L'ex calciatore del Milan e Pallone d'Oro ha battuto al ballottaggio Joseph Boakai, con più del 60 per cento dei voti
George Weah, ex calciatore del Milan e Pallone d’Oro, è stato eletto presidente della Liberia. Weah, che era dato per favorito, ha battuto al ballottaggio Joseph Boakai con oltre il 60 per cento dei voti: prenderà il posto di Ellen Johnson Sirleaf, la prima donna africana ad essere stata eletta presidente, in quello che sarà il primo passaggio di poteri pacifico nella storia della Liberia. Weah ha 51 anni e fa parte del Congresso per il cambiamento democratico: aveva già partecipato a un’elezione presidenziale, nel 2005, ma era stato battuto proprio da Ellen Johnson Sirleaf.
La vittoria di Weah è stata celebrata da molti sostenitori per le strade di Monrovia, la capitale della Liberia. Weah aveva vinto il primo turno delle elezioni presidenziali che si era tenuto a ottobre, ottenendo il 38,4 per cento dei voti, 10 punti percentuali in più di Boakai.
Fonte: Il Post
venerdì 29 dicembre 2017
Si vota il 4 marzo
Sergio Mattarella ha sciolto le camere: la XVII legislatura è finita, ora inizia formalmente la campagna elettorale
Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha firmato il decreto per lo scioglimento delle Camere, che formalmente mette fine alla XVII legislatura. Il presidente ha sciolto il Parlamento dopo essersi consultato al palazzo del Quirinale con il presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni, e successivamente con la presidente della Camera, Laura Boldrini, e il presidente del Senato, Pietro Grasso. Nella successiva seduta del Consiglio dei ministri organizzata a Palazzo Chigi, il governo ha deciso la data delle elezioni per il nuovo Parlamento: il prossimo 4 marzo 2018. I passaggi formali di oggi sanciscono l’avvio della campagna elettorale, mentre il governo rimarrà comunque in carica per il cosiddetto “disbrigo degli affari correnti”.
L’ultima giornata della legislatura era iniziata ieri mattina con la tradizionale conferenza stampa di fine anno del presidente del Consiglio, organizzata dall’Ordine dei Giornalisti. Gentiloni ha rivendicato il lavoro svolto nel suo anno di governo, soprattutto sul tema dei diritti civili con l’approvazione della legge sul testamento biologico, ma ammettendo comunque il lavoro “incompiuto” per quanto riguarda lo ius soli, che il Parlamento non ha approvato. Gentiloni ha detto che in questo anno si è dimostrato “che c’è una sinistra di governo al servizio del paese” e ha poi spiegato che farà campagna elettorale per il Partito Democratico, di cui fa da sempre parte.
Lo scioglimento delle Camere
L’articolo 60 della Costituzione prevede che, in condizioni normali, le Camere restino in carica per 5 anni, periodo comunemente detto “legislatura”:
La Camera dei deputati e il Senato della Repubblica sono eletti per cinque anni. La durata di ciascuna Camera non può essere prorogata se non per legge e soltanto in caso di guerra.
L’articolo 61 dice inoltre che “le elezioni delle nuove Camere hanno luogo entro 70 giorni dalla fine delle precedenti”.
L’articolo 87 stabilisce, tra le altre cose, che il presidente della Repubblica “indice le elezioni delle nuove Camere e ne fissa la prima riunione”. Quello seguente che il presidente ha anche la facoltà di “sciogliere le Camere o anche una sola di esse”, sentiti i loro rispettivi presidenti.
Quindi, ricapitolando, una legislatura in condizioni normali dura 5 anni, al termine dei quali il presidente della Repubblica deve sciogliere le Camere, in modo che entro 70 giorni siano eletti i nuovi deputati e senatori per la legislatura successiva. Nel periodo di transizione tra una legislatura e l’altra, il Parlamento uscente mantiene comunque i propri poteri.
Cosa succede adesso
La legislatura appena finita è stata la XVII della Repubblica: era iniziata a metà marzo del 2013, ed è quindi durata quasi 5 anni, per fare i precisi 1.749 giorni. Nel corso della legislatura ci sono stati tre governi: Letta 2013 – 2014, Renzi 2014 – 2016, e Gentiloni iniziato circa un anno fa e ancora in carica.
Come abbiamo visto, dal momento in cui vengono sciolte le Camere, le elezioni politiche devono tenersi al massimo entro 70 giorni. Per questo motivo, e considerato che la giornata elettorale si tiene sempre di domenica (prolungandosi talvolta il lunedì), è stato scelto il prossimo 4 marzo.
Fonte: Il Post
Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella (PATRICIA DE MELO MOREIRA/AFP/Getty Images)
Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha firmato il decreto per lo scioglimento delle Camere, che formalmente mette fine alla XVII legislatura. Il presidente ha sciolto il Parlamento dopo essersi consultato al palazzo del Quirinale con il presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni, e successivamente con la presidente della Camera, Laura Boldrini, e il presidente del Senato, Pietro Grasso. Nella successiva seduta del Consiglio dei ministri organizzata a Palazzo Chigi, il governo ha deciso la data delle elezioni per il nuovo Parlamento: il prossimo 4 marzo 2018. I passaggi formali di oggi sanciscono l’avvio della campagna elettorale, mentre il governo rimarrà comunque in carica per il cosiddetto “disbrigo degli affari correnti”.
L’ultima giornata della legislatura era iniziata ieri mattina con la tradizionale conferenza stampa di fine anno del presidente del Consiglio, organizzata dall’Ordine dei Giornalisti. Gentiloni ha rivendicato il lavoro svolto nel suo anno di governo, soprattutto sul tema dei diritti civili con l’approvazione della legge sul testamento biologico, ma ammettendo comunque il lavoro “incompiuto” per quanto riguarda lo ius soli, che il Parlamento non ha approvato. Gentiloni ha detto che in questo anno si è dimostrato “che c’è una sinistra di governo al servizio del paese” e ha poi spiegato che farà campagna elettorale per il Partito Democratico, di cui fa da sempre parte.
Lo scioglimento delle Camere
L’articolo 60 della Costituzione prevede che, in condizioni normali, le Camere restino in carica per 5 anni, periodo comunemente detto “legislatura”:
La Camera dei deputati e il Senato della Repubblica sono eletti per cinque anni. La durata di ciascuna Camera non può essere prorogata se non per legge e soltanto in caso di guerra.
L’articolo 61 dice inoltre che “le elezioni delle nuove Camere hanno luogo entro 70 giorni dalla fine delle precedenti”.
L’articolo 87 stabilisce, tra le altre cose, che il presidente della Repubblica “indice le elezioni delle nuove Camere e ne fissa la prima riunione”. Quello seguente che il presidente ha anche la facoltà di “sciogliere le Camere o anche una sola di esse”, sentiti i loro rispettivi presidenti.
Quindi, ricapitolando, una legislatura in condizioni normali dura 5 anni, al termine dei quali il presidente della Repubblica deve sciogliere le Camere, in modo che entro 70 giorni siano eletti i nuovi deputati e senatori per la legislatura successiva. Nel periodo di transizione tra una legislatura e l’altra, il Parlamento uscente mantiene comunque i propri poteri.
Cosa succede adesso
La legislatura appena finita è stata la XVII della Repubblica: era iniziata a metà marzo del 2013, ed è quindi durata quasi 5 anni, per fare i precisi 1.749 giorni. Nel corso della legislatura ci sono stati tre governi: Letta 2013 – 2014, Renzi 2014 – 2016, e Gentiloni iniziato circa un anno fa e ancora in carica.
Come abbiamo visto, dal momento in cui vengono sciolte le Camere, le elezioni politiche devono tenersi al massimo entro 70 giorni. Per questo motivo, e considerato che la giornata elettorale si tiene sempre di domenica (prolungandosi talvolta il lunedì), è stato scelto il prossimo 4 marzo.
Fonte: Il Post
giovedì 28 dicembre 2017
Ci sono almeno 41 morti per un attacco suicida a Kabul
È successo nei pressi della redazione di un'agenzia stampa e di un centro culturale sciita: l'attacco è stato rivendicato dall'ISIS
Stamattina c’è stato un attacco suicida nella zona ovest di Kabul, in Afghanistan, nei pressi della redazione di un’agenzia stampa e di un centro culturale musulmano di dottrina sciita. Il ministero della Salute afghano ha detto che ci sono almeno 41 morti e 84 feriti. Parlando con BBC, il ministero degli Interni ha aggiunto che l’attacco suicida è stato seguito da altre due esplosioni. L’attentato è stato rivendicato dallo Stato Islamico (o ISIS).
Il capo della polizia di Kabul ha detto che l’attentato è avvenuto mentre nel centro culturale sciita, chiamato Tebyan, era in corso una discussione di gruppo.
Due mesi fa c’erano stati due attacchi simili ad altrettante moschee, una sciita e una sunnita: morirono 72 persone. A maggio, invece, un’autobomba esplose nella zona fra il palazzo presidenziale e le ambasciate causando più di 90 morti.
Fonte: Il Post
(SHAH MARAI/AFP/Getty Images)
Stamattina c’è stato un attacco suicida nella zona ovest di Kabul, in Afghanistan, nei pressi della redazione di un’agenzia stampa e di un centro culturale musulmano di dottrina sciita. Il ministero della Salute afghano ha detto che ci sono almeno 41 morti e 84 feriti. Parlando con BBC, il ministero degli Interni ha aggiunto che l’attacco suicida è stato seguito da altre due esplosioni. L’attentato è stato rivendicato dallo Stato Islamico (o ISIS).
Il capo della polizia di Kabul ha detto che l’attentato è avvenuto mentre nel centro culturale sciita, chiamato Tebyan, era in corso una discussione di gruppo.
Due mesi fa c’erano stati due attacchi simili ad altrettante moschee, una sciita e una sunnita: morirono 72 persone. A maggio, invece, un’autobomba esplose nella zona fra il palazzo presidenziale e le ambasciate causando più di 90 morti.
Fonte: Il Post
lunedì 25 dicembre 2017
Buon Natale
Andrea De Luca
domenica 24 dicembre 2017
Perché è fallito lo ius soli
La discussione in Senato non è nemmeno iniziata per la mancanza del numero legale: mancava tutto il M5S, tutta la destra e anche un pezzo del centrosinistra
Sabato 23 dicembre, nell’ultima seduta prima della pausa natalizia, è mancato il numero legale al Senato per la votazione dello ius soli, la legge che prevede di concedere la cittadinanza italiana alle persone nate in Italia o che sono arrivate qui molto presto, alla presenza di alcune condizioni. L’inizio della discussione della proposta è stato rimandato al 9 gennaio, ma le Camere saranno sciolte il 28 o il 29 dicembre per andare a elezioni anticipate il prossimo marzo. Quando lo ius soli tornerà in aula, la legislatura sarà quindi già finita e la legge non avrà la possibilità di essere approvata.
Qualche giorno fa la legge sullo ius soli era stata inserita nel calendario d’aula del Senato dopo l’approvazione della legge di bilancio: la scelta era stata criticata dalla sinistra che aveva parlato di “calendarizzazione finta”, prevedendo di fatto quanto poi è accaduto. Il governo aveva spiegato il motivo della calendarizzione tardiva dicendo che la proposta non aveva i numeri sufficienti per essere votata: sarebbe stato necessario chiedere la fiducia, che su questo provvedimento non sarebbe quasi sicuramente passata, e quindi bisognava votare prima la manovra finanziaria. Far votare la fiducia sullo ius soli prima della manovra avrebbe comportato un rischio troppo alto di mancata approvazione della legge di bilancio.
Sabato 23 dicembre, dopo l’approvazione della manovra, il Senato ha dunque come stabilito cominciato la discussione sullo ius soli con l’esame delle pregiudiziali di costituzionalità. Su richiesta del senatore della Lega Roberto Calderoli, il presidente Pietro Grasso ha verificato il numero legale dei presenti in aula: il numero legale non c’era ed è mancato per 33 senatori. Erano assenti tutti i 35 senatori del Movimento 5 Stelle (alcuni erano in realtà presenti in aula, ma hanno deciso di non rispondere), così come tutti i senatori di Gal, Ala, Alternativa Popolare e Lega, quasi tutta Forza Italia, 29 senatori del PD (su 89) e 3 (su 16) di Mdp. Erano dunque assenti non solo i rappresentanti dei partiti contrari alla legge, ma anche una buona parte di quelli favorevoli.
Da ieri le varie forze politiche si accusano a vicenda della responsabilità del fallimento della legge: la sinistra accusa il PD e il PD accusa il Movimento Cinque Stelle. Maria Cecilia Guerra, di Liberi e Uguali, ha detto: «Non è il fato né la fine della legislatura ad aver portato la legge sulla cittadinanza su un binario morto ma una scelta politica del PD, che l’ha tenuta inutilmente ferma in commissione per la paura di perdere consensi, prima nella campagna per il referendum istituzionale, poi nelle amministrative. Sempre sbandierando una volontà che non si è mai concretizzata in una vera assunzione di responsabilità. Da ultimo la farsa di una calendarizzazione dopo la legge di bilancio che, come avevamo previsto, non poteva portare a nulla». Luigi Manconi, del PD, ha invece criticato il M5S. «Sono stati loro, con opportunismo piccino, a far mancare il numero legale». Manconi ha anche annunciato la fine dello sciopero della fame, iniziato il 18 dicembre a sostegno del provvedimento, mentre i Radicali hanno chiesto a Sergio Mattarella di rinviare lo scioglimento delle Camere, proprio per dare tempo al Senato di discutere del provvedimento.
Nel frattempo Roberto Calderoli ha detto di essere molto soddisfatto: «Colpito e affondato. Morto e sepolto. Per me è una grande vittoria, perché sono stato io in questi due anni e mezzo, con le mie decine di migliaia di emendamenti, a bloccare in Commissione e poi in Aula questa assurda e inutile proposta di legge». In generale si sono detti soddisfatti tutti i partiti di destra.
Lo ius soli era stato approvato dalla Camera lo scorso ottobre, dove il PD ha una larga maggioranza anche senza i voti di Alternativa Popolare, e da allora era rimasto bloccato al Senato. La legge avrebbe allargato i criteri per ottenere la cittadinanza italiana e avrebbe riguardato soprattutto i bambini nati in Italia da genitori stranieri o arrivati in Italia da piccoli: non era un vero e proprio ius soli, che prevede che chi nasce nel territorio di un certo stato ottenga automaticamente la cittadinanza, ma uno ius soli ad alcune condizioni: la prima prevedeva che un bambino nato in Italia diventasse automaticamente italiano se almeno uno dei due genitori si trovava legalmente in Italia da almeno 5 anni. Se il genitore in possesso di permesso di soggiorno non proveniva dall’Unione Europea, doveva aderire ad altri tre parametri: avere un reddito non inferiore all’importo annuo dell’assegno sociale, disporre di un alloggio che rispondesse ai requisiti di idoneità previsti dalla legge, superare un test di conoscenza della lingua italiana.
