotidiano di Cuba. La lotta del gruppo contro la dittatura di Batista avvenne principalmente grazie ad azioni di guerriglia: la base dei combattenti era nelle montagne della Sierra Maestra. Dopo due anni di scontri, Castro e il suo gruppo di guerriglieri, che nel tempo arrivò a essere composto di circa 800 persone, entrarono vittoriosi a L’Avana. Batista fuggì da Cuba il giorno di Capodanno del 1959.
Castro era famoso per essere un abile oratore (anche non conoscendo lo spagnolo, lo si capisce facilmente ascoltando alcuni dei suoi discorsi che erano noti anche per essere molto lunghi), ma anche per le sue doti militari che gli permisero di vincere contro l’esercito di Batista, oltre che di sventare numerosi attentati alla sua vita nel corso del tempo. Portò Cuba fuori dall’influenza politica ed economica degli Stati Uniti, dopo aver smantellato l’esercito tradizionale – quello contro cui aveva combattuto durante gli anni di guerriglia – e avere nazionalizzato le terre e le raffinerie, che erano di proprietà di aziende statunitensi. Era chiamato anche Líder Máximo (cioè “Condottiero Supremo”) da quando, nel 1961, sventò un tentativo degli Stati Uniti di mettere fine al suo governo a Cuba: nell’aprile di quell’anno, infatti, ci fu la famosa invasione fallita della baia dei Porci, dopo la quale i rapporti tra Cuba e Stati Uniti si interruppero e Cuba cominciò a ricevere aiuti economici e militari dall’Unione Sovietica.
Il governo di Castro si trasformò in breve in una dittatura comunista, anche se all’inizio non era questo l’orientamento politico di Castro, tanto che gli Stati Uniti avevano subito riconosciuto il nuovo esecutivo come legittimo. Ogni forma di dissenso politico fu repressa e la stampa cominciò a essere fortemente controllata dal governo. Almeno negli anni degli aiuti dall’Unione Sovietica, Castro mantenne un ampio consenso grazie alle conquiste sociali realizzate dalla rivoluzione. Negli anni Cuba è stata accusata più volte da organizzazioni e governi occidentali di non rispettare i diritti umani e civili fondamentali. Fin dal 1959, i rivoluzionari processarono diverse persone accusate di appoggiare Batista, che furono imprigionate o giustiziate. Lo storico Thomas Elliot Skidmore ha calcolato che ci furono 550 esecuzioni durante i primi sei mesi del 1959.
Castro ebbe sempre l’appoggio del Partido comunista cubano (PCC, che nacque dalla fusione del “Movimento del 26 di luglio” con il Partido Socialista Popularm che esisteva prima della rivoluzione) e negli anni Settanta consolidò il suo potere: fu sempre confermato come segretario del Partito e dal 1976, quando fu approvata la nuova Costituzione, fu eletto presidente del Consiglio di Stato e del nuovo Consiglio dei ministri. In questo ruolo fu riconfermato nel 1981 e nel 1986; in quel periodo iniziarono però per Cuba gli anni più complicati, legati alla fine degli aiuti sovietici.
Parte del discorso che Fidel Castro tenne davanti all’assemblea delle Nazioni Unite nel 1979, parlando delle ineguaglianze tra paesi sviluppati e no:
Dopo il 1989, la fine della Guerra Fredda e la fine dell’Unione Sovietica, il paese rimase infatti in una situazione di isolamento economico internazionale e di grande crisi. Nel 1993 l’economia cubana si era contratta del 40 per cento. Castro proseguì nell’affermazione di un modello di economia pianificata di stampo socialista: rafforzò il controllo dello Stato, nazionalizzò ulteriormente l’industria e collettivizzò l’agricoltura. Poi però si decise ad aprire in qualche modo il paese all’economia internazionale, ad esempio favorendo lo sviluppo del turismo creando degli accordi con alcune catene di hotel di lusso. Nel 2006 Castro lasciò per la prima volta l’incarico di presidente al fratello perché dovette farsi operare all’intestino; l’avvicendamento al potere in seguito divenne definitivo. Raúl è ora al suo secondo mandato: è stato eletto il 24 febbraio 2008 e poi riconfermato il 24 febbraio 2013.
Fonte: Il Post
venerdì 25 novembre 2016
Giornata internazionale contro la violenza sulle donne
Oggi, 25 novembre, è la Giornata internazionale contro la violenza sulle donne istituita nel 1999 dalle Nazioni Unite. L'Assemblea Generale dell'ONU ha ufficializzato una data che fu scelta da un gruppo di donne attiviste, riunitesi nell'Incontro Femminista Latinoamericano e dei Caraibi, tenutosi a Bogotà nel 1981. Questa data fu scelta in ricordo del brutale assassinio nel 1960 delle tre sorelle Mirabal, considerate esempio di donne rivoluzionarie per l'impegno con cui tentarono di contrastare il regime di Rafael Leónidas Trujillo, il dittatore che tenne la Repubblica Dominicana nell'arretratezza e nel caos per oltre 30 anni.
