giovedì 30 giugno 2016

La condanna a Don Inzoli per pedofilia

È il sacerdote noto come "Don Mercedes", ex capo di CL a Cremona e presidente del Banco Alimentare: è stato condannato a 4 anni e 9 mesi di carcere

(ANSA/TONINO DI MARCO)

Don Mauro Inzoli, ex dirigente del movimento cattolico conservatore Comunione e Liberazione e fondatore del Banco Alimentare, è stato condannato a 4 anni e 9 mesi di carcere per pedofilia. Inzoli avrà inoltre il divieto di avvicinarsi a luoghi frequentati da minori. Inzoli è accusato di aver molestato sessualmente cinque ragazzi di età compresa fra i 12 e i 16 anni fra il 2004 e il 2008. Nel giugno 2014 la Congregazione della Dottrina e della Fede, l’organo giudiziario del Vaticano, aveva deciso per lui la “pena medicinale perpetua”, cioè il divieto di predicare e fare messa in pubblico, oltre che di avere a che fare coi minori. Inzoli è stato giudicato con rito abbreviato su richiesta del suo avvocato, che un mese fa si era già accordato con l’accusa per risarcire ciascuno dei ragazzi molestati con 25mila euro a testa.

Inzoli ha 66 anni, è stato definito il “capo” di Comunione e Liberazione a Cremona e dal 1997 al 2012 è stato presidente del Banco Alimentare, una delle più importanti associazioni che si occupa di povertà, considerata una branca di CL. A livello nazionale è conosciuto anche col soprannome di “don Mercedes”, a causa della sua presunta passione per le automobili di lusso. Dal 1997 al 2010 Inzoli è anche stato parroco della chiesa della Santissima Trinità di Crema, oltre che a lungo rettore del liceo linguistico Shakespeare, anch’esso legato a Comunione e Liberazione.

Le molestie sono avvenute proprio durante i suoi anni da rettore e parroco: Franco Bordo, un deputato di Sinistra Italiana che nel 2014 ha presentato l’esposto che ha avviato le indagini su Inzoli, ha detto che negli anni sono stati scoperti più di 20 casi contro Inzoli, 15 dei quali però sono caduti in prescrizione e non sono stati discussi durante il processo. Non è ancora chiaro se Inzoli farà ricorso contro la condanna.

Fonte: Il Post

Gli attentatori di Istanbul provenivano da Russia, Uzbekistan e Kirghizistan

I tre kamikaze che si sono fatti esplodere all'aeroporto internazionale Ataturk della metropoli turca hanno causato la morte di 42 persone

Polizia turca di pattuglia all'aeroporto Ataturk di Istanbul, in Turchia. Credit: Murad Sezer

I tre attentatori suicidi che hanno compiuto l’attacco sul principale aeroporto di Istanbul uccidendo 42 persone erano cittadini di Russia, Uzbekistan e Kirghizistan, ha reso noto un funzionario turco giovedì 30 giugno 2016.

La polizia ha fermato 13 persone, tre dei quali stranieri, durante raid e perquisizioni in tutta la città dopo l’attacco di martedì su quello che è il terzo aeroporto più trafficato d’Europa.

Si è trattato del più grave di una serie di attacchi suicidi avvenuti in Turchia nel corso di quest’anno. Le autorità turche ritengono che i responsabili fossero affiliati dell'Isis.

I tre uomini hanno aperto il fuoco per creare il panico fuori dall'aeroporto prima che due di loro entrassero nel terminal e si facessero esplodere. Il terzo si è fatto saltare all'ingresso. In tutto, 239 persone sono rimaste ferite nell'attacco.

Il funzionario che ha riferito la nazionalità degli attentatori non ne ha voluto fare il nome. Gli investigatori hanno faticano a identificarli dai pochi resti recuperati.

Secondo un quotidiano filogovernativo, Yeni Safak, l'attentatore russo proveniva dal Dagestan, una regione che confina con la Cecenia, dove Mosca ha combattuto due guerre contro i separatisti e i militanti religiosi dal collasso dell'Unione sovietica nel 1991.