L’altra condizione per ottenere la cittadinanza era il cosiddetto ius culturae, e passava attraverso il sistema scolastico italiano. Avrebbero potuto chiedere la cittadinanza italiana i minori stranieri nati in Italia o arrivati entro i 12 anni che avessero frequentato le scuole italiane per almeno cinque anni e superato almeno un ciclo scolastico (cioè le scuole elementari o medie). I ragazzi nati all’estero ma arrivati in Italia fra i 12 e i 18 anni avrebbero potuto ottenere la cittadinanza dopo aver abitato in Italia per almeno sei anni e avere superato un ciclo scolastico.
Fonte: Il Post
Auguri di buon Natale del senatore della Lega Stefano Candiani durante il voto di fiducia sulla Legge di Bilancio e poco prima dell'inizio della discussione sullo ius soli, Roma 23 dicembre 2017. (ANSA/GIUSEPPE LAMI)
Sabato 23 dicembre, nell’ultima seduta prima della pausa natalizia, è mancato il numero legale al Senato per la votazione dello ius soli, la legge che prevede di concedere la cittadinanza italiana alle persone nate in Italia o che sono arrivate qui molto presto, alla presenza di alcune condizioni. L’inizio della discussione della proposta è stato rimandato al 9 gennaio, ma le Camere saranno sciolte il 28 o il 29 dicembre per andare a elezioni anticipate il prossimo marzo. Quando lo ius soli tornerà in aula, la legislatura sarà quindi già finita e la legge non avrà la possibilità di essere approvata.
Qualche giorno fa la legge sullo ius soli era stata inserita nel calendario d’aula del Senato dopo l’approvazione della legge di bilancio: la scelta era stata criticata dalla sinistra che aveva parlato di “calendarizzazione finta”, prevedendo di fatto quanto poi è accaduto. Il governo aveva spiegato il motivo della calendarizzione tardiva dicendo che la proposta non aveva i numeri sufficienti per essere votata: sarebbe stato necessario chiedere la fiducia, che su questo provvedimento non sarebbe quasi sicuramente passata, e quindi bisognava votare prima la manovra finanziaria. Far votare la fiducia sullo ius soli prima della manovra avrebbe comportato un rischio troppo alto di mancata approvazione della legge di bilancio.
Sabato 23 dicembre, dopo l’approvazione della manovra, il Senato ha dunque come stabilito cominciato la discussione sullo ius soli con l’esame delle pregiudiziali di costituzionalità. Su richiesta del senatore della Lega Roberto Calderoli, il presidente Pietro Grasso ha verificato il numero legale dei presenti in aula: il numero legale non c’era ed è mancato per 33 senatori. Erano assenti tutti i 35 senatori del Movimento 5 Stelle (alcuni erano in realtà presenti in aula, ma hanno deciso di non rispondere), così come tutti i senatori di Gal, Ala, Alternativa Popolare e Lega, quasi tutta Forza Italia, 29 senatori del PD (su 89) e 3 (su 16) di Mdp. Erano dunque assenti non solo i rappresentanti dei partiti contrari alla legge, ma anche una buona parte di quelli favorevoli.
Da ieri le varie forze politiche si accusano a vicenda della responsabilità del fallimento della legge: la sinistra accusa il PD e il PD accusa il Movimento Cinque Stelle. Maria Cecilia Guerra, di Liberi e Uguali, ha detto: «Non è il fato né la fine della legislatura ad aver portato la legge sulla cittadinanza su un binario morto ma una scelta politica del PD, che l’ha tenuta inutilmente ferma in commissione per la paura di perdere consensi, prima nella campagna per il referendum istituzionale, poi nelle amministrative. Sempre sbandierando una volontà che non si è mai concretizzata in una vera assunzione di responsabilità. Da ultimo la farsa di una calendarizzazione dopo la legge di bilancio che, come avevamo previsto, non poteva portare a nulla». Luigi Manconi, del PD, ha invece criticato il M5S. «Sono stati loro, con opportunismo piccino, a far mancare il numero legale». Manconi ha anche annunciato la fine dello sciopero della fame, iniziato il 18 dicembre a sostegno del provvedimento, mentre i Radicali hanno chiesto a Sergio Mattarella di rinviare lo scioglimento delle Camere, proprio per dare tempo al Senato di discutere del provvedimento.
Nel frattempo Roberto Calderoli ha detto di essere molto soddisfatto: «Colpito e affondato. Morto e sepolto. Per me è una grande vittoria, perché sono stato io in questi due anni e mezzo, con le mie decine di migliaia di emendamenti, a bloccare in Commissione e poi in Aula questa assurda e inutile proposta di legge». In generale si sono detti soddisfatti tutti i partiti di destra.
Lo ius soli era stato approvato dalla Camera lo scorso ottobre, dove il PD ha una larga maggioranza anche senza i voti di Alternativa Popolare, e da allora era rimasto bloccato al Senato. La legge avrebbe allargato i criteri per ottenere la cittadinanza italiana e avrebbe riguardato soprattutto i bambini nati in Italia da genitori stranieri o arrivati in Italia da piccoli: non era un vero e proprio ius soli, che prevede che chi nasce nel territorio di un certo stato ottenga automaticamente la cittadinanza, ma uno ius soli ad alcune condizioni: la prima prevedeva che un bambino nato in Italia diventasse automaticamente italiano se almeno uno dei due genitori si trovava legalmente in Italia da almeno 5 anni. Se il genitore in possesso di permesso di soggiorno non proveniva dall’Unione Europea, doveva aderire ad altri tre parametri: avere un reddito non inferiore all’importo annuo dell’assegno sociale, disporre di un alloggio che rispondesse ai requisiti di idoneità previsti dalla legge, superare un test di conoscenza della lingua italiana.
L’altra condizione per ottenere la cittadinanza era il cosiddetto ius culturae, e passava attraverso il sistema scolastico italiano. Avrebbero potuto chiedere la cittadinanza italiana i minori stranieri nati in Italia o arrivati entro i 12 anni che avessero frequentato le scuole italiane per almeno cinque anni e superato almeno un ciclo scolastico (cioè le scuole elementari o medie). I ragazzi nati all’estero ma arrivati in Italia fra i 12 e i 18 anni avrebbero potuto ottenere la cittadinanza dopo aver abitato in Italia per almeno sei anni e avere superato un ciclo scolastico.
Fonte: Il Post
La Corea del Nord ha definito le nuove sanzioni dell’Onu “un atto di guerra”
Il leader della Corea del Nord Kim Jong Un mentre osserva il missile balistico che sta per essere lanciato. Credit. Afp
La Corea del Nord ha definito le ultime sanzioni imposte al paese da parte delle Nazioni Unite come un “atto di guerra”.
Il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha imposto le nuove sanzioni lo scorso 22 dicembre in risposta ai test missilistici di Pyongyang.
La risoluzione redatta dagli Stati Uniti e sostenuta all’unanimità da tutti i 15 membri del Consiglio di sicurezza include misure per ridurre le importazioni di petrolio dalla Corea del Nord fino al 90 per cento.
La Corea del Nord è già soggetta a una serie di sanzioni da parte degli Stati Uniti, delle Nazioni Unite e dell’Ue.
Pyongyang ha definito la decisione una ” violenta violazione della sovranità della nostra repubblica e un atto di guerra che distrugge la pace e la stabilità della penisola coreana e di una vasta regione”.
“Consolideremo ulteriormente la nostra deterrenza nucleare di autodifesa finalizzata a sradicare le minacce nucleari statunitensi, i ricatti e le mosse ostili, stabilendo l’equilibrio della forza con gli Stati Uniti”.
Le nuove sanzioni:
- Le consegne di prodotti petroliferi saranno limitate a 500.000 barili all’anno e il greggio a quattro milioni di barili all’anno
- Tutti i cittadini nordcoreani che lavorano all’estero dovranno rientrare a casa entro 24 mesi, limitando una fonte vitale di valuta estera
- Il divieto di esportazione di beni nordcoreani, come macchinari e apparecchiature elettriche
Il leader nordcoreano Kim Jong-un ha definito il presidente americano “mentalmente squilibrato”.
La Corea del Nord ha detto che le nuove sanzioni renderanno solo più rapido il suo programma nucleare.
Fonte: The Post Internazionale
Oltre 200 persone sono morte per una tempesta tropicale nelle Filippine
Oltre 200 persone sono rimaste uccise nell’isola di Mindanao, nel sud delle Filippine, a causa di una violenta tempesta tropicale.
Tembin, questo il nome della tempesta, ha causato frane e allagamenti in tutta l’isola, colpendo in modo particolare le città di Tubog e Piagapo.
Spinta da un vento di oltre 80 chilometri orari, la tempesta ha lasciato l’isola di Mindanao e si sta dirigendo verso la vicina Palawan.
Le autorità filippine sono state costrette a sfollare circa 15mila persone dalle proprie abitazioni.
Fonte: The Post Internazionale
venerdì 22 dicembre 2017
Elezioni in Catalogna, gli indipendentisti ottengono la maggioranza assoluta
Il primo partito è il centrista unionista "Ciudadanos" con 37 seggi. Affluenza record all'81,94 per cento
Il fronte indipendentista ha vinto le elezioni parlamentari in Catalogna del 21 dicembre 2017.
Le elezioni sono state convocate dal premier spagnolo Mariano Rajoy, con i poteri speciali che gli ha conferito il senato di Madrid, dopo che ha dichiarato destituiti il presidente Carles Puigdemont e il suo governo e sciolto il Parlament.
Le tre liste separatiste Junts per Catalunya ( JxCat – la lista dell’ex presidente Carles Puigdemont, indipendentista), Esquerra Republicana (Erc – sinistra indipendentista dell’ex vicepresidente Oriol Junqueras, attualmente in carcere) e la Cup (sinistra radicale indipendentista) hanno ottenuto insieme la maggioranza assoluta dei seggi, 70 su 135, ma non dei voti, arrivando al 47,5 per cento.
Le tre liste unioniste Cs, Psc e Pp hanno conquistato complessivamente 57 deputati.
Il primo partito è però il centrista unionista “Ciudadanos” di Inés Arrimadas con 37 seggi. Dietro di lui, a quota 34, l’indipendentista “Junts per Catalunya” dell’ex presidente Carles Puigdemont.
Con il partito unionista Ciudadanos davanti a tutti, le formazioni secessioniste hanno ottenuto comunque 70 seggi su 135, quindi la maggioranza assoluta la cui soglia di acceso era di 68 seggi.
La partecipazione al voto ha toccato l’82 per cento, il valore più alto mai registrato, sette punti in più rispetto alle elezioni del 2015, quando l’affluenza è stata del 74,95 per cento.
“È stata una partecipazione record, storica, con un risultato che nessuno può mettere in discussione”, ha detto il leader indipendentista Carles Puigdemont, in una conferenza stampa in catalano dall’esilio in Belgio, commentando il risultato delle consultazioni.
“La Repubblica catalana ha battuto la monarchia, Rajoy è stato sconfitto. Ora servono una rettifica, una riparazione e la restituzione della democrazia”, ha aggiunto.
Il portavoce della Commissione dell’Unione Europea ha fatto sapere che “la posizione Ue sulla Catalogna non cambierà”.
Il voto era considerato una sorta di test sul sostegno dei catalani al movimento separatista, dopo che Rajoy aveva commissariato la regione tramite l’articolo 155 della Costituzione, rimuovendone i leader dopo il referendum sull’indipendenza e la dichiarazione unilaterale.
Il risultato del Partito Popolare di Rajoy, che si ferma poco sopra il 2 per cento e ottiene solo 4 seggi, sembra sancire invece una bocciatura del premier da parte dei catalani.
Dopo la vittoria del fronte indipendenstista resta incerto chi debba essere il candidato a presidente fra JxC ed Erc, ovvero fra Puigdemont, che si considera l’unico veramente legittimo, e Oriol Junqueras, peraltro ancora in carcere.
Risolta la non secondaria questione, i numeri per un governo ci sono ma non è ancora chiaro quale sarebbe poi l’effettiva strategia riguardo all’indipendenza, in particolare se si farà di nuovo ricorso a una dichiarazione unilaterale.
Fonte: The Post Internazionale
Il fronte indipendentista ha vinto le elezioni parlamentari in Catalogna del 21 dicembre 2017.
Le elezioni sono state convocate dal premier spagnolo Mariano Rajoy, con i poteri speciali che gli ha conferito il senato di Madrid, dopo che ha dichiarato destituiti il presidente Carles Puigdemont e il suo governo e sciolto il Parlament.
Le tre liste separatiste Junts per Catalunya ( JxCat – la lista dell’ex presidente Carles Puigdemont, indipendentista), Esquerra Republicana (Erc – sinistra indipendentista dell’ex vicepresidente Oriol Junqueras, attualmente in carcere) e la Cup (sinistra radicale indipendentista) hanno ottenuto insieme la maggioranza assoluta dei seggi, 70 su 135, ma non dei voti, arrivando al 47,5 per cento.
Le tre liste unioniste Cs, Psc e Pp hanno conquistato complessivamente 57 deputati.
Il primo partito è però il centrista unionista “Ciudadanos” di Inés Arrimadas con 37 seggi. Dietro di lui, a quota 34, l’indipendentista “Junts per Catalunya” dell’ex presidente Carles Puigdemont.
Con il partito unionista Ciudadanos davanti a tutti, le formazioni secessioniste hanno ottenuto comunque 70 seggi su 135, quindi la maggioranza assoluta la cui soglia di acceso era di 68 seggi.
La partecipazione al voto ha toccato l’82 per cento, il valore più alto mai registrato, sette punti in più rispetto alle elezioni del 2015, quando l’affluenza è stata del 74,95 per cento.
“È stata una partecipazione record, storica, con un risultato che nessuno può mettere in discussione”, ha detto il leader indipendentista Carles Puigdemont, in una conferenza stampa in catalano dall’esilio in Belgio, commentando il risultato delle consultazioni.
“La Repubblica catalana ha battuto la monarchia, Rajoy è stato sconfitto. Ora servono una rettifica, una riparazione e la restituzione della democrazia”, ha aggiunto.
Il portavoce della Commissione dell’Unione Europea ha fatto sapere che “la posizione Ue sulla Catalogna non cambierà”.
Il voto era considerato una sorta di test sul sostegno dei catalani al movimento separatista, dopo che Rajoy aveva commissariato la regione tramite l’articolo 155 della Costituzione, rimuovendone i leader dopo il referendum sull’indipendenza e la dichiarazione unilaterale.
Il risultato del Partito Popolare di Rajoy, che si ferma poco sopra il 2 per cento e ottiene solo 4 seggi, sembra sancire invece una bocciatura del premier da parte dei catalani.
Dopo la vittoria del fronte indipendenstista resta incerto chi debba essere il candidato a presidente fra JxC ed Erc, ovvero fra Puigdemont, che si considera l’unico veramente legittimo, e Oriol Junqueras, peraltro ancora in carcere.