Dall'inizio del 2016 ci sono stati oltre 30 femminicidi.
La violenza è l'ultimo rifugio degli incapaci (Isaac Asimov)
Un abbraccio a tutte le donne
Un centinaio di persone sono morte in un attacco dell'Isis contro fedeli sciiti iraniani in Iraq
I pellegrini sono rimasti uccisi nell'esplosione di un camion. Erano fedeli sciiti di ritorno da Kerbala dopo le celebrazioni per una importante festività
Un camion imbottito di esplosivo ha ucciso un centinaio di persone, per lo più pellegrini sciiti di nazionalità iraniana, in una stazione di servizio nella città di Hilla, cento chilometri a sud di Baghdad, giovedì 24 novembre 2016. Il bilancio iniziale, di 80 morti, è salito poi a circa cento, secondo quanto dichiarato dalle autorità.
Il sedicente Stato islamico, che considera gli sciiti apostati, ha rivendicato l’attacco in una dichiarazione diffusa online.
I fedeli stavano rientrando da un pellegrinaggio nella città santa irachena di Kerbala, dove avevano celebrato la festività dell’Arbaeen, che marca l’ultimo dei quaranta giorni di lutto per il martirio dell’imam Hussein.
Il ristorante della stazione di servizio è molto frequentata dai turisti. Dopo l’esplosione diversi veicoli sono stati avvolti dalle fiamme.
L’Isis nel corso dell’ultimo mese ha intensificato gli attacchi nel tentativo di indebolire l’offensiva per espellere i suoi miliziani dalla loro capitale, Mosul.
Fonte: The Post Internazionale
Il luogo dell'attentato rivendicato dall'Isis. Credit: Alaa Al-Marjani
Un camion imbottito di esplosivo ha ucciso un centinaio di persone, per lo più pellegrini sciiti di nazionalità iraniana, in una stazione di servizio nella città di Hilla, cento chilometri a sud di Baghdad, giovedì 24 novembre 2016. Il bilancio iniziale, di 80 morti, è salito poi a circa cento, secondo quanto dichiarato dalle autorità.
Il sedicente Stato islamico, che considera gli sciiti apostati, ha rivendicato l’attacco in una dichiarazione diffusa online.
I fedeli stavano rientrando da un pellegrinaggio nella città santa irachena di Kerbala, dove avevano celebrato la festività dell’Arbaeen, che marca l’ultimo dei quaranta giorni di lutto per il martirio dell’imam Hussein.
Il ristorante della stazione di servizio è molto frequentata dai turisti. Dopo l’esplosione diversi veicoli sono stati avvolti dalle fiamme.
L’Isis nel corso dell’ultimo mese ha intensificato gli attacchi nel tentativo di indebolire l’offensiva per espellere i suoi miliziani dalla loro capitale, Mosul.
Fonte: The Post Internazionale
Erdogan minaccia di aprire le frontiere ai migranti
Dopo che il parlamento europeo ha votato in favore del blocco dei negoziati di adesione della Turchia all'Ue, il presidente turco dice che potrebbe aprire i confini
Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha detto che potrebbe aprire le porte dell'Europa ai migranti se sarà isolato dall'Unione europea venerdì 25 novembre, all'indomani del voto del parlamento di Strasburgo in favore del blocco dei colloqui per l'adesione della Turchia all'Ue.
La mozione approvata dal parlamento europeo non è obbligatoria, ma chiede alla Commissione Ue e ai governi nazionali di congelare le negoziazioni a causa della repressione attuata dalla Turchia dopo il colpo di stato fallito dello scorso luglio.
Nonostante la crescente preoccupazione sulle libertà e i diritti umani nel paese, Bruxelles ha bisogno della cooperazione di Ankara per contenere il numero di rifugiati e migranti che entrano in Europa attraversando la Turchia.
"Se si andrà oltre, questi confini saranno aperti. Né io né la mia gente saremo colpiti da queste vuote minacce", ha detto Erdogan durante un congresso a Istanbul, in reazione al voto di giovedì 24 novembre.
Oltre 1.3 milioni di persone sono arrivate in Europa lo scorso anno, sollevando un dibattito tra i membri Ue su come gestire il flusso migratorio. L'accordo con la Turchia ha ridotto il numero degli arrivi dei profughi in Europa, ma è stato criticato dai gruppi dei diritti umani.
Sul tema è intervenuto anche il portavoce del ministro degli Esteri tedesco, il quale ha detto che l'Unione europea e la Turchia hanno un interesse comune ad attenersi all'accordo per ridurre il flusso dei migranti.
Fonte: The Post Internazionale
Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan. Credit: Vasily Fedosenko
Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha detto che potrebbe aprire le porte dell'Europa ai migranti se sarà isolato dall'Unione europea venerdì 25 novembre, all'indomani del voto del parlamento di Strasburgo in favore del blocco dei colloqui per l'adesione della Turchia all'Ue.