Sia le autorità kirghize che quelle uzbeke non hanno ancora commentato il coinvolgimento dei loro cittadini.

Sempre secondo il quotidiano Yeni Safak, dietro l'attacco ci sarebbe un uomo chiamato Akhmed Chatayev di origine cecena. Chatayev figura tra i nomi di una lista di sanzioni Onu come uno dei leader del sedicente Stato islamico incaricato di addestrare le reclute di lingua russa. È anche ricercato dalle autorità di Mosca.

Il quotidiano Hurriyet ha invece citato il nome di uno degli attentatori, Osman Vadinov, anche lui ceceno, che sarebbe arrivato da Raqqa, la capitale de facto del califfato in Siria.

Tuttavia, i funzionari turchi non hanno confermato nessuno dei due nomi.

Fonte: The Post Internazionale

mercoledì 29 giugno 2016

Cosa sappiamo finora sull'attacco di Istanbul

Spari sulla folla ed esplosioni: 41 morti e 239 feriti finora. L’attacco all’aeroporto Ataturk di Istanbul è stato condotto da un commando di tre kamikaze. Un riassunto

Una delle prime foto dell'ingresso dell'aeroporto Ataturk di Istanbul dopo l'attacco. Credit: Reuters

41 persone sono rimaste uccise e 239 ferite nell’attacco all’aeroporto internazionale Ataturk di Istanbul, in Turchia, la sera di martedì 28 giugno, intorno alle ore 22:10 locali (21:10 italiane). Ecco cosa sappiamo finora:

Le autorità turche hanno reso noto che un commando di tre terroristi, armati di kalashnikov e di cinture esplosive, ha colpito l’area di ingresso dello scalo, sparando sulla folla per poi farsi esplodere. Altre tre presunti complici sarebbero in fuga. Un altro è stato arrestato, ma ancora si attendono conferme ufficiali.

Gli attentatori volevano raggiungere l’interno dell’aeroporto, ma sono stati coinvolti in uno scontro a fuoco con la polizia vicino ai primi controlli di sicurezza esterni dello scalo di Istanbul, davanti all’entrata dell’area degli arrivi. Secondo alcuni testimoni, dopo gli spari ci sarebbero state almeno tre esplosioni, una delle quali dentro l'edificio.

L’attacco non è ancora stato rivendicato, ma il primo ministro turco Binali Yildirim ha riferito che dietro all’azione terrorista del commando ci sarebbe l’Isis.
L’aeroporto era stato immediatamente chiuso dopo l’attacco, ma ha riaperto la mattina dopo, nonostante i ritardi e la cancellazione di numerosi voli.

Nella notte, numerose ambulanze e veicoli delle forze di sicurezza si sono recati sul posto per prestare soccorso alle persone coinvolte. Sei feriti sono in gravi condizioni.

Il presidente della Turchia Recep Tayyip Erdogan ha dichiarato che l’attacco “mostra il volto oscuro del terrore che uccide civili innocenti. Ma non bisogna fare un errore fondamentale: per i terroristi colpire Istanbul o Londra, Ankara o Berlino, Izmir o Chicago, Antalya o Roma non fa alcuna differenza. Se i governi non si uniranno per combattere il terrorismo, succederanno cose molto peggiori di quelle che abbiamo visto oggi”.

Immediate sono arrivate anche le dichiarazioni di solidarietà di altri capi di stato e di governo. Charles Michel, primo ministro belga, ha detto che i pensieri del Belgio, già colpito dal terrorismo a marzo di quest’anno, vanno alle vittime dell’attacco di Istanbul.

Anche il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, ha dichiarato che “gli alleati della Nato esprimono la loro solidarietà nei confronti della Turchia, uniti nella determinazione per combattere il terrorismo”.

Le esplosioni dell’aeroporto internazionale Ataturk, il più grande della Turchia e il terzo in Europa per numero di passeggeri, sono state il terzo attacco suicida a Istanbul da inizio 2016.

Il 12 gennaio, un’esplosione nel centro di Istanbul rivendicata dall’Isis ha causato la morte di 12 turisti tedeschi. Il 19 marzo, un kamikaze si è fatto saltare in aria in una zona commerciale della città, uccidendo altre quattro persone.