Risolta la non secondaria questione, i numeri per un governo ci sono ma non è ancora chiaro quale sarebbe poi l’effettiva strategia riguardo all’indipendenza, in particolare se si farà di nuovo ricorso a una dichiarazione unilaterale.
Fonte: The Post Internazionale
giovedì 21 dicembre 2017
Repubblica chiede al PD di non ricandidare Boschi
“Un fardello troppo pesante”, scrive il direttore in prima pagina, chiedendo “gesti netti e chiari”
Il direttore di Repubblica Mario Calabresi ha scritto oggi un editoriale molto critico sul caso Banca Etruria chiedendo alla sottosegretaria Maria Elena Boschi di «farsi da parte» dal Partito Democratico «e dalle sue candidature», perché «sta diventando un fardello troppo pesante».
Ieri la Commissione parlamentare bicamerale di indagine sulle banche ha raccolto la testimonianza di Federico Ghizzoni, ex presidente di Unicredit. Ghizzoni ha raccontato di alcuni contatti legati a Banca Etruria che ebbe con Boschi e con Marco Carrai, imprenditore e stretto collaboratore del segretario del PD Matteo Renzi, negando però che questi gli abbiano fatto delle «pressioni» perché intervenisse nella crisi di Banca Etruria. Qui è raccontata la storia per intero.
Calabresi inizia il suo editoriale spiegando che un anno fa Repubblica commentò la nascita del governo Gentiloni criticando la scelta di promuovere Maria Elena Boschi, principale autrice della riforma costituzionale bocciata al referendum, che avrebbe invece dovuto farsi da parte, secondo lui. «Riconfermarla, scrivemmo, era “una scelta evitabile che rafforza diffidenze, gonfia il qualunquismo e lascia un retrogusto di furbizia e immaturità”». A quel tempo la scelta «sarebbe stata dettata dalla sola opportunità politica» e «avrebbe evitato un finale come quello che è davanti ai nostri occhi». Un anno dopo, dice infatti Calabresi, «la situazione è ben più complicata e grave, le ombre sul cosiddetto Giglio magico si sono moltiplicate e l’affare Etruria è diventato la palla al piede di un partito che appare ostaggio del caso di una piccola banca meno rilevante di quelli avvenuti nel Nord-Est».
Calabresi scrive che «l’uscita di scena di Boschi, non dal governo ma dal Partito democratico e dalle sue candidature, è ora il passo necessario e indispensabile per provare a contenere i danni e per mostrare ai propri elettori di aver compreso la differenza tra interesse generale e interesse familiare». Calabresi cita Marco Carrai («che di Matteo Renzi è da sempre non solo l’uomo di fiducia ma anche una specie di gemello siamese») e spiega che a Maria Elena Boschi continua a sfuggire «il concetto dell’opportunità e contemporaneamente quello del conflitto d’interessi»:
«La vicenda Boschi va esaminata su due piani, diversi ma connessi. È comprensibile, perfino fisiologico, che un politico si occupi del territorio in cui viene eletto. Cura gli interessi dei suoi elettori, è deputato a fare questo. Del resto, le crisi bancarie in Italia sono sempre state risolte attraverso fusioni e acquisizioni. È stata la linea seguita da tutte le nostre Istituzioni.
Per la sottosegretaria, però, non è in discussione questo piano. Ma l’altro. Non è accettabile che un ministro della Repubblica si occupi di una questione che fa riferimento diretto al padre. Il rapporto di parentela con l’allora vicepresidente di Banca Etruria è il nucleo di un conflitto di interessi che sarebbe censurato in qualsiasi democrazia occidentale. Le regole morali e politiche del conflitto di interessi non possono funzionare a giorni alterni o a governi alterni. Questo è il cuore del problema, non se siano stati commessi illeciti. Di cui nessuno è a conoscenza. E questa ostinazione mostra quel grumo di potere locale da cui, evidentemente, la sottosegretaria non riesce a prendere le distanze».
Calabresi spiega che il PD «non può farsi carico di questa situazione», che Maria Elena Boschi «sta diventando un fardello troppo pesante per la principale forza riformista di questo Paese» e che lei stessa «dovrebbe con responsabilità liberare da questo peso il partito che le ha consentito di approdare in Parlamento e al governo».
Il direttore di Repubblica conclude l’editoriale parlando di Renzi e del PD. E dice:
«(…) Il segretario [dovrebbe] accettare l’idea che il bene del Paese e del Pd vengono prima della difesa di un componente del suo gruppo dirigente. A meno di non voler avallare l’idea che il vertice del Partito democratico possa liberamente essere sovrapposto al fantomatico Giglio magico.
Perché in discussione non c’è solo l’esito delle imminenti elezioni, già piuttosto incerte. Il Pd deve porre ora le premesse per assicurarsi la possibilità di rimanere competitivo nei prossimi anni. Il centrosinistra affronta stavolta la partita più difficile. La posta in gioco non è la vittoria o la sconfitta — questo appartiene alla fisiologia di una democrazia — ma che rimanga in vita la prospettiva di un moderno centrosinistra capace di governare i processi e le sfide di questo millennio. E per provare a invertire la rotta e risalire la china ci vogliono gesti netti e chiari, non sterili rivendicazioni che ipotecano il futuro».
Questa mattina, intervistato su TGcom24, Matteo Renzi ha risposto indirettamente all’editoriale di Calabresi dicendo che «un politico si fa giudicare dai cittadini: quindi saranno le elezioni a giudicare se qualsiasi politico, non soltanto Maria Elena Boschi, debba essere riportato in Parlamento oppure no. Quindi per noi questa è una discussione che non esiste». E ancora: «Vorrei che la campagna elettorale fosse sui contenuti. Condivido le parole che il ministro Boschi ha detto oggi sulla Stampa, dove ha parlato di “caccia alla donna” e ha confermato di volersi candidare».
Fonte: Il Post
Matteo Renzi e Maria Elena Boschi, Roma, 19 gennaio 2015 (Cimaglia / LaPresse)
Il direttore di Repubblica Mario Calabresi ha scritto oggi un editoriale molto critico sul caso Banca Etruria chiedendo alla sottosegretaria Maria Elena Boschi di «farsi da parte» dal Partito Democratico «e dalle sue candidature», perché «sta diventando un fardello troppo pesante».
Ieri la Commissione parlamentare bicamerale di indagine sulle banche ha raccolto la testimonianza di Federico Ghizzoni, ex presidente di Unicredit. Ghizzoni ha raccontato di alcuni contatti legati a Banca Etruria che ebbe con Boschi e con Marco Carrai, imprenditore e stretto collaboratore del segretario del PD Matteo Renzi, negando però che questi gli abbiano fatto delle «pressioni» perché intervenisse nella crisi di Banca Etruria. Qui è raccontata la storia per intero.
Calabresi inizia il suo editoriale spiegando che un anno fa Repubblica commentò la nascita del governo Gentiloni criticando la scelta di promuovere Maria Elena Boschi, principale autrice della riforma costituzionale bocciata al referendum, che avrebbe invece dovuto farsi da parte, secondo lui. «Riconfermarla, scrivemmo, era “una scelta evitabile che rafforza diffidenze, gonfia il qualunquismo e lascia un retrogusto di furbizia e immaturità”». A quel tempo la scelta «sarebbe stata dettata dalla sola opportunità politica» e «avrebbe evitato un finale come quello che è davanti ai nostri occhi». Un anno dopo, dice infatti Calabresi, «la situazione è ben più complicata e grave, le ombre sul cosiddetto Giglio magico si sono moltiplicate e l’affare Etruria è diventato la palla al piede di un partito che appare ostaggio del caso di una piccola banca meno rilevante di quelli avvenuti nel Nord-Est».
Calabresi scrive che «l’uscita di scena di Boschi, non dal governo ma dal Partito democratico e dalle sue candidature, è ora il passo necessario e indispensabile per provare a contenere i danni e per mostrare ai propri elettori di aver compreso la differenza tra interesse generale e interesse familiare». Calabresi cita Marco Carrai («che di Matteo Renzi è da sempre non solo l’uomo di fiducia ma anche una specie di gemello siamese») e spiega che a Maria Elena Boschi continua a sfuggire «il concetto dell’opportunità e contemporaneamente quello del conflitto d’interessi»:
«La vicenda Boschi va esaminata su due piani, diversi ma connessi. È comprensibile, perfino fisiologico, che un politico si occupi del territorio in cui viene eletto. Cura gli interessi dei suoi elettori, è deputato a fare questo. Del resto, le crisi bancarie in Italia sono sempre state risolte attraverso fusioni e acquisizioni. È stata la linea seguita da tutte le nostre Istituzioni.
Per la sottosegretaria, però, non è in discussione questo piano. Ma l’altro. Non è accettabile che un ministro della Repubblica si occupi di una questione che fa riferimento diretto al padre. Il rapporto di parentela con l’allora vicepresidente di Banca Etruria è il nucleo di un conflitto di interessi che sarebbe censurato in qualsiasi democrazia occidentale. Le regole morali e politiche del conflitto di interessi non possono funzionare a giorni alterni o a governi alterni. Questo è il cuore del problema, non se siano stati commessi illeciti. Di cui nessuno è a conoscenza. E questa ostinazione mostra quel grumo di potere locale da cui, evidentemente, la sottosegretaria non riesce a prendere le distanze».
Calabresi spiega che il PD «non può farsi carico di questa situazione», che Maria Elena Boschi «sta diventando un fardello troppo pesante per la principale forza riformista di questo Paese» e che lei stessa «dovrebbe con responsabilità liberare da questo peso il partito che le ha consentito di approdare in Parlamento e al governo».
Il direttore di Repubblica conclude l’editoriale parlando di Renzi e del PD. E dice:
«(…) Il segretario [dovrebbe] accettare l’idea che il bene del Paese e del Pd vengono prima della difesa di un componente del suo gruppo dirigente. A meno di non voler avallare l’idea che il vertice del Partito democratico possa liberamente essere sovrapposto al fantomatico Giglio magico.
Perché in discussione non c’è solo l’esito delle imminenti elezioni, già piuttosto incerte. Il Pd deve porre ora le premesse per assicurarsi la possibilità di rimanere competitivo nei prossimi anni. Il centrosinistra affronta stavolta la partita più difficile. La posta in gioco non è la vittoria o la sconfitta — questo appartiene alla fisiologia di una democrazia — ma che rimanga in vita la prospettiva di un moderno centrosinistra capace di governare i processi e le sfide di questo millennio. E per provare a invertire la rotta e risalire la china ci vogliono gesti netti e chiari, non sterili rivendicazioni che ipotecano il futuro».
Questa mattina, intervistato su TGcom24, Matteo Renzi ha risposto indirettamente all’editoriale di Calabresi dicendo che «un politico si fa giudicare dai cittadini: quindi saranno le elezioni a giudicare se qualsiasi politico, non soltanto Maria Elena Boschi, debba essere riportato in Parlamento oppure no. Quindi per noi questa è una discussione che non esiste». E ancora: «Vorrei che la campagna elettorale fosse sui contenuti. Condivido le parole che il ministro Boschi ha detto oggi sulla Stampa, dove ha parlato di “caccia alla donna” e ha confermato di volersi candidare».
Fonte: Il Post
Un SUV ha investito la folla a Melbourne
19 persone sono state ferite e l'autista – un cittadino australiano con problemi di salute mentale – è stato arrestato: la polizia non crede si tratti di terrorismo
Intorno alle 6.45 di questa mattina ora italiana (le 16.45 locali), un SUV ha investito i pedoni a un trafficato incrocio del centro di Melbourne, in Australia. 19 persone sono state ferite, 4 in modo grave. La macchina ha superato un semaforo rosso e non ha mai rallentato fino a quando si è scontrata contro la struttura in cemento di una fermata del tram. L’autista dell’auto è stato arrestato immediatamente e dopo le prime indagini la polizia ha detto di non ritenere che si sia trattato di un atto di terrorismo.
In una conferenza stampa alle 11.30 di mattina (ora italiana), la polizia dello stato di Victoria, dove si trova Melbourne, ha detto che l’autista dell’auto era un 32enne cittadino australiano di origini afghane con problemi di salute mentale. A fermarlo, poco dopo l’incidente, è stato un agente di polizia fuori servizio che si trovava per caso sul posto. L’uomo, che si è ferito nell’incidente, è ricoverato in ospedale ma è già stato interrogato. La polizia ha detto che l’incidente è stato un “atto deliberato” ma non crede che ci sia qualche legame con il terrorismo. Durante la conferenza stampa il capo della polizia dello stato di Victoria, Shane Patton, ha insistito sui problemi di droga e di salute mentale dell’uomo, che aveva solo qualche piccolo precedente per reati stradali.
Poco dopo l’incidente di questa mattina, ha spiegato la polizia, è stata arrestata anche una seconda persona che si trovava sul luogo dell’incidente, all’angolo tra Flinders Street ed Elizabeth Street. Si tratta di un 24enne che era stato visto filmare la scena con il suo cellulare e che aveva fatto insospettire gli agenti arrivati sul posto. L’uomo è stato interrogato ed è ancora in stato di fermo, ma la polizia non crede abbia alcun legame con l’autista dell’auto ed è probabile che verrà rilasciato presto.
Dei 19 feriti, 4 sono ancora in gravi condizioni, ma sul loro conto non sono per ora state date altre informazioni. Gli altri 15 feriti, ha detto il premier dello stato di Victoria Daniel Andrews, sono in condizioni stabili: tra di loro c’è anche un bambino che si era ferito alla testa e che è ancora ricoverato al Royal Children’s Hospital.
Fonte: Il Post
Il SUV bianco che ha investito la folla a Melbourne (Australian Broadcast Corp. via AP)
Intorno alle 6.45 di questa mattina ora italiana (le 16.45 locali), un SUV ha investito i pedoni a un trafficato incrocio del centro di Melbourne, in Australia. 19 persone sono state ferite, 4 in modo grave. La macchina ha superato un semaforo rosso e non ha mai rallentato fino a quando si è scontrata contro la struttura in cemento di una fermata del tram. L’autista dell’auto è stato arrestato immediatamente e dopo le prime indagini la polizia ha detto di non ritenere che si sia trattato di un atto di terrorismo.
In una conferenza stampa alle 11.30 di mattina (ora italiana), la polizia dello stato di Victoria, dove si trova Melbourne, ha detto che l’autista dell’auto era un 32enne cittadino australiano di origini afghane con problemi di salute mentale. A fermarlo, poco dopo l’incidente, è stato un agente di polizia fuori servizio che si trovava per caso sul posto. L’uomo, che si è ferito nell’incidente, è ricoverato in ospedale ma è già stato interrogato. La polizia ha detto che l’incidente è stato un “atto deliberato” ma non crede che ci sia qualche legame con il terrorismo. Durante la conferenza stampa il capo della polizia dello stato di Victoria, Shane Patton, ha insistito sui problemi di droga e di salute mentale dell’uomo, che aveva solo qualche piccolo precedente per reati stradali.