La mozione approvata dal parlamento europeo non è obbligatoria, ma chiede alla Commissione Ue e ai governi nazionali di congelare le negoziazioni a causa della repressione attuata dalla Turchia dopo il colpo di stato fallito dello scorso luglio.
Nonostante la crescente preoccupazione sulle libertà e i diritti umani nel paese, Bruxelles ha bisogno della cooperazione di Ankara per contenere il numero di rifugiati e migranti che entrano in Europa attraversando la Turchia.
"Se si andrà oltre, questi confini saranno aperti. Né io né la mia gente saremo colpiti da queste vuote minacce", ha detto Erdogan durante un congresso a Istanbul, in reazione al voto di giovedì 24 novembre.
Oltre 1.3 milioni di persone sono arrivate in Europa lo scorso anno, sollevando un dibattito tra i membri Ue su come gestire il flusso migratorio. L'accordo con la Turchia ha ridotto il numero degli arrivi dei profughi in Europa, ma è stato criticato dai gruppi dei diritti umani.
Sul tema è intervenuto anche il portavoce del ministro degli Esteri tedesco, il quale ha detto che l'Unione europea e la Turchia hanno un interesse comune ad attenersi all'accordo per ridurre il flusso dei migranti.
Fonte: The Post Internazionale
Un incidente ferroviario in Iran ha causato oltre trenta vittime
Le autorità ritengono che il bilancio sia destinato a salire e non si conosce il numero esatto dei passeggeri che si trovavano a bordo dei due treni che si sono scontrati
Almeno 31 persone sono morte nella collisione tra due treni nella provincia centro settentrionale di Semnan, in Iran, venerdì 25 novembre 2016, e le autorità locali temono che il bilancio sia destinato a salire.
La televisione di stato iraniana ha trasmesso le immagini di quattro vagoni deragliati, due dei quali in fiamme. Un portavoce della Croce rossa iraniana, Mostafa Mortazavi, ha riferito a un’agenzia di stampa locale che i vigili del fuoco sono impegnati nel tentativo di controllare le fiamme.
L’incidente è avvenuto alla stazione di Haft-Khan nella città di Shahroud, circa 400 chilometri a est della capitale Teheran.
“Le vittime fino a ora sono 31 e pensiamo che il numero crescerà”, ha detto il governatore di Semnan Mohammad Reza Khabbaz. Ma i media locali hanno fornito diversi bilanci. Inoltre, almeno 52 persone sono state trasportate in ospedale per le ferite riportate.
Non è noto invece quante persone si trovassero a bordo dei due treni. Tuttavia, l’agenzia di stampa semigovernativa Fars ha riferito che cento dei passeggeri sono stati tratti in salvo.
I soccorsi sono stati rallentati dal fatto che lo scontro è avvenuto in una zona remota e solo un elicottero ha potuto raggiungere il posto.
Le cause dell’incidente non sono state chiarite, sembra che uno dei due treni abbia colpito l’altro entrando in stazione.
Fonte: The Post Internazionale
Due dei quattro vagoni deragliati sono in fiamme. Credit: Reuters
Almeno 31 persone sono morte nella collisione tra due treni nella provincia centro settentrionale di Semnan, in Iran, venerdì 25 novembre 2016, e le autorità locali temono che il bilancio sia destinato a salire.
La televisione di stato iraniana ha trasmesso le immagini di quattro vagoni deragliati, due dei quali in fiamme. Un portavoce della Croce rossa iraniana, Mostafa Mortazavi, ha riferito a un’agenzia di stampa locale che i vigili del fuoco sono impegnati nel tentativo di controllare le fiamme.
L’incidente è avvenuto alla stazione di Haft-Khan nella città di Shahroud, circa 400 chilometri a est della capitale Teheran.
“Le vittime fino a ora sono 31 e pensiamo che il numero crescerà”, ha detto il governatore di Semnan Mohammad Reza Khabbaz. Ma i media locali hanno fornito diversi bilanci. Inoltre, almeno 52 persone sono state trasportate in ospedale per le ferite riportate.
Non è noto invece quante persone si trovassero a bordo dei due treni. Tuttavia, l’agenzia di stampa semigovernativa Fars ha riferito che cento dei passeggeri sono stati tratti in salvo.
I soccorsi sono stati rallentati dal fatto che lo scontro è avvenuto in una zona remota e solo un elicottero ha potuto raggiungere il posto.
Le cause dell’incidente non sono state chiarite, sembra che uno dei due treni abbia colpito l’altro entrando in stazione.
Fonte: The Post Internazionale
giovedì 24 novembre 2016
Cos’è il cosiddetto “emendamento pro-De Luca”
Servirà a consentire ai presidenti di regione di fare i commissari regionali alla sanità, e si pensa che serva soprattutto a un presidente di regione
Giovedì la commissione Bilancio della Camera ha approvato il cosiddetto “emendamento pro-De Luca” alla legge di bilancio. L’emendamento permette ai presidenti di regioni di essere nominati dal governo commissari alla sanità per la loro regione. Il nome usato dalla stampa per descrivere l’emendamento è quello del controverso presidente della Campania, Vincenzo De Luca, che potrebbe essere nominato commissario non appena la legge sarà approvata. Le opposizioni hanno protestato contro l’emendamento e accusano la maggioranza di averlo portato avanti in cambio dell’appoggio che De Luca ha dato alla campagna elettorale per il “Sì” al referendum costituzionale del prossimo 4 dicembre.