La Turchia è uno degli obiettivi principali dell’Isis, in quanto parte della coalizione internazionale che combatte il califfato in Siria. È anche obiettivo dell’insurrezione curda, dopo la fine di una tregua durata due anni, dal 2013 al 2015.

Fonte: The Post Internazionale

martedì 28 giugno 2016

È morto Bud Spencer

Aveva 86 anni, si chiamava Carlo Pedersoli, era stato famosissimo soprattutto negli anni Settanta per i film con Terence Hill, e sempre molto amato

Bud Spencer in una foto dello scorso marzo (Miriam Schmidt/dpa)

Bud Spencer, popolarissimo attore italiano il cui vero nome era Carlo Pedersoli, è morto lunedì a 86 anni in un ospedale di Roma. Era stato famosissimo soprattutto negli anni Sessanta e Settanta per una serie di film comici e spaghetti western assieme a Terence Hill – pseudonimo dell’attore Mario Girotti – ma avrebbe avuto ancora molti successi fino alla fine del secolo. Era nato a Napoli nel 1929 e prima di recitare era stato un titolato nuotatore e pallanuotista, partecipando alle Olimpiadi del 1952, del 1956 e del 1960: il suo primo ruolo era stato una parte marginale nel kolossal hollywoodyano Quo Vadis?.

Dal 1961 cominciò la sua popolare serie di film insieme a Terence Hill, con un personaggio che – con la complicità del suo fisico robusto e del suo aspetto affabile – divenne riconoscibilissimo e amato: quello del pacato partner della coppia capace di grandi quantità di botte e schiaffoni nei confronti dei cattivi, e di posati sarcasmi di accompagnamento.



Quando aveva 11 anni Carlo Pedersoli si trasferì con la famiglia a Roma per motivi legati al lavoro del padre. A Roma iniziò le scuole superiori entrando anche a far parte di un club di nuoto. Finito il liceo con il massimo dei voti, si iscrisse a soli diciassette anni alla facoltà di Chimica che dovette però lasciare nel 1947 perché la famiglia si trasferì nuovamente: a Rio de Janeiro. Lì lavorò come operaio, bibliotecario e anche come segretario d’ambasciata. Tornato a Roma si iscrisse a Giurisprudenza e venne tesserato nella Lazio Nuoto ottenendo buoni risultati ai campionati italiani nello stile libero e nelle staffette miste. Nel 1949 esordì in nazionale e l’anno dopo venne convocato per i campionati europei di Vienna arrivando per due volte in finale. Gareggiò per l’Italia anche alle Olimpiadi di Helsinki del 1952 e come pallanuotista ai Giochi del Mediterraneo di Barcellona.

Carlo Pedersoli partecipò anche alle Olimpiadi di Melbourne del 1956 arrivando in semifinale nei 100 metri stile libero. In quegli anni cominciò la sua carriera nel cinema: venne scritturato come comparsa in Quo Vadis? e poi per altre piccole parti in diversi film, compreso Un eroe dei nostri tempi di Mario Monicelli. Decise però di tornare in Sudamerica lavorando per nove mesi alla costruzione di una lunga strada di collegamento tra Panamá e Buenos Aires e poi fino al 1960 come dipendente dell’Alfa Romeo di Caracas. Nel 1960 tornò a Roma per partecipare alla sua ultima Olimpiade.

Negli anni Sessanta sposò Maria Amato (figlia del grande produttore Peppino Amato), scrisse canzoni ottenendo un discreto successo e conobbe il regista Giuseppe Colizzi che gli offrì una parte nel film Dio perdona… io no! con Mario Girotti: fu la prima volta che la coppia lavorò insieme. A entrambi gli attori venne consigliato di cambiare i loro nomi, considerati troppo italiani per il genere western: Carlo Pedersoli scelse così lo pseudonimo “Bud Spencer”, in onore dell’attore Spencer Tracy e della birra Budweiser. Fu comunque il film Lo chiamavano Trinità di E.B. Clucher a portare al successo la coppia: Bud Spencer e Terence Hill girarono insieme 18 film.