Poco dopo l’incidente di questa mattina, ha spiegato la polizia, è stata arrestata anche una seconda persona che si trovava sul luogo dell’incidente, all’angolo tra Flinders Street ed Elizabeth Street. Si tratta di un 24enne che era stato visto filmare la scena con il suo cellulare e che aveva fatto insospettire gli agenti arrivati sul posto. L’uomo è stato interrogato ed è ancora in stato di fermo, ma la polizia non crede abbia alcun legame con l’autista dell’auto ed è probabile che verrà rilasciato presto.
Dei 19 feriti, 4 sono ancora in gravi condizioni, ma sul loro conto non sono per ora state date altre informazioni. Gli altri 15 feriti, ha detto il premier dello stato di Victoria Daniel Andrews, sono in condizioni stabili: tra di loro c’è anche un bambino che si era ferito alla testa e che è ancora ricoverato al Royal Children’s Hospital.
Fonte: Il Post
lunedì 18 dicembre 2017
L’ex ministro Altero Matteoli è morto in un incidente stradale
Aveva 77 anni, e si e occupava di politica da quaranta: è stato coinvolto in un incidente sull'Aurelia in Toscana
Altero Matteoli, senatore di Forza Italia ed ex ministro dell’Ambiente e dei Trasporti, è morto a 77 anni in un incidente stradale sull’Aurelia. I giornali parlano di uno scontro frontale tra la BMW su cui Matteoli viaggiava solo e un’altra automobile, una Nissan, su cui c’erano un uomo e una donna che sono rimasti feriti. L’incidente è avvenuto all’altezza del comune di Capalbio, in provincia di Grosseto. L’Aurelia è stata chiusa al traffico in direzione Roma.
Altero Matteoli era nato a Cecina, in provincia di Livorno, e si occupava di politica da quarant’anni. Ne aveva passati quasi otto da ministro, in tre diverse tranche: fu ministro dell’Ambiente nel primo e nel secondo governo Berlusconi, e ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti dal 2008 al 2011, nel suo terzo governo. La sua carriera politica era iniziata nel Movimento Sociale Italiano; poi era passato ad Alleanza Nazionale e infine a Forza Italia. Era entrato in Parlamento per la prima volta nel 1983, e da allora ci era rimasto quasi sempre: nel 2013 era infatti stato rieletto con Forza Italia.
Fonte: Il Post
Altero Matteoli nel 2015 (GIORGIO ONORATI/ANSA)
Altero Matteoli, senatore di Forza Italia ed ex ministro dell’Ambiente e dei Trasporti, è morto a 77 anni in un incidente stradale sull’Aurelia. I giornali parlano di uno scontro frontale tra la BMW su cui Matteoli viaggiava solo e un’altra automobile, una Nissan, su cui c’erano un uomo e una donna che sono rimasti feriti. L’incidente è avvenuto all’altezza del comune di Capalbio, in provincia di Grosseto. L’Aurelia è stata chiusa al traffico in direzione Roma.
Altero Matteoli era nato a Cecina, in provincia di Livorno, e si occupava di politica da quarant’anni. Ne aveva passati quasi otto da ministro, in tre diverse tranche: fu ministro dell’Ambiente nel primo e nel secondo governo Berlusconi, e ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti dal 2008 al 2011, nel suo terzo governo. La sua carriera politica era iniziata nel Movimento Sociale Italiano; poi era passato ad Alleanza Nazionale e infine a Forza Italia. Era entrato in Parlamento per la prima volta nel 1983, e da allora ci era rimasto quasi sempre: nel 2013 era infatti stato rieletto con Forza Italia.
Fonte: Il Post
giovedì 14 dicembre 2017
Ci sono almeno 15 morti per un attentato suicida in una scuola di polizia di Mogadiscio, in Somalia
Un attentatore suicida travestito da poliziotto si è fatto esplodere in una scuola di polizia di Mogadiscio, in Somalia, uccidendo almeno 15 agenti. Un funzionario di polizia ha detto a Reuters che ci sono altri 17 feriti. Il gruppo terrorista islamista al Shabaab ha rivendicato l’attentato, sostenendo però di avere ucciso 27 poliziotti: un bilancio molto più alto di quello confermato.
(AP Photo/Farah Abdi Warsameh)
Fonte: Il Post
Secondo Medici Senza Frontiere, la scorsa estate almeno 6.700 rohingya sono stati uccisi nelle violenze in Myanmar
Secondo l’organizzazione umanitaria Medici Senza Frontiere, lo scorso agosto almeno 6.700 rohingya sono stati uccisi nelle violenze in Myanmar da parte del governo e dell’esercito. Del tentativo dell’esercito del Myanmar di fare una pulizia etnica della minoranza musulmana rohingya si è molto parlato negli ultimi mesi: circa 647.000 persone erano state costrette con la forza a lasciare le loro case e cercare rifugio in Bangladesh e il governo del Myanmar aveva parlato di circa 400 persone morte (anche se non aveva mai ammesso la sua responsabilità nelle violenze).
Lo studio di Medici Senza Frontiere, basato su interviste con più di 600.000 profughi rohingya, dice che il numero dei morti è molto più alto di quello ammesso dal governo del Myanmar: secondo MSF circa 9.000 persone sono morte tra il 25 agosto e il 25 settembre dopo l’inizio delle violenze e il numero di 6.700 morti è la loro stima più conservativa. Tra i morti, dice MSF, circa 750 erano minorenni.
Rohingya in attesa di essere chiamati per ricevere cibo e acqua nel campo profughi di Kutupalong (ED JONES/AFP/Getty Images)
Fonte: Il Post
Il testamento biologico è legge
È passato al Senato dopo mesi di ostruzionismo: introdurrà, entro alcuni limiti, il diritto all’interruzione delle terapie
La legge sul testamento biologico è stata approvata dal Senato oggi, giovedì 14 dicembre, dopo mesi di ostruzionismo e decine di migliaia di emendamenti. È passata con 180 voti a favore, 71 contrari e 6 astensioni, con una maggioranza diversa da quella che sostiene il governo Gentiloni. Hanno votato a favore il Partito Democratico, il Movimento 5 Stelle e la sinistra (MDP, Sinistra Italiana-Possibile), mentre alcuni senatori cattolici e gran parte del centrodestra hanno votato contro: Forza Italia, che ha lasciato però libertà di coscienza ai propri senatori, Lega Nord e Alternativa Popolare. La legge sul testamento biologico introdurrà entro alcuni limiti il diritto all’interruzione delle terapie, che finora doveva passare dai tribunali.
Ieri, mercoledì 13 dicembre, l’aula aveva approvato gli otto articoli che compongono la legge senza modifiche rispetto al testo della Camera votato lo scorso 20 aprile. Gli emendamenti al disegno di legge erano circa 3.000, presentati per lo più da Alternativa Popolare e Lega Nord. Il gruppo di “Federazione per la libertà-Idea” di Gaetano Quagliariello aveva anche presentato alla presidenza del Senato la richiesta di 15 voti segreti sul provvedimento che una maggioranza trasversale, composta da Partito Democratico e Movimento 5 Stelle, ha però superato respingendo con un margine piuttosto ampio anche le modifiche più controverse, come quella sull’idratazione e la nutrizione del malato terminale. Durante l’approvazione finale, in piazza Montecitorio c’erano alcuni rappresentanti dell’Associazione Luca Coscioni che hanno festeggiato insieme a diversi altri attivisti.
La legge permette – entro alcuni limiti – di esprimere in anticipo quali trattamenti medici ricevere nel caso di gravi malattie. In particolare, consente a qualsiasi maggiorenne la possibilità di rinunciare ad alcune terapie mediche, in particolare alla nutrizione e all’idratazione artificiale. Questa interruzione può essere ottenuta anche con le cosiddette “disposizioni anticipate di trattamento” (DAT), un documento nel quale si può indicare a quali terapie si vuole rinunciare e a quali condizioni, nel caso in cui a un certo punto si sia impossibilitati a esprimere la propria preferenza. Il paziente può anche chiedere di essere sedato in maniera continua e profonda, in modo da poter morire senza soffrire, in una sorta di coma indotto. Di fatto il diritto all’interruzione delle terapie, comprese nutrizione e idratazione artificiale, era già stato ottenuto per via giurisprudenziale, cioè grazie alle sentenze dei tribunali; ora sarebbe allargato a tutti, per legge.
Secondo i sostenitori della libertà di scelta sul fine vita, la legge arrivata al Senato è sostanzialmente buona, anche se contiene diverse aperture alla possibilità che le volontà del malato non vengano rispettate. Per esempio è permessa ampia libertà per il medico di rifiutarsi di seguire le indicazioni del paziente o quelle contenute nelle DAT, qualora siano state scoperte nuove terapie che potrebbero permettere un miglioramento del paziente di cui lui stesso non era a conoscenza al momento della redazione delle DAT. Ma un medico può rifiutarsi di interrompere nutrizione o idratazione artificiale anche per motivi descritti in maniera molto generica, che sembrano introdurre la possibilità di un’obiezione di coscienza.
Fonte: Il Post
Emma Bonino con alcuni rappresentanti dell'associazione Luca Coscioni durante il voto al Senato. (ANSA/GIUSEPPE LAMI)
La legge sul testamento biologico è stata approvata dal Senato oggi, giovedì 14 dicembre, dopo mesi di ostruzionismo e decine di migliaia di emendamenti. È passata con 180 voti a favore, 71 contrari e 6 astensioni, con una maggioranza diversa da quella che sostiene il governo Gentiloni. Hanno votato a favore il Partito Democratico, il Movimento 5 Stelle e la sinistra (MDP, Sinistra Italiana-Possibile), mentre alcuni senatori cattolici e gran parte del centrodestra hanno votato contro: Forza Italia, che ha lasciato però libertà di coscienza ai propri senatori, Lega Nord e Alternativa Popolare. La legge sul testamento biologico introdurrà entro alcuni limiti il diritto all’interruzione delle terapie, che finora doveva passare dai tribunali.
Ieri, mercoledì 13 dicembre, l’aula aveva approvato gli otto articoli che compongono la legge senza modifiche rispetto al testo della Camera votato lo scorso 20 aprile. Gli emendamenti al disegno di legge erano circa 3.000, presentati per lo più da Alternativa Popolare e Lega Nord. Il gruppo di “Federazione per la libertà-Idea” di Gaetano Quagliariello aveva anche presentato alla presidenza del Senato la richiesta di 15 voti segreti sul provvedimento che una maggioranza trasversale, composta da Partito Democratico e Movimento 5 Stelle, ha però superato respingendo con un margine piuttosto ampio anche le modifiche più controverse, come quella sull’idratazione e la nutrizione del malato terminale. Durante l’approvazione finale, in piazza Montecitorio c’erano alcuni rappresentanti dell’Associazione Luca Coscioni che hanno festeggiato insieme a diversi altri attivisti.
La legge permette – entro alcuni limiti – di esprimere in anticipo quali trattamenti medici ricevere nel caso di gravi malattie. In particolare, consente a qualsiasi maggiorenne la possibilità di rinunciare ad alcune terapie mediche, in particolare alla nutrizione e all’idratazione artificiale. Questa interruzione può essere ottenuta anche con le cosiddette “disposizioni anticipate di trattamento” (DAT), un documento nel quale si può indicare a quali terapie si vuole rinunciare e a quali condizioni, nel caso in cui a un certo punto si sia impossibilitati a esprimere la propria preferenza. Il paziente può anche chiedere di essere sedato in maniera continua e profonda, in modo da poter morire senza soffrire, in una sorta di coma indotto. Di fatto il diritto all’interruzione delle terapie, comprese nutrizione e idratazione artificiale, era già stato ottenuto per via giurisprudenziale, cioè grazie alle sentenze dei tribunali; ora sarebbe allargato a tutti, per legge.
Secondo i sostenitori della libertà di scelta sul fine vita, la legge arrivata al Senato è sostanzialmente buona, anche se contiene diverse aperture alla possibilità che le volontà del malato non vengano rispettate. Per esempio è permessa ampia libertà per il medico di rifiutarsi di seguire le indicazioni del paziente o quelle contenute nelle DAT, qualora siano state scoperte nuove terapie che potrebbero permettere un miglioramento del paziente di cui lui stesso non era a conoscenza al momento della redazione delle DAT. Ma un medico può rifiutarsi di interrompere nutrizione o idratazione artificiale anche per motivi descritti in maniera molto generica, che sembrano introdurre la possibilità di un’obiezione di coscienza.
Fonte: Il Post
lunedì 11 dicembre 2017
Perché si parla di nuovo di Dell’Utri
Il tribunale ha deciso che l'ex senatore di Forza Italia, condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, deve restare in carcere nonostante le sue condizioni di salute
In questi giorni si è tornato a parlare molto di Marcello Dell’Utri, cofondatore ed ex senatore di Forza Italia, condannato a 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa. La scorsa settimana il tribunale di sorveglianza di Roma gli ha negato una richiesta di scarcerazione per motivi di salute. Dell’Utri ha 74 anni e soffre di varie gravi patologie che però, secondo la decisione del tribunale, sono compatibili con il regime carcerario. La decisione del tribunale ha causato molte polemiche e dichiarazioni da parte dei leader politici e intellettuali in particolare di centrodestra, ma anche della sinistra più liberale, che hanno definito la carcerazione di Dell’Utri una pena eccessiva, se non una forma di tortura o di pena di morte.
Dell’Utri aveva presentato la richiesta di scarcerazione più di un anno fa, ma il tribunale è arrivato a una decisione soltanto lo scorso 7 dicembre. Il tribunale ha deciso di seguire le indicazioni contenute nella perizia dei due esperti che aveva nominato la scorsa estate: il medico legale Alessandro Fineschi e il cardiologo Luciano De Biase. Secondo i medici, Dell’Utri può restare in carcere a patto che determinate cure mediche gli vengano somministrate in ospedale. Nella motivazione alla decisione, i giudici hanno scritto: «Sulla scorta del quadro clinico complessivo i periti hanno concluso per la compatibilità con il carcere non emergendo criticità o urgenze tali da rendere necessario il ricorso a cure o trattamenti non attuabili in regime di detenzione ordinario».
Secondo gli avvocati, invece, Dell’Utri non può più rimanere in carcere a causa di alcune gravi patologie, tra cui un problema cardiocircolatorio, un tumore alla prostata e una forma di diabete. Il procedimento è durato molto, con la prima udienza che si era tenuta nel settembre del 2016. Mentre gli esperti nominati dal tribunale hanno contestato le affermazioni degli avvocati, una vecchia perizia di alcuni periti scelti dalla procura (e quindi dell’accusa) sosteneva invece la tesi degli avvocati difensori e cioè che Dell’Utri non potesse più restare in carcere. La procura ha preferito ascoltare i periti nominati dal tribunale invece che i suoi, e ha chiesto che la richiesta di scarcerazione venisse respinta.