La sanità regionale viene commissariata dal governo in caso di grave dissesto finanziario (quella sanitaria è principale voce del bilancio sanitario). Era stato proprio il governo Renzi nel 2014 a stabilire la regola che i presidenti di regione non avrebbero più potuto svolgere il ruolo di commissari alla sanità. Attualmente le regioni “commissariate”, cioè che sono oggetto di un “piano di rientro”, sono otto e sono state tutte commissariate tra 2007 e 2010 (la Campania lo è dal 2007 e l’attuale commissario è Joseph Polimeni, direttore generale della ASL 2 di Lucca). La norma del 2014 obbligava il governo a nominare come commissari persone senza incarichi di governo o all’interno della regione. Con la nuova norma approvata ieri con 18 voti a favore, 12 contrari e un astenuto (Bruno Tabacci, che appartiene alla maggioranza) il governo potrà tornare a nominare i presidenti di regione nel ruolo di commissari.
Le opposizioni hanno contestato l’emendamento anche per via delle recenti dichiarazioni di De Luca nel corso di un’assemblea di sindaci campani, registrate di nascosto e pubblicate dal Fatto Quotidiano. Nel suo discorso De Luca invitava i sindaci a fare campagna a favore del “Sì” e faceva alcuni riferimenti anche alla possibilità di sfruttare i buoni rapporti del governo regionale con il sistema delle cliniche private che operano in Campania.
«Comparto della sanità: abbiamo cercato di spiegare a due teste di sedano che hanno la funzione di commissari in questo momento che non siamo la Toscana: qui la sanità privata è il 25 per cento, sono migliaia di persone. Io credo sinceramente che per come ci siamo mossi in questi mesi, ci sia rispetto da parte dei titolari di strutture private e qualificate. E possiamo permetterci di chiedere a ognuno di loro di fare una riunione con i propri dipendenti. Parliamo di migliaia di persone, quindi parliamo di un blocco abbastanza localizzato (…). Fare l’elenco dei dieci-venti imprenditori che uno chiama sul piano dell’amicizia, sul piano del rapporto personale, dell’amministrazione, al di là di tutte le questioni: per cortesia, fai questo lavoro, dimmi (…) quanti voti porti. Se non vuoi dare una mano, massima libertà, però massima chiarezza tra di noi»
“Teste di sedano” sembra un riferimento all’attuale commissario, Joseph Polimeni, che è nato a New York ma ha svolto gran parte della sua carriera nel sistema sanitario della Toscana.
Proprio ieri la presidente della commissione Antimafia, Rosy Bindi, ha detto di aver chiesto ufficialmente alla procura di Napoli se ci sono indagini in corso relative alle dichiarazioni di De Luca che secondo alcuni potrebbero essere un caso di “voto di scambio”. La presidente Bindi ha fatto sapere che la richiesta è arrivata dai membri dell’opposizione che siedono in commissione e che lei si è limitata a inoltrare la richiesta di informazioni alla procura, come avviene sempre in questi casi.
Le relazioni personali e politiche tra Bindi e De Luca sono tese da molto tempo. In occasione delle elezioni regionale del 2015, Bindi aveva inserito De Luca nella lista dei cosiddetti “impresentabili”, cioè i candidati alle elezioni che non rispettavano i requisiti del codice etico sottoscritto da tutti i partiti. De Luca attaccò durante Bindi e, successivamente, venne assolto nel processo che aveva portato alla sua iscrizione tra gli “impresentabili” (De Luca è tuttora coinvolto in altri procedimenti). Recentemente si è tornati a parlare del caso per via di una dichiarazione dello stesso De Luca, che nel corso della trasmissione Matrix ha definito la sua iscrizione nell’elenco «una cosa infame, da ucciderla» (successivamente, De Luca ha più o meno chiesto scusa).
Fonte: Il Post
(ANSA/UFFICIO STAMPA PALAZZO CHIGI-TIBERIO BARCHIELL)
Giovedì la commissione Bilancio della Camera ha approvato il cosiddetto “emendamento pro-De Luca” alla legge di bilancio. L’emendamento permette ai presidenti di regioni di essere nominati dal governo commissari alla sanità per la loro regione. Il nome usato dalla stampa per descrivere l’emendamento è quello del controverso presidente della Campania, Vincenzo De Luca, che potrebbe essere nominato commissario non appena la legge sarà approvata. Le opposizioni hanno protestato contro l’emendamento e accusano la maggioranza di averlo portato avanti in cambio dell’appoggio che De Luca ha dato alla campagna elettorale per il “Sì” al referendum costituzionale del prossimo 4 dicembre.
