I dati resi noti pochi giorni fa dall’
Ads (Accertamento diffusione stampa) fanno registrare un nuovo passo indietro nelle vendite dei quotidiani italiani. Un’
emorragia continua, che nel novembre del 2010 (periodo in cui è stata effettuata la rilevazione) ha visto un’ulteriore calo rispetto ad un anno fa.
Le variabili in gioco sono molte, ma le analizzeremo strada facendo. Prima parliamo di numeri: il
“Corriere della Sera” fa registrare un
-10% rispetto al 2009, mentre il secondo quotidiano più venduto,
“La Repubblica”, vede un calo dell’
8,2%. Non va meglio a
“La Stampa” (-7%) e ai quotidiani economici e sportivi:
“Il Sole 24 Ore” perde infatti 6.315 copie (-3,7%),
“La Gazzetta dello Sport” 9.241 (-3%). Il quotidiano “peggiore”, in questo senso, è
“Il Secolo XIX”: il giornale di Genova scende del 15,2%. Uniche testate che fanno segnare un segno positivo sono
“Il Giornale” (+1,1%),
“Libero” (+1,3%), e alcuni organi di stampa locali, come
“Il Mattino di Padova” e
“Il Quotidiano della Basilicata”.
Come spiegare tutto ciò? Premetto che ho sempre preso con le molle la cosiddetta “profezia” di
Philippe Meyer, giornalista e scrittore statunitense, che nel suo libro
“The vanishing newspaper” (“La scomparsa dei giornali”) indica il
2043 come data in cui verrà celebrato il funerale della carta stampata. Il giornale è il più antico mezzo di comunicazione a disposizione dell’uomo, e francamente dubito che possa venirne la fine. Certo, i dati non sono buoni, e se lo sviluppo della tecnologia (I-Phone, I-Pad etc…) aiuta da una parte a migliorare alcuni aspetti pratici, dall’altra provoca questi risultati. Molti editori si stanno già muovendo in tal senso: basti pensare a
Rupert Murdoch, che con
“The Daily” ha dato corpo al primo giornale per I-Pad. Ma si può anche ragionare sul fatto che sempre più persone si informano su
Internet, perché le notizie sono in continuo aggiornamento, non si paga nulla per leggerle e tramite blog e social network si è ha una panoramica dei fatti a 360°.
La nostra analisi non si deve però fermare qui. La storia, strumento senza cui non capiremmo le attuali dinamiche mondiali, viene in nostro aiuto. In un bellissimo libro, dal titolo
“Modelli di giornalismo”,
Daniel Hallin e
Paolo Mancini descrivono lo sviluppo della stampa nei vari paesi (europei e non) dividendo gli stessi in 3 aree: Europa meridionale (comprende il nostro paese più Spagna, Portogallo, Grecia e Francia), Europa centro-settentrionale (Scandinavia, Paesi Bassi, Belgio, Svizzera, Austria e Germania) e paesi del Nord-atlantico (Stati Uniti, Gran Bretagna, Canada e Irlanda).
Il
modello pluralista-polarizzato, di cui fa parte l’Italia, vede da sempre una bassa circolazione di massa dei giornali. Il motivo è semplice: uno sviluppo minore della borghesia rispetto all’aristocrazia, che ha fatto dei giornali lo strumento delle élite politiche e letterarie, senza pensare al lato prettamente economico-finanziario. I giornali commerciali (esempio la
penny press americana) sono nati tardi, e non hanno mai trovato terreno fertile per svilupparsi a pieno. Tutto ciò spiega il perché di un
professionismo basso (ci lamentiamo di un giornalismo fazioso, di parte, schierato con il potente di turno) e di un
alto grado di parallelismo politico.
Negli altri due modelli (democratico-corporativo per l’Europa centro-settentrionale e liberale per i paesi del Nord-atlantico) le cose sono diverse: la
stampa di massa si è sviluppata molto prima e la libertà di espressione del pensiero ha avuto avvio già nel ‘600: un esempio su tutti è quello della Costituzione svedese (1776), che prevedeva addirittura l’accesso dei cittadini ai documenti pubblici. Il carattere commerciale delle testate coincide con un giornalismo d’informazione neutrale, che svolge il ruolo di
“watchdog” (cane da guardia).
Infine, non va dimenticato il ruolo della
televisione, che con lo sviluppo dei
canali all news (
“Sky Tg24”, “Rai News24” e, a breve, anche uno targato
“Mediaset”) ha praticamente abbattuto qualsiasi processo di
newsmaking, cioè di produzione di notizie.
La
speranza di noi tutti è che
questa emorragia, prima o poi,
si arresti. Perché l’odore di un giornale, o quella sensazione che l’inchiostro lascia sulle dita, sono aspetti che difficilmente la tecnologia può sostituire.
Giorgio Velardi
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