Dopo la decisione del tribunale Dell’Utri ha fatto diverse dichiarazioni, attraverso i suoi avvocati e chi lo visita in carcere. In un primo momento ha detto che avrebbe rifiutato cibo e cure mediche, e diversi giornali gli hanno attribuito la frase: «Ora mi lascio morire». Alcuni visitatori hanno poi riferito che in questi giorni Dell’Utri si sta nutrendo soltanto di acqua e fette biscottate. Diversi parlamentari del centrodestra hanno chiesto che a Dell’Utri venga concessa la grazia dal presidente della Repubblica, una campagna sostenuta anche da quotidiani come Il Giornale e Il Tempo. Pochi giorni fa però Dell’Utri ha detto che non intende chiedere la grazia, e che se gli venisse concessa la rifiuterebbe.
Dell’Utri era stato condannato a 7 anni di carcere nel maggio del 2014 per concorso esterno in associazione mafiosa, un reato che non esiste nel codice penale ed è molto discusso dai giuristi (ci arriviamo). Dopo un breve periodo di latitanza, venne arrestato a Beirut e nel giugno dello stesso anno venne estradato in Italia. Secondo i giudici che lo hanno condannato, Dell’Utri svolse per anni il ruolo di anello di congiunzione tra Silvio Berlusconi e alcuni esponenti della mafia siciliana. Nella sentenza definitiva è scritto che nel corso degli anni Ottanta ci fu «un accordo di natura protettiva e collaborativa raggiunto da Berlusconi con la mafia per il tramite di Dell’Utri». Anche questo processo è stato lungo e particolarmente tortuoso. Le prime indagini risalgono al 1994, il processò iniziò nel 1997 e terminò nel 2004 con una condanna a 9 anni di reclusione. Il processo di appello terminò nel 2010, ma fu annullato dalla Cassazione nel 2012. Nel 2013 Dell’Utri fu condannato nuovamente in appello, condanna che poi definitivamente confermata in Cassazione.
Oltre alle sue condizioni di salute, anche il reato per cui è stato condannato ha suscitato molte polemiche. Il reato di “concorso esterno in associazione mafiosa” non esiste nel codice penale. Deriva infatti dalla “fusione” di due diversi reati: l’associazione per delinquere di tipo mafioso, articolo 416 bis, e l’articolo 110, che prevede il concorso di persone in altri reati. Il tema era tornato di attualità dopo la sentenza della Corte di Cassazione sul caso di Bruno Contrada, un ex dirigente della polizia e dei servizi segreti condannato nel 2007 a 10 anni anche lui per concorso esterno in associazione mafiosa. Nel luglio scorso, in seguito a un ricorso presentato dai legali di Contrada, la Corte di Cassazione aveva stabilito che la pena, già scontata da Contrada parte in carcere e parte ai domiciliari, era da considerarsi «ineseguibile e improduttiva di effetti» poiché all’epoca dei fatti di cui era accusato il concorso esterno non era un reato sufficiente “tipizzato”, cioè era ancora troppo generico e poco preciso. Secondo i magistrati Dell’Utri ha compiuto il reato fino al 1992, prima che venisse “tipizzato”, quindi anche lui potrebbe rientrare nella stessa categoria di Contrada e vedersi la condanna annullata in caso di ricorso.
Fonte: Il Post
(ANSA/MICHELE NACCARI)
In questi giorni si è tornato a parlare molto di Marcello Dell’Utri, cofondatore ed ex senatore di Forza Italia, condannato a 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa. La scorsa settimana il tribunale di sorveglianza di Roma gli ha negato una richiesta di scarcerazione per motivi di salute. Dell’Utri ha 74 anni e soffre di varie gravi patologie che però, secondo la decisione del tribunale, sono compatibili con il regime carcerario. La decisione del tribunale ha causato molte polemiche e dichiarazioni da parte dei leader politici e intellettuali in particolare di centrodestra, ma anche della sinistra più liberale, che hanno definito la carcerazione di Dell’Utri una pena eccessiva, se non una forma di tortura o di pena di morte.
Dell’Utri aveva presentato la richiesta di scarcerazione più di un anno fa, ma il tribunale è arrivato a una decisione soltanto lo scorso 7 dicembre. Il tribunale ha deciso di seguire le indicazioni contenute nella perizia dei due esperti che aveva nominato la scorsa estate: il medico legale Alessandro Fineschi e il cardiologo Luciano De Biase. Secondo i medici, Dell’Utri può restare in carcere a patto che determinate cure mediche gli vengano somministrate in ospedale. Nella motivazione alla decisione, i giudici hanno scritto: «Sulla scorta del quadro clinico complessivo i periti hanno concluso per la compatibilità con il carcere non emergendo criticità o urgenze tali da rendere necessario il ricorso a cure o trattamenti non attuabili in regime di detenzione ordinario».
Secondo gli avvocati, invece, Dell’Utri non può più rimanere in carcere a causa di alcune gravi patologie, tra cui un problema cardiocircolatorio, un tumore alla prostata e una forma di diabete. Il procedimento è durato molto, con la prima udienza che si era tenuta nel settembre del 2016. Mentre gli esperti nominati dal tribunale hanno contestato le affermazioni degli avvocati, una vecchia perizia di alcuni periti scelti dalla procura (e quindi dell’accusa) sosteneva invece la tesi degli avvocati difensori e cioè che Dell’Utri non potesse più restare in carcere. La procura ha preferito ascoltare i periti nominati dal tribunale invece che i suoi, e ha chiesto che la richiesta di scarcerazione venisse respinta.
Dopo la decisione del tribunale Dell’Utri ha fatto diverse dichiarazioni, attraverso i suoi avvocati e chi lo visita in carcere. In un primo momento ha detto che avrebbe rifiutato cibo e cure mediche, e diversi giornali gli hanno attribuito la frase: «Ora mi lascio morire». Alcuni visitatori hanno poi riferito che in questi giorni Dell’Utri si sta nutrendo soltanto di acqua e fette biscottate. Diversi parlamentari del centrodestra hanno chiesto che a Dell’Utri venga concessa la grazia dal presidente della Repubblica, una campagna sostenuta anche da quotidiani come Il Giornale e Il Tempo. Pochi giorni fa però Dell’Utri ha detto che non intende chiedere la grazia, e che se gli venisse concessa la rifiuterebbe.
Dell’Utri era stato condannato a 7 anni di carcere nel maggio del 2014 per concorso esterno in associazione mafiosa, un reato che non esiste nel codice penale ed è molto discusso dai giuristi (ci arriviamo). Dopo un breve periodo di latitanza, venne arrestato a Beirut e nel giugno dello stesso anno venne estradato in Italia. Secondo i giudici che lo hanno condannato, Dell’Utri svolse per anni il ruolo di anello di congiunzione tra Silvio Berlusconi e alcuni esponenti della mafia siciliana. Nella sentenza definitiva è scritto che nel corso degli anni Ottanta ci fu «un accordo di natura protettiva e collaborativa raggiunto da Berlusconi con la mafia per il tramite di Dell’Utri». Anche questo processo è stato lungo e particolarmente tortuoso. Le prime indagini risalgono al 1994, il processò iniziò nel 1997 e terminò nel 2004 con una condanna a 9 anni di reclusione. Il processo di appello terminò nel 2010, ma fu annullato dalla Cassazione nel 2012. Nel 2013 Dell’Utri fu condannato nuovamente in appello, condanna che poi definitivamente confermata in Cassazione.
Oltre alle sue condizioni di salute, anche il reato per cui è stato condannato ha suscitato molte polemiche. Il reato di “concorso esterno in associazione mafiosa” non esiste nel codice penale. Deriva infatti dalla “fusione” di due diversi reati: l’associazione per delinquere di tipo mafioso, articolo 416 bis, e l’articolo 110, che prevede il concorso di persone in altri reati. Il tema era tornato di attualità dopo la sentenza della Corte di Cassazione sul caso di Bruno Contrada, un ex dirigente della polizia e dei servizi segreti condannato nel 2007 a 10 anni anche lui per concorso esterno in associazione mafiosa. Nel luglio scorso, in seguito a un ricorso presentato dai legali di Contrada, la Corte di Cassazione aveva stabilito che la pena, già scontata da Contrada parte in carcere e parte ai domiciliari, era da considerarsi «ineseguibile e improduttiva di effetti» poiché all’epoca dei fatti di cui era accusato il concorso esterno non era un reato sufficiente “tipizzato”, cioè era ancora troppo generico e poco preciso. Secondo i magistrati Dell’Utri ha compiuto il reato fino al 1992, prima che venisse “tipizzato”, quindi anche lui potrebbe rientrare nella stessa categoria di Contrada e vedersi la condanna annullata in caso di ricorso.
Fonte: Il Post
Il tentato attacco alla stazione degli autobus di New York
Un uomo ha cercato di farsi saltare in aria ma qualcosa è andato storto, per fortuna: ci sono quattro persone ferite in modo lieve, tra cui l'attentatore
Quattro persone sono state ferite in seguito a un’esplosione in uno dei sottopassi di una stazione degli autobus Port Authority a New York, poco distante da Times Square. Nessuno dei feriti è in pericolo di vita. La polizia ha fermato un sospettato, che è anche una delle quattro persone ferite. Secondo le prime ricostruzioni, l’uomo aveva una bomba rudimentale legata al petto. Non è chiaro se la bomba fosse stata costruita con poco esplosivo o se sia detonata soltanto in parte. Secondo la polizia, la bomba potrebbe essere detonata prima del previsto a causa di qualche difetto di fabbricazione.
Il sindaco di New York Bill De Blasio ha definito l’incidente «un tentato attacco terroristico». Nel corso della conferenza stampa tenuta dal sindaco e dal capo della polizia la bomba è stata definita in più di un’occasione “rudimentale”. Il sospettato – che secondo la polizia avrebbe agito da solo – è stato identificato, si tratta di Akayed Ullah, 27 anni, originario del Bangladesh e residente negli Stati Uniti da 7 anni. In seguito all’esplosione alcune strade intorno alla stazione sono state chiuse, così come alcune linee della metropolitana. Dopo alcune ore dall’attacco la circolazione è ripresa normalmente e il terminal è stato riaperto.
Fonte: Il Post
(BRYAN R. SMITH/AFP/Getty Images)
Quattro persone sono state ferite in seguito a un’esplosione in uno dei sottopassi di una stazione degli autobus Port Authority a New York, poco distante da Times Square. Nessuno dei feriti è in pericolo di vita. La polizia ha fermato un sospettato, che è anche una delle quattro persone ferite. Secondo le prime ricostruzioni, l’uomo aveva una bomba rudimentale legata al petto. Non è chiaro se la bomba fosse stata costruita con poco esplosivo o se sia detonata soltanto in parte. Secondo la polizia, la bomba potrebbe essere detonata prima del previsto a causa di qualche difetto di fabbricazione.
Il sindaco di New York Bill De Blasio ha definito l’incidente «un tentato attacco terroristico». Nel corso della conferenza stampa tenuta dal sindaco e dal capo della polizia la bomba è stata definita in più di un’occasione “rudimentale”. Il sospettato – che secondo la polizia avrebbe agito da solo – è stato identificato, si tratta di Akayed Ullah, 27 anni, originario del Bangladesh e residente negli Stati Uniti da 7 anni. In seguito all’esplosione alcune strade intorno alla stazione sono state chiuse, così come alcune linee della metropolitana. Dopo alcune ore dall’attacco la circolazione è ripresa normalmente e il terminal è stato riaperto.
Fonte: Il Post
mercoledì 6 dicembre 2017
La Russia non parteciperà ai Giochi olimpici invernali del 2018
I Giochi olimpici invernali di Pyeongchang inizieranno il 9 febbraio 2018 e termineranno il 25 dello stesso mese
Il Comitato olimpico internazionale ha deciso: la Russia non parteciperà ai giochi invernali del 2018 a Pyeongchang, in Corea del Sud.
Il bando è stato introdotto per punire le autorità di Mosca in relazione all’utilizzo massiccio di doping da parte degli atleti nella scorsa edizione del 2014, ospitate proprio dalla Russia a Sochi.
Secondo le indagini svolte dal Comitato olimpico internazionale, le autorità russe avrebbero avuto responsabilità evidenti nella vicenda, attraverso manipolazioni di leggi e sistemi anti-doping.
Responsabilità però sempre respinte dal Cremlino, che ha parlato di “manipolazioni politiche”.
Il Cio non ha però chiuso le porte alla partecipazione di atleti russi alla competizione.
Questi potranno gareggiare solo sotto bandiera neutrale e dovranno dimostrare di non essere mai stati coinvolti nel programma sponsorizzato dallo stato o aver fatto utilizzo di sostanze dopanti nel corso della loro carriera.
Gli atleti russi invitati a gareggiare si sfideranno sotto la bandiera olimpica, come avviene tradizionalmente per tutti coloro che competono al di fuori di una determinata federazione sportiva nazionale.
I Giochi olimpici invernali di Pyeongchang inizieranno il 9 febbraio 2018 e termineranno il 25 dello stesso mese.
Fonte: The Post Internazionale
Credit: AFP PHOTO / Kirill KUDRYAVTSEV
Il Comitato olimpico internazionale ha deciso: la Russia non parteciperà ai giochi invernali del 2018 a Pyeongchang, in Corea del Sud.
Il bando è stato introdotto per punire le autorità di Mosca in relazione all’utilizzo massiccio di doping da parte degli atleti nella scorsa edizione del 2014, ospitate proprio dalla Russia a Sochi.
Secondo le indagini svolte dal Comitato olimpico internazionale, le autorità russe avrebbero avuto responsabilità evidenti nella vicenda, attraverso manipolazioni di leggi e sistemi anti-doping.
Responsabilità però sempre respinte dal Cremlino, che ha parlato di “manipolazioni politiche”.
Il Cio non ha però chiuso le porte alla partecipazione di atleti russi alla competizione.
Questi potranno gareggiare solo sotto bandiera neutrale e dovranno dimostrare di non essere mai stati coinvolti nel programma sponsorizzato dallo stato o aver fatto utilizzo di sostanze dopanti nel corso della loro carriera.
Gli atleti russi invitati a gareggiare si sfideranno sotto la bandiera olimpica, come avviene tradizionalmente per tutti coloro che competono al di fuori di una determinata federazione sportiva nazionale.
I Giochi olimpici invernali di Pyeongchang inizieranno il 9 febbraio 2018 e termineranno il 25 dello stesso mese.
Fonte: The Post Internazionale
Angelino Alfano ha detto che non si candiderà alle prossime elezioni
Angelino Alfano, ministro degli Esteri e leader di Alternativa Popolare, ha detto che non si candiderà alle prossime elezioni politiche e che non sarà disposto ad assumere l’incarico di ministro in un eventuale governo. Alfano ha parlato durante le registrazione della puntata della trasmissione Porta a Porta che andrà in onda questa sera. In passato Alfano era stato ministro della Giustizia durante il governo Berlusconi. Nel 2013 venne rieletto con Forza Italia, ma uscì dal governo insieme a numerosi parlamentari quando Berlusconi decise di togliere la fiducia al governo Letta, per sostenere il suo governo e poi quelli guidati da Matteo Renzi e Paolo Gentiloni.