La sanità regionale viene commissariata dal governo in caso di grave dissesto finanziario (quella sanitaria è principale voce del bilancio sanitario). Era stato proprio il governo Renzi nel 2014 a stabilire la regola che i presidenti di regione non avrebbero più potuto svolgere il ruolo di commissari alla sanità. Attualmente le regioni “commissariate”, cioè che sono oggetto di un “piano di rientro”, sono otto e sono state tutte commissariate tra 2007 e 2010 (la Campania lo è dal 2007 e l’attuale commissario è Joseph Polimeni, direttore generale della ASL 2 di Lucca). La norma del 2014 obbligava il governo a nominare come commissari persone senza incarichi di governo o all’interno della regione. Con la nuova norma approvata ieri con 18 voti a favore, 12 contrari e un astenuto (Bruno Tabacci, che appartiene alla maggioranza) il governo potrà tornare a nominare i presidenti di regione nel ruolo di commissari.
Le opposizioni hanno contestato l’emendamento anche per via delle recenti dichiarazioni di De Luca nel corso di un’assemblea di sindaci campani, registrate di nascosto e pubblicate dal Fatto Quotidiano. Nel suo discorso De Luca invitava i sindaci a fare campagna a favore del “Sì” e faceva alcuni riferimenti anche alla possibilità di sfruttare i buoni rapporti del governo regionale con il sistema delle cliniche private che operano in Campania.
«Comparto della sanità: abbiamo cercato di spiegare a due teste di sedano che hanno la funzione di commissari in questo momento che non siamo la Toscana: qui la sanità privata è il 25 per cento, sono migliaia di persone. Io credo sinceramente che per come ci siamo mossi in questi mesi, ci sia rispetto da parte dei titolari di strutture private e qualificate. E possiamo permetterci di chiedere a ognuno di loro di fare una riunione con i propri dipendenti. Parliamo di migliaia di persone, quindi parliamo di un blocco abbastanza localizzato (…). Fare l’elenco dei dieci-venti imprenditori che uno chiama sul piano dell’amicizia, sul piano del rapporto personale, dell’amministrazione, al di là di tutte le questioni: per cortesia, fai questo lavoro, dimmi (…) quanti voti porti. Se non vuoi dare una mano, massima libertà, però massima chiarezza tra di noi»
“Teste di sedano” sembra un riferimento all’attuale commissario, Joseph Polimeni, che è nato a New York ma ha svolto gran parte della sua carriera nel sistema sanitario della Toscana.
Proprio ieri la presidente della commissione Antimafia, Rosy Bindi, ha detto di aver chiesto ufficialmente alla procura di Napoli se ci sono indagini in corso relative alle dichiarazioni di De Luca che secondo alcuni potrebbero essere un caso di “voto di scambio”. La presidente Bindi ha fatto sapere che la richiesta è arrivata dai membri dell’opposizione che siedono in commissione e che lei si è limitata a inoltrare la richiesta di informazioni alla procura, come avviene sempre in questi casi.
Le relazioni personali e politiche tra Bindi e De Luca sono tese da molto tempo. In occasione delle elezioni regionale del 2015, Bindi aveva inserito De Luca nella lista dei cosiddetti “impresentabili”, cioè i candidati alle elezioni che non rispettavano i requisiti del codice etico sottoscritto da tutti i partiti. De Luca attaccò durante Bindi e, successivamente, venne assolto nel processo che aveva portato alla sua iscrizione tra gli “impresentabili” (De Luca è tuttora coinvolto in altri procedimenti). Recentemente si è tornati a parlare del caso per via di una dichiarazione dello stesso De Luca, che nel corso della trasmissione Matrix ha definito la sua iscrizione nell’elenco «una cosa infame, da ucciderla» (successivamente, De Luca ha più o meno chiesto scusa).
Fonte: Il Post
Un attentato nel sud della Turchia ha causato almeno due vittime
L'esplosione avvenuta nel parcheggio del palazzo del governatore di Adana è stato attribuito al Pkk. Oltre venti persone sono rimaste ferite, di cui cinque in modo grave
Un’esplosione all’esterno dell’edificio che ospita l’ufficio del governatore della provincia di Adana, nel sud della Turchia, ha ucciso due persone e ne ha ferite circa una ventina, di cui cinque in modo grave, intorno alle 8 di questa mattina, giovedì 24 novembre 2016.
Il consolato degli Stati Uniti ad Adana aveva lanciato l’allarme tre settimane fa avvertendo che i gruppi estremisti stavano pianificando attacchi contro i cittadini statunitensi e altri stranieri nella città.
Alcune immagini trasmesse dai media locali hanno mostrato in veicolo in fiamme nel parcheggio all’esterno dell’edificio e una colonna di denso fumo nero. Le finestre del palazzo sono andate in frantumi e parte della facciata è stata danneggiata.
La città di Adana si trova a circa 40 chilometri dalla costa mediterranea e a 16 dalla base aerea di Icirlik che viene usata dalle forze statunitensi per lanciare gli attacchi contro il sedicente Stato islamico in Siria.