Pedersoli recitò anche per Dario Argento in 4 mosche di velluto grigio (1971) e in Torino nera, film di Carlo Lizzani. Negli anni Settanta partecipò a Piedone lo sbirro diretto da Steno cui seguirono altri tre film. Continuò nel frattempo a lavorare con successo a diversi film in coppia con Girotti e con lui il 7 maggio 2010 vinse il David di Donatello alla carriera. Negli anni Novanta partecipò anche ad alcune serie, come Big Man (1988) a Detective extralarge (1991-1993). Nel 2003 partecipò a Cantando dietro i paraventi di Ermanno Olmi.



Carlo Pedersoli si candidò anche alle elezioni regionali del 2005 a sostegno del presidente uscente Francesco Storace, nelle liste di Forza Italia, ma non venne eletto. Alle elezioni comunali a Roma del 2013 sostenne attivamente la candidatura della figlia Cristiana con il Popolo della Libertà. L’anno scorso a Napoli ricevette una medaglia e una targa per la sua lunga carriera dal sindaco Luigi De Magistris. Ha scritto tre libri: l’ultimo, pubblicato nel 2014, si intitola Mangio ergo sum.

Fonte: Il Post

venerdì 24 giugno 2016

Brexit: cosa succederà adesso

Il referendum del 23 giugno era di tipo consultivo, e di conseguenza non aveva valore vincolante. Sarà il Parlamento britannico a dover ratificare la decisione di uscire

Credit: Reuters

Con 17.410.742 di voti a favore e 16.141.241 contro, i cittadini britannici si sono espressi a favore dell'uscita del Regno Unito dall'Unione europea.

La storica del Regno Unito di porre fine alla sua storia d'amore e odio con l'Europa che va avanti da 44 anni, rappresenta un punto di svolta nella storia britannica senza precedenti.

Partendo dal presupposto non si può tornare indietro, la Gran Bretagna dovrà convivere con le conseguenze politiche, costituzionali, diplomatiche ed economiche per almeno i prossimi dieci anni.

Il Regno Unito fa parte dell'Unione Europea (prima Comunità europea) dal 1972, dopo aver firmato il Trattato di adesione il 22 gennaio di quell'anno.

La ratifica del Trattato di adesione fu approvata dal Parlamento britannico il 16 ottobre 1972 e promulgata dalla Regina il giorno successivo.

Il Regno Unito divenne membro della Comunità europea il 1 gennaio 1973, insieme alla Danimarca e all’Irlanda.

In linea teorica anche se vincesse la Brexit, il parlamento potrebbe decidere di non uscire dall’Ue, ma andare contro il volere espresso dagli elettori non è un’idea razionalmente perseguibile. Il risultato del voto del referendum non è infatti direttamente vincolante.

Presumibilmente, quindi, il parlamento ratificherà l'eventuale decisione popolare a favore della Brexit e inizierà la procedura di uscita. Ci vorranno almeno due anni di negoziati, durante i quali il Regno Unito rimarrà ancora parte dell’Ue ma solo in maniera formale.

L'articolo 50 del trattato sull'Unione Europea prevede un meccanismo di recesso volontario e unilaterale di un paese dall'Unione Europea.

Il paese che decide di recedere, deve comunicare la sua intenzione al Consiglio europeo. L'accordo è concluso a nome dell'Unione Europea dal Consiglio, che delibera a maggioranza qualificata previa approvazione del Parlamento europeo.

Qualsiasi stato uscito dall'Unione può chiedere di aderirvi nuovamente, avviando una nuova procedura di adesione.

Costituzionalmente, l'attivazione dell'articolo 50 è una decisione che spetta al primo ministro, non al parlamento, e David Cameron ha già detto che non sarà lui ad avviarla ma un nuovo premier, annunciando le sue dimissioni.

Nel 1975, tre anni dopo l'entrata nella Comunità europea, il Regno Unito aveva già organizzato un referendum sulla Cee e il 67,2 per cento degli elettori aveva scelto di rimanervi.

Prima del trattato di Lisbona, che è entrato in vigore il 1 dicembre 2009, non era previsto dai trattati e dal diritto dell'Ue la possibilità da parte di uno Stato membro di ritirarsi volontariamente.