Da allora Alfano è stato ministro dell’Interno con il governo Letta e il governo Renzi e poi ministro degli Esteri durante il governo Gentiloni. Non è chiaro cosa accadrà ad Alternativa Popolare (AP), il partito fondato da Alfano attualmente alleato di governo del Partito Democratico. Molti commentatori davano per contato che AP avrebbe formato un’alleanza politica con il PD in vista delle prossime elezioni politiche, così come aveva fatto alle ultime regionali in Sicilia.
Fonte: Il Post
martedì 5 dicembre 2017
La Corte Suprema spagnola ha ritirato il mandato di arresto europeo per Carles Puigdemont
La Corte Suprema spagnola ha ritirato il mandato di arresto europeo per l’ex presidente catalano Carles Puigdemont e per altri quattro ex ministri del suo governo, dicendo che i cinque politici – che si trovano da alcune settimane in Belgio – hanno manifestato la volontà di tornare in Spagna. Puigdemont e gli altri ministri scapparono in Belgio il 27 ottobre dopo la dichiarazione di indipendenza unilaterale della Catalogna, considerata illegale dalla Spagna.
L'ex presidente della Catalogna Carles Puigdemont. (AURORE BELOT/AFP/Getty Images)
Fonte: Il Post
Esplosione su un autobus a Homs, in Siria: 8 morti
Otto persone sono morte e 16 sono rimaste ferite. Molti dei passeggeri erano studenti universitari
Almeno 8 persone sono morte dopo che una bomba è esplosa a bordo di un autobus nella città di Homs, in Siria, presso la strada di al-Ahram martedì 5 dicembre 2017.
A riferirlo è stata la tv pubblica siriana Ikhbariya.“Un’esplosione è stata causata da una bomba all’interno di un autobus passeggeri nel quartiere di Akrama”, hanno detto i giornalisti del network siriano.
Otto persone sono morte e 16 sono rimaste ferite, secondo l’agenzia Reuters che cita l’autorità sanitaria locale.
Molti dei passeggeri erano studenti universitari, secondo quanto ha riferito il governatore di Homs, Talal al-Barazi, alla televisione di stato Ikhbariya. L’esplosione si è verificata nel quartiere in cui si trova l’università di al-Baath.
Lo Stato Islamico ha rivendicato la responsabilità per un attacco simile a Homs nel mese di maggio, quando un’autobomba ha ucciso 4 persone e ne ha ferite 32.
Homs si trova nella parte occidentale della Siria ed è la terza città più grande del paese. A maggio 2017 è rientrata sotto il pieno controllo governativo per la prima volta dallo scoppio della guerra civile siriana nel 2011. Centinaia di ribelli siriani hanno lasciato in quel periodo al-Waer, il quartiere sotto il controllo dell’opposizione, insieme alle loro famiglie.
Fonte: The Post Internazionale
Il luogo dell'esplosione a Homs, in Siria. Credit: AFP
Almeno 8 persone sono morte dopo che una bomba è esplosa a bordo di un autobus nella città di Homs, in Siria, presso la strada di al-Ahram martedì 5 dicembre 2017.
A riferirlo è stata la tv pubblica siriana Ikhbariya.“Un’esplosione è stata causata da una bomba all’interno di un autobus passeggeri nel quartiere di Akrama”, hanno detto i giornalisti del network siriano.
Otto persone sono morte e 16 sono rimaste ferite, secondo l’agenzia Reuters che cita l’autorità sanitaria locale.
Molti dei passeggeri erano studenti universitari, secondo quanto ha riferito il governatore di Homs, Talal al-Barazi, alla televisione di stato Ikhbariya. L’esplosione si è verificata nel quartiere in cui si trova l’università di al-Baath.
Lo Stato Islamico ha rivendicato la responsabilità per un attacco simile a Homs nel mese di maggio, quando un’autobomba ha ucciso 4 persone e ne ha ferite 32.
Homs si trova nella parte occidentale della Siria ed è la terza città più grande del paese. A maggio 2017 è rientrata sotto il pieno controllo governativo per la prima volta dallo scoppio della guerra civile siriana nel 2011. Centinaia di ribelli siriani hanno lasciato in quel periodo al-Waer, il quartiere sotto il controllo dell’opposizione, insieme alle loro famiglie.
Fonte: The Post Internazionale
lunedì 4 dicembre 2017
Dieci persone sono state arrestate per l’omicidio di Caruana Galizia
Tutti i sospettati sono cittadini maltesi, alcuni dei quali già noti alle forze di polizia
Dieci persone sono state arrestate lunedì 4 dicembre a Malta perché sospettate di essere coinvolte nella morte di Daphne Caruana Galizia, la giornalista maltese scomparsa il 16 ottobre 2017.
Otto dei dieci arresti sono stati annunciati in mattinata da Joseph Muscat, primo ministro di Malta, durante una conferenza stampa.
Gli arresti sono stati effettuati in diverse aree dell’isola, tra cui Marsa e Buġibba, cittadina situata a una decina di chilometri dalla capitale La Valletta. Tutti i sospettati sono cittadini maltesi, alcuni dei quali già noti alle forze di polizia.
Ora la polizia ha ora 48 ore per interrogarli e formulare le accuse.
In conferenza stampa all’Auberge de Castille, il primo ministro Muscat ha spiegato che secondo gli investigatori si tratta “degli esecutori materiali dell’omicidio, quindi delle persone che hanno compiuto l’omicidio con l’autobomba, non quelle che l’hanno commissionato”.
Muscat ha anche ammesso di essere consapevole delle implicazioni e del rischio di fare una dichiarazione in questa prima fase delle indagini.
Fonte: The Post Internazionale
Credit: Afp
Dieci persone sono state arrestate lunedì 4 dicembre a Malta perché sospettate di essere coinvolte nella morte di Daphne Caruana Galizia, la giornalista maltese scomparsa il 16 ottobre 2017.
Otto dei dieci arresti sono stati annunciati in mattinata da Joseph Muscat, primo ministro di Malta, durante una conferenza stampa.
Gli arresti sono stati effettuati in diverse aree dell’isola, tra cui Marsa e Buġibba, cittadina situata a una decina di chilometri dalla capitale La Valletta. Tutti i sospettati sono cittadini maltesi, alcuni dei quali già noti alle forze di polizia.
Ora la polizia ha ora 48 ore per interrogarli e formulare le accuse.
In conferenza stampa all’Auberge de Castille, il primo ministro Muscat ha spiegato che secondo gli investigatori si tratta “degli esecutori materiali dell’omicidio, quindi delle persone che hanno compiuto l’omicidio con l’autobomba, non quelle che l’hanno commissionato”.
Muscat ha anche ammesso di essere consapevole delle implicazioni e del rischio di fare una dichiarazione in questa prima fase delle indagini.
Fonte: The Post Internazionale
Pietro Grasso sarà il leader della sinistra
Ieri mattina il presidente del Senato ha tenuto il primo discorso da futuro candidato della lista che comprenderà MDP, Possibile e Sinistra Italiana
In un evento pubblico al palazzetto Atlantico Live di Roma, il presidente del Senato Pietro Grasso ha lasciato intendere che sarà a capo di una lista di sinistra alle prossime elezioni politiche. Grasso sarà sostenuto da MDP-Articolo 1, Possibile e Sinistra Italiana, i tre partiti che hanno organizzato l’evento pubblico di ieri. All’evento, chiamato C’è una nuova proposta, hanno partecipato moltissimi leader della sinistra: fra gli altri Roberto Speranza, Pippo Civati, Massimo D’Alema, Claudio Fava, Nichi Vendola, Pier Luigi Bersani e Stefano Fassina.
Nel suo discorso, stando a Repubblica, Grasso ha detto: «Serve un’alternativa all’indifferenza e alla rabbia inconcludente dei movimenti di protesta, alle favole bellissime che abbiamo sentito raccontare per decenni. Tocca a noi offrire una nuova casa a chi non si sente rappresentato. Una nuova proposta per il paese. Io ci sono».
Grasso ha 72 anni, è stato un apprezzatissimo magistrato antimafia ed è entrato in politica solamente nel 2013, quando fu eletto al Senato col Partito Democratico. In questa legislatura ha ricoperto il ruolo di presidente del Senato. Da tempo si parlava di un suo possibile impegno politico al di fuori del PD, da cui è uscito a fine ottobre.
Fonte: Il Post
In un evento pubblico al palazzetto Atlantico Live di Roma, il presidente del Senato Pietro Grasso ha lasciato intendere che sarà a capo di una lista di sinistra alle prossime elezioni politiche. Grasso sarà sostenuto da MDP-Articolo 1, Possibile e Sinistra Italiana, i tre partiti che hanno organizzato l’evento pubblico di ieri. All’evento, chiamato C’è una nuova proposta, hanno partecipato moltissimi leader della sinistra: fra gli altri Roberto Speranza, Pippo Civati, Massimo D’Alema, Claudio Fava, Nichi Vendola, Pier Luigi Bersani e Stefano Fassina.
Nel suo discorso, stando a Repubblica, Grasso ha detto: «Serve un’alternativa all’indifferenza e alla rabbia inconcludente dei movimenti di protesta, alle favole bellissime che abbiamo sentito raccontare per decenni. Tocca a noi offrire una nuova casa a chi non si sente rappresentato. Una nuova proposta per il paese. Io ci sono».
Grasso ha 72 anni, è stato un apprezzatissimo magistrato antimafia ed è entrato in politica solamente nel 2013, quando fu eletto al Senato col Partito Democratico. In questa legislatura ha ricoperto il ruolo di presidente del Senato. Da tempo si parlava di un suo possibile impegno politico al di fuori del PD, da cui è uscito a fine ottobre.
(ANSA/MASSIMO PERCOSSI)
Fonte: Il Post
mercoledì 29 novembre 2017
Ci sono state 151 presunte violenze sessuali in una piccola comunità norvegese
Hanno coinvolto soprattutto appartenenti a una popolazione indigena, e questo spiega perché siano emerse soltanto ora
La polizia norvegese ha individuato 151 casi di presunta violenza sessuale, inclusi stupri di bambini, in una piccola e isolata comunità di Tysfjord, che ha meno di duemila abitanti ed è affacciata sul Mare Artico. Per ora due persone sono state formalmente accusate di un totale di dieci violenze sessuali, ma la polizia ha detto che potrebbero esserci altre incriminazioni. Il 70 per cento delle persone coinvolte appartiene alla popolazione indigena Sami, cioè i lapponi, e molti sono fedeli laestadiani, un movimento luterano revivalista molto diffuso in Scandinavia.
L’indagine della polizia è cominciata dopo che nel 2016 il Verdens Gang, un giornale locale, pubblicò le testimonianze di uomini e donne di Tysfjord che dicevano di avere subìto violenze sessuali. Il rapporto della polizia ha identificato però un totale di 82 vittime, di età comprese tra i 4 e i 72 anni, e di 92 sospetti: in alcuni casi ci sono persone che sono sia presunte vittime che presunti colpevoli. Dei 151 casi di presunta violenza sessuale, 43 sono stupri e in tre casi hanno avuto dei bambini come vittime. I primi risalgono al 1953, e infatti oltre 100 casi non saranno perseguiti perché interessati dalla prescrizione.
Del caso di Tysfjord si sta infatti discutendo in Norvegia non solo per la gravità e la natura delle accuse, ma perché secondo molti è rappresentativo dei problemi nel rapporto tra i Sami e le autorità nazionali norvegesi. I giornali norvegesi raccontano infatti che in molti casi le vittime si sono rivolte alle autorità religiose, invece che alla polizia, per raccontare le violenze subite. I Sami sono qualche decina di migliaia, e sono stati a lungo discriminati dalle autorità norvegesi: hanno uno stile di vita strettamente legato alla natura, minacciato dallo sfruttamento minerario ed energetico norvegese.
Una portavoce della polizia ha detto che «non ci sono ragioni per pensare che l’appartenenza etnica o la fede religiosa siano spiegazioni del perché sono avvenute le violenze». Ha però ammesso che ci sono stati certi «meccanismi» nella comunità «che hanno reso difficile che certe cose emergessero», spiegando che c’è «una grande necessità di chiudersi nella famiglia, in un contesto in cui la società norvegese ti guarda dall’alto verso il basso».
Lars Magne Andreassen, direttore di un centro di cultura Sami a Tysfjord, ha detto al Guardian di essere addolorato che questi casi si siano verificati, ma di essere orgoglioso che finalmente siano stati denunciati. Secondo Andreassen c’è stato tanto «un silenzio delle vittime» quanto delle autorità, che non hanno ascoltato la comunità locale.
Fonte: Il Post
Un centro ricreativo di Tysfjord. (TORE MEEK/AFP/Getty Images)
La polizia norvegese ha individuato 151 casi di presunta violenza sessuale, inclusi stupri di bambini, in una piccola e isolata comunità di Tysfjord, che ha meno di duemila abitanti ed è affacciata sul Mare Artico. Per ora due persone sono state formalmente accusate di un totale di dieci violenze sessuali, ma la polizia ha detto che potrebbero esserci altre incriminazioni. Il 70 per cento delle persone coinvolte appartiene alla popolazione indigena Sami, cioè i lapponi, e molti sono fedeli laestadiani, un movimento luterano revivalista molto diffuso in Scandinavia.
L’indagine della polizia è cominciata dopo che nel 2016 il Verdens Gang, un giornale locale, pubblicò le testimonianze di uomini e donne di Tysfjord che dicevano di avere subìto violenze sessuali. Il rapporto della polizia ha identificato però un totale di 82 vittime, di età comprese tra i 4 e i 72 anni, e di 92 sospetti: in alcuni casi ci sono persone che sono sia presunte vittime che presunti colpevoli. Dei 151 casi di presunta violenza sessuale, 43 sono stupri e in tre casi hanno avuto dei bambini come vittime. I primi risalgono al 1953, e infatti oltre 100 casi non saranno perseguiti perché interessati dalla prescrizione.
Del caso di Tysfjord si sta infatti discutendo in Norvegia non solo per la gravità e la natura delle accuse, ma perché secondo molti è rappresentativo dei problemi nel rapporto tra i Sami e le autorità nazionali norvegesi. I giornali norvegesi raccontano infatti che in molti casi le vittime si sono rivolte alle autorità religiose, invece che alla polizia, per raccontare le violenze subite. I Sami sono qualche decina di migliaia, e sono stati a lungo discriminati dalle autorità norvegesi: hanno uno stile di vita strettamente legato alla natura, minacciato dallo sfruttamento minerario ed energetico norvegese.
Una portavoce della polizia ha detto che «non ci sono ragioni per pensare che l’appartenenza etnica o la fede religiosa siano spiegazioni del perché sono avvenute le violenze». Ha però ammesso che ci sono stati certi «meccanismi» nella comunità «che hanno reso difficile che certe cose emergessero», spiegando che c’è «una grande necessità di chiudersi nella famiglia, in un contesto in cui la società norvegese ti guarda dall’alto verso il basso».