Il Pentagono aveva invitato le famiglie dei militari americani a lasciare Adana e altre parti della Turchia a marzo per ragioni di sicurezza. Il dipartimento di Stato americano ha invitato i propri cittadini a evitare viaggi nel sudest del paese.
“I dannati terroristi continuano a colpire la nostra gente. Combatteremo il terrore fino in fondo in nome dell’umanità”, ha scritto su Twitter il ministro per gli Affari Ue Omer Celik, aggiungendo di aver parlato con il governatore di Adana.
Non c’è ancora stata alcuna rivendicazione e diversi gruppi hanno negli ultimi anni colpito con atti terroristici la Turchia: dai militanti di sinistra ai miliziani curdi del Pkk ai combattenti dell’Isis. Tuttavia il ministro del Lavoro Mehmet Muezzinoglu ha dichiarato che l'attentato è stato probabilmente compiuto dal Pkk.
Fonte: The Post Internazionale
I vigili del fuoco sono intervenuto a spegnere le fiamme causate dall'esplosione nel parcheggio del palazzo del governatore ad Adana, nel sud della Turchia. Credit: Reuters
Un’esplosione all’esterno dell’edificio che ospita l’ufficio del governatore della provincia di Adana, nel sud della Turchia, ha ucciso due persone e ne ha ferite circa una ventina, di cui cinque in modo grave, intorno alle 8 di questa mattina, giovedì 24 novembre 2016.
Il consolato degli Stati Uniti ad Adana aveva lanciato l’allarme tre settimane fa avvertendo che i gruppi estremisti stavano pianificando attacchi contro i cittadini statunitensi e altri stranieri nella città.
Alcune immagini trasmesse dai media locali hanno mostrato in veicolo in fiamme nel parcheggio all’esterno dell’edificio e una colonna di denso fumo nero. Le finestre del palazzo sono andate in frantumi e parte della facciata è stata danneggiata.
La città di Adana si trova a circa 40 chilometri dalla costa mediterranea e a 16 dalla base aerea di Icirlik che viene usata dalle forze statunitensi per lanciare gli attacchi contro il sedicente Stato islamico in Siria.
Il Pentagono aveva invitato le famiglie dei militari americani a lasciare Adana e altre parti della Turchia a marzo per ragioni di sicurezza. Il dipartimento di Stato americano ha invitato i propri cittadini a evitare viaggi nel sudest del paese.
“I dannati terroristi continuano a colpire la nostra gente. Combatteremo il terrore fino in fondo in nome dell’umanità”, ha scritto su Twitter il ministro per gli Affari Ue Omer Celik, aggiungendo di aver parlato con il governatore di Adana.
Non c’è ancora stata alcuna rivendicazione e diversi gruppi hanno negli ultimi anni colpito con atti terroristici la Turchia: dai militanti di sinistra ai miliziani curdi del Pkk ai combattenti dell’Isis. Tuttavia il ministro del Lavoro Mehmet Muezzinoglu ha dichiarato che l'attentato è stato probabilmente compiuto dal Pkk.
Fonte: The Post Internazionale
Il parlamento europeo vota in favore del blocco dei colloqui per l'adesione della Turchia all'Ue
La misura non vincolante è stata approvata a causa della repressione attuata da Ankara dopo il colpo di stato dello scorso luglio
Il parlamento europeo ha approvato giovedì 24 novembre un blocco temporaneo dei colloqui per l'adesione della Turchia all'Unione europea a causa della reazione di Ankara al colpo di stato dello scorso luglio, ritenuta "sproporzionata".
I membri del parlamento hanno votato con 479 voti a favore e 37 contrari una mozione non vincolante che chiede alla Commissione europea e ai governi nazionali di provvedere a un congelamento delle negoziazioni con la Turchia, iniziate 11 anni fa e a lungo rimaste in una situazione di stallo.
Il provvedimento è ritenuto di forte valore simbolico, una risposta dei parlamentari Ue ai massicci licenziamenti a arresti messi in atto dal presidente turco Recep Tayyip Erdogan negli ultimi mesi.
Finora sono 110mila le persone che sono state licenziate o sospese dal loro incarico in Turchia, mentre 36mila persone sono state imprigionate e attendono un processo perché sospettati di essere coinvolti nel tentativo di golpe.
"Il parlamento europeo condanna con forza le sproporzionate misure repressive prese in Turchia dal fallimento del colpo di stato a luglio", si legge nel testo. Ma molti stati europei tra cui Germania e Francia temono che una reazione di questo tipo porti Ankara a ritrattare la collaborazione sul tema dei migranti.
Dopo la diffusione della notizia, il primo ministro turco Binali Yildirim ha detto che la Turchia e l'Ue sono già in "relazioni forzate" e che il voto non ha rilevanza. "Ci aspettiamo che i leader dell'Unione europea si ribellino a questa mancanza di visione", ha detto Yildirim. "L'Ue dovrebbe decidere se vuole continuare nel suo futuro con la Turchia o senza la Turchia".