Lars Magne Andreassen, direttore di un centro di cultura Sami a Tysfjord, ha detto al Guardian di essere addolorato che questi casi si siano verificati, ma di essere orgoglioso che finalmente siano stati denunciati. Secondo Andreassen c’è stato tanto «un silenzio delle vittime» quanto delle autorità, che non hanno ascoltato la comunità locale.
Fonte: Il Post
La Corea del Nord ha lanciato un altro missile, più in alto di sempre
Era un missile balistico intercontinentale e ha raggiunto l'altezza più elevata a cui sia mai arrivato un missile nordcoreano finora
L’esercito della Corea del Sud ha detto che la Corea del Nord ha fatto un nuovo test missilistico quando in Italia erano le 19.20 circa. L’agenzia di stampa sudcoreana Yonhap ha detto che il missile ha volato verso est da Pyongsong, nella regione Pyongan del Sud. Il segretario alla Difesa degli Stati Uniti James Mattis ha detto che l’altezza massima raggiunta dal missile – il suo “apogeo” – è la più alta a cui sia mai arrivato un missile nordcoreano, cosa che dimostra che la tecnologia militare della Corea del Nord continua ad avanzare: Mattis ha anche detto che la Corea del Nord ha la capacità di colpire «praticamente in tutto il mondo». Yonhap ha detto che l’apogeo del missile è stato di 4.500 chilometri. Per dare un’idea: la Stazione Spaziale Internazionale orbita a 408 chilometri sopra la superficie terrestre.
Il missile lanciato era un missile balistico intercontinentale (ICBM): secondo le prime analisi del Pentagono avrebbe volato per mille chilometri dopo essere stato lanciato da Sain Ni. La televisione giapponese NHK, citando il ministro della Difesa, ha detto che il missile potrebbe essere precipitato nelle acque della zona economica esclusiva giapponese dopo aver volato per 50 minuti. Su Twitter la giornalista del Foglio Giulia Pompili, esperta dei paesi asiatici, ha spiegato cosa significano le cose che sappiamo e quelle che non sappiamo su questo missile.
Questo è il primo test missilistico effettuato dalla Corea del Nord dallo scorso settembre, quando un missile sorvolò l’isola giapponese di Hokkaido prima di precipitare in mare: i 74 giorni passati da quel lancio sono il periodo di tempo più lungo tra un test e l’altro che ci sia stato quest’anno.
Il 20 novembre il presidente degli Stati Uniti Donald Trump aveva deciso di inserire di nuovo la Corea del Nord tra gli stati “sponsor del terrorismo internazionale”, riaccendendo la tensione tra i due paesi.
Fonte: Il Post
Il missile balistico intercontinentale Hwasong-14 lanciato dalla Corea del Nord il 28 luglio 2017 in una fotografia diffusa dall'agenzia di stampa nordcoreana KCNA (STR/AFP/Getty Images)
L’esercito della Corea del Sud ha detto che la Corea del Nord ha fatto un nuovo test missilistico quando in Italia erano le 19.20 circa. L’agenzia di stampa sudcoreana Yonhap ha detto che il missile ha volato verso est da Pyongsong, nella regione Pyongan del Sud. Il segretario alla Difesa degli Stati Uniti James Mattis ha detto che l’altezza massima raggiunta dal missile – il suo “apogeo” – è la più alta a cui sia mai arrivato un missile nordcoreano, cosa che dimostra che la tecnologia militare della Corea del Nord continua ad avanzare: Mattis ha anche detto che la Corea del Nord ha la capacità di colpire «praticamente in tutto il mondo». Yonhap ha detto che l’apogeo del missile è stato di 4.500 chilometri. Per dare un’idea: la Stazione Spaziale Internazionale orbita a 408 chilometri sopra la superficie terrestre.
Il missile lanciato era un missile balistico intercontinentale (ICBM): secondo le prime analisi del Pentagono avrebbe volato per mille chilometri dopo essere stato lanciato da Sain Ni. La televisione giapponese NHK, citando il ministro della Difesa, ha detto che il missile potrebbe essere precipitato nelle acque della zona economica esclusiva giapponese dopo aver volato per 50 minuti. Su Twitter la giornalista del Foglio Giulia Pompili, esperta dei paesi asiatici, ha spiegato cosa significano le cose che sappiamo e quelle che non sappiamo su questo missile.
Questo è il primo test missilistico effettuato dalla Corea del Nord dallo scorso settembre, quando un missile sorvolò l’isola giapponese di Hokkaido prima di precipitare in mare: i 74 giorni passati da quel lancio sono il periodo di tempo più lungo tra un test e l’altro che ci sia stato quest’anno.
Il 20 novembre il presidente degli Stati Uniti Donald Trump aveva deciso di inserire di nuovo la Corea del Nord tra gli stati “sponsor del terrorismo internazionale”, riaccendendo la tensione tra i due paesi.
Fonte: Il Post
sabato 25 novembre 2017
Giornata internazionale contro la violenza sulle donne
Oggi, 25 novembre, è la Giornata internazionale contro la violenza sulle donne istituita nel 1999 dalle Nazioni Unite. L'Assemblea Generale dell'ONU ha ufficializzato una data che fu scelta da un gruppo di donne attiviste, riunitesi nell'Incontro Femminista Latinoamericano e dei Caraibi, tenutosi a Bogotà nel 1981. Questa data fu scelta in ricordo del brutale assassinio nel 1960 delle tre sorelle Mirabal, considerate esempio di donne rivoluzionarie per l'impegno con cui tentarono di contrastare il regime di Rafael Leónidas Trujillo, il dittatore che tenne la Repubblica Dominicana nell'arretratezza e nel caos per oltre 30 anni.
Dall'inizio del 2017 ci sono stati 114 femminicidi.
La violenza è l'ultimo rifugio degli incapaci (Isaac Asimov)
Un abbraccio a tutte le donne
venerdì 24 novembre 2017
Lo Zimbabwe ha un nuovo presidente
Emmerson Mnangagwa ha giurato oggi di fronte a migliaia di persone allo stadio di Harare, prendendo infine il posto di Robert Mugabe
Emmerson Mnangagwa è il nuovo presidente dello Zimbabwe: ha giurato oggi nello stadio di Harare, la capitale zimbabwese, di fronte a decine di migliaia di persone che hanno assistito alla cerimonia. Mnangagwa ha preso il posto di Robert Mugabe, che è stato presidente dello Zimbabwe per 37 anni prima di essere costretto a dimettersi dopo una specie di colpo di stato non violento, da parte dell’esercito.
Mnangagwa è stato vicepresidente dell’ultimo governo e il suo licenziamento aveva dato avvio all’intervento dell’esercito e quindi causato indirettamente le dimissioni di Mugabe. Oggi insieme a lui era presente la moglie Auxilia e diversi leader di paesi africani. Non c’era invece Mugabe, 93 anni, che ha giustificato la propria assenza dicendo che aveva bisogno di riposare: Mugabe non fa apparizioni pubbliche da domenica scorsa.
Nonostante nelle ultime settimane Mnangagwe si sia opposto a Mugabe, l’opposizione dello Zimbabwe lo collega comunque al regime autoritario e repressivo instaurato per moltissimi anni dall’ex presidente. Fu per esempio uno dei principali responsabili dei servizi di sicurezza zimbabwesi durante gli anni Ottanta, un periodo nel quale furono uccisi migliaia di civili. In passato Mnangagwe aveva negato il suo coinvolgimento nelle uccisioni, dando la colpa all’esercito.
Fonte: Il Post
(AP Photo/Ben Curtis)
Emmerson Mnangagwa è il nuovo presidente dello Zimbabwe: ha giurato oggi nello stadio di Harare, la capitale zimbabwese, di fronte a decine di migliaia di persone che hanno assistito alla cerimonia. Mnangagwa ha preso il posto di Robert Mugabe, che è stato presidente dello Zimbabwe per 37 anni prima di essere costretto a dimettersi dopo una specie di colpo di stato non violento, da parte dell’esercito.
Mnangagwa è stato vicepresidente dell’ultimo governo e il suo licenziamento aveva dato avvio all’intervento dell’esercito e quindi causato indirettamente le dimissioni di Mugabe. Oggi insieme a lui era presente la moglie Auxilia e diversi leader di paesi africani. Non c’era invece Mugabe, 93 anni, che ha giustificato la propria assenza dicendo che aveva bisogno di riposare: Mugabe non fa apparizioni pubbliche da domenica scorsa.
Nonostante nelle ultime settimane Mnangagwe si sia opposto a Mugabe, l’opposizione dello Zimbabwe lo collega comunque al regime autoritario e repressivo instaurato per moltissimi anni dall’ex presidente. Fu per esempio uno dei principali responsabili dei servizi di sicurezza zimbabwesi durante gli anni Ottanta, un periodo nel quale furono uccisi migliaia di civili. In passato Mnangagwe aveva negato il suo coinvolgimento nelle uccisioni, dando la colpa all’esercito.
Fonte: Il Post
Attacco in una moschea nel Sinai, almeno 235 morti e 125 feriti
L'attentato è avvenuto presso la moschea di Al Rawdah a Bir al-Abed, a ovest della città di Arish
Almeno 235 persone sono state uccise da sospetti miliziani che hanno fatto esplodere una bomba e hanno aperto il fuoco presso una moschea nel Sinai, nel nord dell’Egitto, venerdì 24 novembre 2017. La notizia è stata riportata dall’agenzia statale Mena, che cita fonti ufficiali.
L’attacco è avvenuto presso la moschea di Al Rawdah a Bir al-Abed, a ovest della città di Arish, capoluogo della regione. Altre 125 persone sarebbero rimaste ferite. I testimoni dicono che numerose ambulanze sono arrivate sulla scena.
Un leader tribale e capo di una milizia beduina che combatte al fianco delle forze governative egiziane ha detto all’agenzia di stampa Afp che la mosche colpita dall’attacco è un luogo conosciuto come punto di raccolta di fedeli musulmani sufi. Questa confraternita islamica è la più “mistica” della religione musulmana ed è considerata “eretica” dai gruppi fondamentalisti.
Gli attentatori avrebbero collocato ordigni artigianali intorno al luogo di culto, facendoli esplodere all’uscita dei fedeli, dopo la preghiera del venerdì, giorno sacro per i musulmani. Sempre gli attentatori, avrebbero poi sparato sui fedeli in fuga.
Secondo quanto riportato dal canale televisivo Sky News Arabia, alcuni droni armati delle forze egiziane hanno ucciso 15 miliziani coinvolti nell’ attacco.
Stando a quanto riportato dall’emittente araba, gli attacchi aerei sono stati effettuati in un’area desertica vicino al luogo dell’attacco, a Bir al-Abed, a ovest della città di Arish.
Il presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi ha convocato un incontro d’emergenza poco dopo l’attacco.
Il governo ha dichiarato tre giorni di lutto nazionale.
Le forze di sicurezza egiziane stanno combattendo contro un’insurrezione del sedicente Stato islamico nel governatorato del Sinai del Nord, dove i miliziani hanno ucciso centinaia di membri della polizia e soldati con l’intensificarsi dei combattimenti negli ultimi tre anni
Al momento nessun gruppo ha rivendicato l’attacco.
Fonte: The Post Internazionale
Almeno 235 persone sono state uccise da sospetti miliziani che hanno fatto esplodere una bomba e hanno aperto il fuoco presso una moschea nel Sinai, nel nord dell’Egitto, venerdì 24 novembre 2017. La notizia è stata riportata dall’agenzia statale Mena, che cita fonti ufficiali.
L’attacco è avvenuto presso la moschea di Al Rawdah a Bir al-Abed, a ovest della città di Arish, capoluogo della regione. Altre 125 persone sarebbero rimaste ferite. I testimoni dicono che numerose ambulanze sono arrivate sulla scena.
Un leader tribale e capo di una milizia beduina che combatte al fianco delle forze governative egiziane ha detto all’agenzia di stampa Afp che la mosche colpita dall’attacco è un luogo conosciuto come punto di raccolta di fedeli musulmani sufi. Questa confraternita islamica è la più “mistica” della religione musulmana ed è considerata “eretica” dai gruppi fondamentalisti.
Gli attentatori avrebbero collocato ordigni artigianali intorno al luogo di culto, facendoli esplodere all’uscita dei fedeli, dopo la preghiera del venerdì, giorno sacro per i musulmani. Sempre gli attentatori, avrebbero poi sparato sui fedeli in fuga.
Secondo quanto riportato dal canale televisivo Sky News Arabia, alcuni droni armati delle forze egiziane hanno ucciso 15 miliziani coinvolti nell’ attacco.
Stando a quanto riportato dall’emittente araba, gli attacchi aerei sono stati effettuati in un’area desertica vicino al luogo dell’attacco, a Bir al-Abed, a ovest della città di Arish.
Il presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi ha convocato un incontro d’emergenza poco dopo l’attacco.
Il governo ha dichiarato tre giorni di lutto nazionale.
Le forze di sicurezza egiziane stanno combattendo contro un’insurrezione del sedicente Stato islamico nel governatorato del Sinai del Nord, dove i miliziani hanno ucciso centinaia di membri della polizia e soldati con l’intensificarsi dei combattimenti negli ultimi tre anni
Al momento nessun gruppo ha rivendicato l’attacco.
Fonte: The Post Internazionale
giovedì 23 novembre 2017
La Birmania ha firmato un accordo col Bangladesh per il rimpatrio dei musulmani rohingya
Il governo birmano ha detto di essere pronto a ricevere i musulmani rohingya prima possibile. Per il Bangladesh è un “primo passo” per la soluzione della crisi
La Birmania e il Bangladesh hanno firmato giovedì 23 novembre un memorandum d’intesa per il rimpatrio di centinaia di migliaia di musulmani rohingya che hanno lasciato lo stato birmano di Rakhine per sfuggire agli attacchi dell’esercito.
L’accordo è stato firmato dai funzionari nella capitale della Birmania, Naypidaw. Non sono stati diffusi dettagli sul contenuto del documento, ma le autorità del Bangladesh hanno detto che si è trattato di un “primo passo” per la soluzione della crisi.
La Birmania ha detto di essere pronta a ricevere i musulmani rohingya “prima possibile”. Il segretario del ministero birmano del lavoro, dell’immigrazione e della popolazione Myint Kyaing, ha detto che il paese è in attesa di ricevere i moduli di registrazione con i dati personali dei rohingya prima del rimpatrio.
Le agenzie umanitarie, però, hanno avanzato dei dubbi sul ritorno forzato degli appartenenti a questa minoranza, chiedendo che sia garantita la loro sicurezza.
Le violenze contro i rohingya si sono acuite alla fine di agosto del 2017, quando sono scoppiati gli scontri tra le forze di sicurezza birmane e alcuni miliziani del gruppo paramilitare Arakan Rohingya Salvation Army (Arsa), formazione paramilitare vicina alla comunità rohingya.
La lotta ha causato centinaia di morti nello stato di Rakhine e ha dato inizio a un esodo che ha portato finora 600mila musulmani rohingya ad attraversare il confine con il Bangladesh.
Fonte: The Post Internazionale
Rifugiati rohingya in Bagladesh. Credit: Shahnewaz Khan/Sputnik
La Birmania e il Bangladesh hanno firmato giovedì 23 novembre un memorandum d’intesa per il rimpatrio di centinaia di migliaia di musulmani rohingya che hanno lasciato lo stato birmano di Rakhine per sfuggire agli attacchi dell’esercito.
L’accordo è stato firmato dai funzionari nella capitale della Birmania, Naypidaw. Non sono stati diffusi dettagli sul contenuto del documento, ma le autorità del Bangladesh hanno detto che si è trattato di un “primo passo” per la soluzione della crisi.
La Birmania ha detto di essere pronta a ricevere i musulmani rohingya “prima possibile”. Il segretario del ministero birmano del lavoro, dell’immigrazione e della popolazione Myint Kyaing, ha detto che il paese è in attesa di ricevere i moduli di registrazione con i dati personali dei rohingya prima del rimpatrio.
Le agenzie umanitarie, però, hanno avanzato dei dubbi sul ritorno forzato degli appartenenti a questa minoranza, chiedendo che sia garantita la loro sicurezza.
Le violenze contro i rohingya si sono acuite alla fine di agosto del 2017, quando sono scoppiati gli scontri tra le forze di sicurezza birmane e alcuni miliziani del gruppo paramilitare Arakan Rohingya Salvation Army (Arsa), formazione paramilitare vicina alla comunità rohingya.
La lotta ha causato centinaia di morti nello stato di Rakhine e ha dato inizio a un esodo che ha portato finora 600mila musulmani rohingya ad attraversare il confine con il Bangladesh.
Fonte: The Post Internazionale
All’ex presidente dello Zimbabwe è stata garantita l’immunità in cambio delle dimissioni
Robert Mugabe ha lasciato l'incarico, ma la sua sicurezza sarebbe garantita all'interno del paese in base all'accordo raggiunto con l'esercito e il suo partito
L’ex presidente dello Zimbabwe Robert Mugabe potrà contare sull’immunità da eventuali azioni penali, in base all’accordo raggiunto con gli oppositori sulle sue dimissioni martedì 21 novembre 2017. Mugabe ha lasciato la successione all’ex vicepresidente Emmerson Mnangagwa, il cui giuramento è previsto per venerdì 24 novembre.
La notizia dell’immunità per Mugabe, già riportata dalla Cnn alcuni giorni fa, è stata confermata giovedì 23 novembre da fonti vicine alla negoziazione anche all’agenzia Reuters.
Una fonte governativa ha confermato che Mugabe, 93 anni, ha detto ai negoziatori di voler “morire in Zimbabwe” e di non avere alcuna intenzione di vivere in esilio.
“È stato molto emozionante per lui, ed è stato molto determinato su questo”, ha detto la fonte, che non è autorizzata a parlare dei dettagli dell’accordo negoziato. “Per lui era molto importante che gli fosse garantita la sicurezza di rimanere nel paese, anche se questo non gli impedirà di viaggiare all’estero quando vuole o deve”, ha aggiunto la fonte.
La rapida caduta di Mugabe dopo 37 anni di governo è stata scatenata da una battaglia per la successione tra il vicepresidente del paese Mnangagwa e la moglie di Mugabe, Grace.
Il licenziamento di Mnangagwa all’inizio di novembre ha scatenato le proteste e l’azione dell’esercito, che ha preso il potere costringendo Mugabe a rassegnare le sue dimissioni martedì 21 novembre.
Emmerson Mnangagwa è rientrato in Zimbabwe mercoledì 22 novembre, dopo essersi rifugiato in Sudafrica a seguito della sua estromissione.
Una volta arrivato ad Harare, Emmerson Mnangagwa ha detto di fronte a una folla festante che il paese entrerà in un “nuovo livello di democrazia”.
“Il popolo ha parlato. E la voce del popolo è la voce di Dio”, ha detto l’ex vicepresidente alle migliaia di sostenitori che si sono radunati all’esterno della sede del partito di maggioranza ZANU-PF.
Fonte: The Post Internazionale
Sostenitori di Emmerson Mnangagwa festeggiano il suo ritorno fuori dall'aeroporto di Harare. Credit: AFP PHOTO / ZINYANGE AUNTONY
L’ex presidente dello Zimbabwe Robert Mugabe potrà contare sull’immunità da eventuali azioni penali, in base all’accordo raggiunto con gli oppositori sulle sue dimissioni martedì 21 novembre 2017. Mugabe ha lasciato la successione all’ex vicepresidente Emmerson Mnangagwa, il cui giuramento è previsto per venerdì 24 novembre.
La notizia dell’immunità per Mugabe, già riportata dalla Cnn alcuni giorni fa, è stata confermata giovedì 23 novembre da fonti vicine alla negoziazione anche all’agenzia Reuters.
Una fonte governativa ha confermato che Mugabe, 93 anni, ha detto ai negoziatori di voler “morire in Zimbabwe” e di non avere alcuna intenzione di vivere in esilio.
“È stato molto emozionante per lui, ed è stato molto determinato su questo”, ha detto la fonte, che non è autorizzata a parlare dei dettagli dell’accordo negoziato. “Per lui era molto importante che gli fosse garantita la sicurezza di rimanere nel paese, anche se questo non gli impedirà di viaggiare all’estero quando vuole o deve”, ha aggiunto la fonte.
La rapida caduta di Mugabe dopo 37 anni di governo è stata scatenata da una battaglia per la successione tra il vicepresidente del paese Mnangagwa e la moglie di Mugabe, Grace.
Il licenziamento di Mnangagwa all’inizio di novembre ha scatenato le proteste e l’azione dell’esercito, che ha preso il potere costringendo Mugabe a rassegnare le sue dimissioni martedì 21 novembre.
Emmerson Mnangagwa è rientrato in Zimbabwe mercoledì 22 novembre, dopo essersi rifugiato in Sudafrica a seguito della sua estromissione.
Una volta arrivato ad Harare, Emmerson Mnangagwa ha detto di fronte a una folla festante che il paese entrerà in un “nuovo livello di democrazia”.
“Il popolo ha parlato. E la voce del popolo è la voce di Dio”, ha detto l’ex vicepresidente alle migliaia di sostenitori che si sono radunati all’esterno della sede del partito di maggioranza ZANU-PF.
Fonte: The Post Internazionale
mercoledì 22 novembre 2017
Emmerson Mnangagwa giurerà come nuovo presidente dello Zimbabwe venerdì, dice la tv di stato
Fonti del principale partito dello Zimbabwe, Zanu-PF, hanno confermato ad Associated Press che l’ex vice-presidente Emmerson Mnangagwa, il cui licenziamento aveva dato inizio alla crisi politica culminata con le dimissioni dell’ex presidente Robert Mugabe, è tornato oggi nel paese. La televisione di stato zimbabwese ha detto che Mnangagwa, principale avversario politico di Mugabe, giurerà come nuovo presidente venerdì. Mnangagwa aveva lasciato lo Zimbabwe dopo il suo licenziamento, per paura di essere arrestato.
Mugabe aveva annunciato le sue dimissioni ieri, poco prima che il Parlamento dello Zimbabwe votasse il suo impeachment. Mugabe era al potere in Zimbabwe da 37 anni, periodo durante il quale aveva imposto un regime autoritario e repressivo. Le sue dimissioni, presentate su pressione del suo stesso partito e dell’esercito, sono state accolte con grandi festeggiamenti sia nel Parlamento che per le strade della capitale Harare.
Fonte: Il Post
Mugabe aveva annunciato le sue dimissioni ieri, poco prima che il Parlamento dello Zimbabwe votasse il suo impeachment. Mugabe era al potere in Zimbabwe da 37 anni, periodo durante il quale aveva imposto un regime autoritario e repressivo. Le sue dimissioni, presentate su pressione del suo stesso partito e dell’esercito, sono state accolte con grandi festeggiamenti sia nel Parlamento che per le strade della capitale Harare.
Foto: Emmerson Mnanangagwa ad Harare, Zimbabwe, l'1 novembre 2017 (AP Photo/Tsvangirayi Mukwazhi)
Fonte: Il Post
Il “boia di Srebrenica” Mladic è stato condannato per genocidio e crimini contro l’umanità
Mladic è stato allontanato dall'aula del tribunale dopo aver urlato ai giudici stavano leggendo la sentenza. È stato condannato all'ergastolo
L’ex comandante serbo Ratko Mladic è stato condannato in primo grado all’ergastolo dal Tribunale Penale Internazionale per l’ex Jugoslavia, che ha sede all”Aia, per crimini di guerra e crimini contro l’umanità, incluso genocidio. Con una sentenza letta in aula mercoledì 22 novembre, la corte ha condannato Mladic per dieci degli undici capi d’imputazione che gli sono stati contestati, tutti relativi alla guerra in Bosnia negli anni Novanta.
Mladic è stato allontanato dall’aula del tribunale dopo aver urlato ai giudici stavano leggendo la sentenza. I giudici avevano rigettato la richiesta del suo avvocato di aggiornare l’udienza per ragioni di salute.
“I crimini commessi si classificano tra quelli più efferati conosciuti all’umanità, e includono genocidio e sterminio come crimine dell’umanità”, ha detto il presidente del tribunale Alphons Orie leggendo il riassunto della sentenza.
Soprannominato “il macellaio dei Balcani” o “il boia di Srebrenica”, Mladic, che ha 74 anni, ha respinto le accuse di fronte al tribunale della Nazioni Unite.
L’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, Zeid Ra’ad al-Hussein, ha detto che la sentenza su Mladic è un avvertimento sul fatto che gli autori di tali crimini “non sfuggiranno alla giustizia, a prescindere da quanto siano potenti o da quanto tempo possa occorrere”.
Zeid ha definito l’ex generale serbo-bosniaco “il simbolo del male” e ha parlato della sua condanna come di un “importantissima vittoria per la giustizia”.
All’inizio dell’udienza, Mladic è sembrato rilassato, sorridendo e gesticolando alle fotocamere.
Il suo processo si è aperto di fronte al Tribunale Penale Internazionale per l’ex Jugoslavia nel 2012. Il suo caso è stato l’ultimo ad essere esaminato dalla corte.
Alla fine della guerra, nel 1995, Mladic si è dato alla macchia, e ha vissuto nell’anonimato in Serbia, protetto dalla sua famiglia e da elementi dei servizi di sicurezza.
È stato incriminato per genocidio e crimini contro l’umanità, ma è rimasto in latitanza per 16 anni, fino a quando nel 2011 è stato rintracciato ed arrestato nella casa di campagna di un cugino del nord della Serbia.
Le vittime sopravvissute e i loro parenti hanno assistito al verdetto nel memoriale vicino Srebrenica. Decine di persone si sono radunate fuori dall’aula del tribunale, mostrando foto delle vittime del genocidio e di coloro i cui cadaveri non sono più stati trovati.
Durante la Guerra in Bosnia del 1992-1995 morirono 30mila bosniaci.
Dall’11 al 14 luglio del 1995, a Srebrenica, cittadina nell’attuale Bosnia ed Erzegovina, oltre 8.300 uomini e ragazzi bosniaci – in gran parte musulmani – furono sterminati dall’esercito serbo-bosniaco. Le donne e i bambini furono risparmiati ma furono costretti a fuggire.
Per non lasciare traccia della carneficina, i corpi delle vittime furono smembrati e i resti furono sotterrati in diversi punti lontano dal luogo del massacro. I resti di centinaia di uomini non sono ancora stati ritrovati.
Fonte: The Post Internazionale
Ratko Mladic. Credit: Afp
L’ex comandante serbo Ratko Mladic è stato condannato in primo grado all’ergastolo dal Tribunale Penale Internazionale per l’ex Jugoslavia, che ha sede all”Aia, per crimini di guerra e crimini contro l’umanità, incluso genocidio. Con una sentenza letta in aula mercoledì 22 novembre, la corte ha condannato Mladic per dieci degli undici capi d’imputazione che gli sono stati contestati, tutti relativi alla guerra in Bosnia negli anni Novanta.
Mladic è stato allontanato dall’aula del tribunale dopo aver urlato ai giudici stavano leggendo la sentenza. I giudici avevano rigettato la richiesta del suo avvocato di aggiornare l’udienza per ragioni di salute.
“I crimini commessi si classificano tra quelli più efferati conosciuti all’umanità, e includono genocidio e sterminio come crimine dell’umanità”, ha detto il presidente del tribunale Alphons Orie leggendo il riassunto della sentenza.
Soprannominato “il macellaio dei Balcani” o “il boia di Srebrenica”, Mladic, che ha 74 anni, ha respinto le accuse di fronte al tribunale della Nazioni Unite.
L’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, Zeid Ra’ad al-Hussein, ha detto che la sentenza su Mladic è un avvertimento sul fatto che gli autori di tali crimini “non sfuggiranno alla giustizia, a prescindere da quanto siano potenti o da quanto tempo possa occorrere”.
Zeid ha definito l’ex generale serbo-bosniaco “il simbolo del male” e ha parlato della sua condanna come di un “importantissima vittoria per la giustizia”.
All’inizio dell’udienza, Mladic è sembrato rilassato, sorridendo e gesticolando alle fotocamere.
Il suo processo si è aperto di fronte al Tribunale Penale Internazionale per l’ex Jugoslavia nel 2012. Il suo caso è stato l’ultimo ad essere esaminato dalla corte.
Alla fine della guerra, nel 1995, Mladic si è dato alla macchia, e ha vissuto nell’anonimato in Serbia, protetto dalla sua famiglia e da elementi dei servizi di sicurezza.
È stato incriminato per genocidio e crimini contro l’umanità, ma è rimasto in latitanza per 16 anni, fino a quando nel 2011 è stato rintracciato ed arrestato nella casa di campagna di un cugino del nord della Serbia.
Le vittime sopravvissute e i loro parenti hanno assistito al verdetto nel memoriale vicino Srebrenica. Decine di persone si sono radunate fuori dall’aula del tribunale, mostrando foto delle vittime del genocidio e di coloro i cui cadaveri non sono più stati trovati.
Durante la Guerra in Bosnia del 1992-1995 morirono 30mila bosniaci.
Dall’11 al 14 luglio del 1995, a Srebrenica, cittadina nell’attuale Bosnia ed Erzegovina, oltre 8.300 uomini e ragazzi bosniaci – in gran parte musulmani – furono sterminati dall’esercito serbo-bosniaco. Le donne e i bambini furono risparmiati ma furono costretti a fuggire.
Per non lasciare traccia della carneficina, i corpi delle vittime furono smembrati e i resti furono sotterrati in diversi punti lontano dal luogo del massacro. I resti di centinaia di uomini non sono ancora stati ritrovati.
Fonte: The Post Internazionale
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