Il ministro degli affari Ue turco Omar Celik ha dichiarato che la decisione viola i valori basilari dell'Unione europea, aggiungendo che la Turchia non prenderà seriamente la mozione.
Mercoledì 23 novembre Erdogan ha dichiarato che il voto del Parlamento europeo che potrebbe bloccare i negoziati di adesione della Turchia all'Ue "non ha valore ai nostri occhi", e ha accusato l'Europa di fiancheggiare le organizzazioni terroristiche.
I leader europei affronteranno il tema nell'incontro che si terrà a Bruxelles il 15 e il 16 dicembre.
Erdogan ha accusato l'Ue di non capire la gravità del tentato golpe e ha detto che se l'Europa deciderà di bloccare i colloqui dovrà convivere con le conseguenze, minacciando di unirsi all'asse Russia-Cina in tema di sicurezza. Ma Ankara spera ancora di ottenere la liberalizzazione dei visti per i suoi cittadini all'interno dell'Unione europea.
Fonte: The Post Internazionale
Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan. Credit: Francois Lenoir
Il parlamento europeo ha approvato giovedì 24 novembre un blocco temporaneo dei colloqui per l'adesione della Turchia all'Unione europea a causa della reazione di Ankara al colpo di stato dello scorso luglio, ritenuta "sproporzionata".
I membri del parlamento hanno votato con 479 voti a favore e 37 contrari una mozione non vincolante che chiede alla Commissione europea e ai governi nazionali di provvedere a un congelamento delle negoziazioni con la Turchia, iniziate 11 anni fa e a lungo rimaste in una situazione di stallo.
Il provvedimento è ritenuto di forte valore simbolico, una risposta dei parlamentari Ue ai massicci licenziamenti a arresti messi in atto dal presidente turco Recep Tayyip Erdogan negli ultimi mesi.
Finora sono 110mila le persone che sono state licenziate o sospese dal loro incarico in Turchia, mentre 36mila persone sono state imprigionate e attendono un processo perché sospettati di essere coinvolti nel tentativo di golpe.
"Il parlamento europeo condanna con forza le sproporzionate misure repressive prese in Turchia dal fallimento del colpo di stato a luglio", si legge nel testo. Ma molti stati europei tra cui Germania e Francia temono che una reazione di questo tipo porti Ankara a ritrattare la collaborazione sul tema dei migranti.
Dopo la diffusione della notizia, il primo ministro turco Binali Yildirim ha detto che la Turchia e l'Ue sono già in "relazioni forzate" e che il voto non ha rilevanza. "Ci aspettiamo che i leader dell'Unione europea si ribellino a questa mancanza di visione", ha detto Yildirim. "L'Ue dovrebbe decidere se vuole continuare nel suo futuro con la Turchia o senza la Turchia".
Il ministro degli affari Ue turco Omar Celik ha dichiarato che la decisione viola i valori basilari dell'Unione europea, aggiungendo che la Turchia non prenderà seriamente la mozione.
Mercoledì 23 novembre Erdogan ha dichiarato che il voto del Parlamento europeo che potrebbe bloccare i negoziati di adesione della Turchia all'Ue "non ha valore ai nostri occhi", e ha accusato l'Europa di fiancheggiare le organizzazioni terroristiche.
I leader europei affronteranno il tema nell'incontro che si terrà a Bruxelles il 15 e il 16 dicembre.
Erdogan ha accusato l'Ue di non capire la gravità del tentato golpe e ha detto che se l'Europa deciderà di bloccare i colloqui dovrà convivere con le conseguenze, minacciando di unirsi all'asse Russia-Cina in tema di sicurezza. Ma Ankara spera ancora di ottenere la liberalizzazione dei visti per i suoi cittadini all'interno dell'Unione europea.
Fonte: The Post Internazionale
mercoledì 23 novembre 2016
C’è una nuova storia sul M5S e le firme false
La procura di Bologna sta indagando quattro esponenti locali del partito, accusati di avere raccolto irregolarmente almeno una trentina di firme per le regionali del 2014
Quattro persone del Movimento 5 Stelle sono state indagate dalla procura di Bologna per aver raccolto firme irregolari in occasione delle elezioni regionali del 2014. Gli indagati sono Marco Piazza, vicepresidente del consiglio comunale di Bologna (il cui sindaco è Virginio Merola, del Partito Democratico), Stefano Negroni, dipendente del comune e definito dai giornali come “simpatizzante” del M5S, Tania Fioroni e Giuseppina Maracino, due attivisti che hanno partecipato alla raccolta delle firme. L’indagine è coordinata dalla pm Michela Guidi e dal procuratore Giuseppe Amato.
Ansa dice che secondo le accuse i rappresentanti del M5S hanno «autenticato firme non apposte in loro presenza, oppure in luogo diverso rispetto al requisito di territorialità, oppure in mancanza della qualità del pubblico ufficiale». Scrive Repubblica che Piazza, definito «braccio destro di Massimo Bugani (capogruppo M5S a Palazzo D’Accursio e candidato sindaco)», è indagato in quanto ha certificato le firme, Negroni perché le ha autenticate, Fioroni e Maracino perché hanno collaborato a raccoglierle. Le firme di cui si parla sono quelle autenticate da un pubblico ufficiale che devono necessariamente essere presentate perché una lista o un partito possano partecipare alle elezioni.
Sempre Repubblica dice che le firme sospettate di essere state raccolte irregolarmente sono per ora «una trentina», ma ci sono anche almeno quattro persone che hanno detto di non aver firmato anche se la loro firma compare tra quelle presentate dal M5S. A fare partire l’inchiesta è stata una denuncia di due attivisti del M5S, che hanno detto di avere prima provato ad avvisare più volte i rappresentanti del partito a Bologna. Gli attivisti che hanno fatto denuncia hanno detto che alcune firme furono per esempio raccolte durante un raduno al Circo Massimo di Roma, e quindi fuori dal territorio dell’Emilia-Romagna.
Nelle ultime settimane si è parlato molto di un altro caso di sospette firme false raccolte da alcuni esponenti del M5S di Palermo: in quel caso il leader del M5S Beppe Grillo ha chiesto che le persone indagate si autosospendano dal partito. Negroni ha smentito le accuse della procura, dicendo che era presente durante la raccolta di tutte le firme, e quindi ha potuto autenticarle. Ha detto che potrebbe esserci stato un errore ma che la raccolta è avvenuta «alla luce del sole». Anche il capogruppo del M5S al consiglio comunale di Bologna Massimo Bugani ha parlato di un possibile errore, ipotizzando: «se un qualche fessacchione ha preso firme a Roma si dimostrerà che sono firme vere poi portate a un banchetto e infilate dentro agli altri moduli. Se l’errore è grave o no, vedremo, se l’errore è questo è risibile». Repubblica dice che «l’inchiesta però sembra destinata a allargarsi e presto potrebbero fioccare nuove accuse, tra questa quella di falso e falso ideologico».
Fonte: Il Post
(Ansa)
Quattro persone del Movimento 5 Stelle sono state indagate dalla procura di Bologna per aver raccolto firme irregolari in occasione delle elezioni regionali del 2014. Gli indagati sono Marco Piazza, vicepresidente del consiglio comunale di Bologna (il cui sindaco è Virginio Merola, del Partito Democratico), Stefano Negroni, dipendente del comune e definito dai giornali come “simpatizzante” del M5S, Tania Fioroni e Giuseppina Maracino, due attivisti che hanno partecipato alla raccolta delle firme. L’indagine è coordinata dalla pm Michela Guidi e dal procuratore Giuseppe Amato.
Ansa dice che secondo le accuse i rappresentanti del M5S hanno «autenticato firme non apposte in loro presenza, oppure in luogo diverso rispetto al requisito di territorialità, oppure in mancanza della qualità del pubblico ufficiale». Scrive Repubblica che Piazza, definito «braccio destro di Massimo Bugani (capogruppo M5S a Palazzo D’Accursio e candidato sindaco)», è indagato in quanto ha certificato le firme, Negroni perché le ha autenticate, Fioroni e Maracino perché hanno collaborato a raccoglierle. Le firme di cui si parla sono quelle autenticate da un pubblico ufficiale che devono necessariamente essere presentate perché una lista o un partito possano partecipare alle elezioni.
Sempre Repubblica dice che le firme sospettate di essere state raccolte irregolarmente sono per ora «una trentina», ma ci sono anche almeno quattro persone che hanno detto di non aver firmato anche se la loro firma compare tra quelle presentate dal M5S. A fare partire l’inchiesta è stata una denuncia di due attivisti del M5S, che hanno detto di avere prima provato ad avvisare più volte i rappresentanti del partito a Bologna. Gli attivisti che hanno fatto denuncia hanno detto che alcune firme furono per esempio raccolte durante un raduno al Circo Massimo di Roma, e quindi fuori dal territorio dell’Emilia-Romagna.
Nelle ultime settimane si è parlato molto di un altro caso di sospette firme false raccolte da alcuni esponenti del M5S di Palermo: in quel caso il leader del M5S Beppe Grillo ha chiesto che le persone indagate si autosospendano dal partito. Negroni ha smentito le accuse della procura, dicendo che era presente durante la raccolta di tutte le firme, e quindi ha potuto autenticarle. Ha detto che potrebbe esserci stato un errore ma che la raccolta è avvenuta «alla luce del sole». Anche il capogruppo del M5S al consiglio comunale di Bologna Massimo Bugani ha parlato di un possibile errore, ipotizzando: «se un qualche fessacchione ha preso firme a Roma si dimostrerà che sono firme vere poi portate a un banchetto e infilate dentro agli altri moduli. Se l’errore è grave o no, vedremo, se l’errore è questo è risibile». Repubblica dice che «l’inchiesta però sembra destinata a allargarsi e presto potrebbero fioccare nuove accuse, tra questa quella di falso e falso ideologico».
Fonte: Il Post
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