Nessuno stato membro è mai uscito dall'Ue. Nel 1982 però la Groenlandia, che fa parte della Danimarca ma gode di uno status particolare di autonomia, votò tramite referendum per l’uscita dall’Ue con il 52 per cento dei voti a favore.

Fonte: The Post Internazionale

lunedì 20 giugno 2016

Chi sono i nuovi sindaci eletti in cinque grandi città italiane

Virginia Raggi alla stampa estera a Roma, il 25 febbraio 2016. (Giuseppe Ciccia, Pacific Press/Zuma/Ansa)

Chiara Appendino. Bocconiana, laureata in economia internazionale, 31 anni, lavora nell’azienda del marito, Marco Lavatelli, che produce oggetti per la casa tra Torino e Borgaro. Dal 2010 fa parte del Movimento 5 stelle. Si è candidata alle comunali nel 2011 ed è stata eletta consigliera. È stata vicepresidente della commissione bilancio del comune.

Luigi de Magistris. Ha 48 anni ed è nato a Napoli. Diplomato al liceo classico Pansini, si è laureato in giurisprudenza all’università Federico II. È stato pubblico ministero a Catanzaro e a Napoli e in seguito parlamentare europeo per l’Italia dei valori. È diventato sindaco di Napoli nel maggio 2011, alla guida di una lista civica, dopo aver battuto al ballottaggio Gianni Lettieri con il 65,3 per cento dei voti. De Magistris si definisce un “sindaco di strada” e si presenta come il difensore dei più poveri. Alle elezioni si è presentato con una lista civica Dema, appoggiata da Sinistra italiana e da Possibile.

Virginio Merola. Ha 61 anni e ha percorso una carriera tradizionale: è stato esponente locale del Partito comunista, poi del Pds e dei Ds. È stato tra i fondatori del Partito democratico nel 2007. Assessore all’urbanistica nella giunta dell’ex sindacalista Sergio Cofferati (2004-2009), nel 2008 si è candidato alle primarie per il sindaco, ma è arrivato terzo dopo Flavio Delbono (poi eletto) e Maurizio Cevenini. Quando Delbono si è dimesso per uno scandalo di corruzione, Merola ha vinto le primarie ed è diventato il candidato dopo un anno di commissariamento. Ha vinto le amministrative del 2011 al primo turno, superando il 50 per cento per mille voti.

Giuseppe Sala. Nato nel 1958 a Milano, fa parte del consiglio d’amministrazione della Cassa depositi e prestiti e fino al 31 ottobre è stato commissario unico e amministratore delegato di Expo 2015. Si è laureato in economia aziendale all’università Bocconi. Ha cominciato a lavorare alla Pirelli, dove ha ricoperto diversi incarichi, fino a quello di amministratore delegato del dipartimento pneumatici e di responsabile delle strutture industriali e logistiche. Nel 2001 è passato a Tim e due anni dopo è diventato direttore generale di Telecom Italia. Dal 2009 ha ricoperto l’incarico di direttore generale del comune di Milano. A fine dicembre 2015 ha accettato di diventare il candidato del Partito democratico alle primarie per il sindaco e il 7 febbraio le ha vinte con il 42 per cento dei voti contro Francesca Balzani, Pierfrancesco Majorino e Antonio Iannetta. 

Virginia Raggi. È nata a Roma, ha 37 anni, è laureata in giurisprudenza. Ha cominciato a fare politica nel 2011 con il Movimento 5 stelle, nel 2013 è stata eletta consigliera comunale con 1.525 preferenze. Nel suo lavoro di consigliera si è occupata soprattutto di ambiente e di scuola. Il 23 febbraio ha vinto le comunarie online del Movimento 5 stelle con il 45,5 per cento dei consensi.

Fonte: Internazionale

I risultati dei ballottaggi, messi in ordine

Chi ha vinto, chi ha perso: i dati e le cose più rilevanti, da Torino a Roma, passando per Milano, Varese e i capoluoghi di provincia

Il nuovo sindaco di Roma eletto, Virginia Raggi del Movimento 5 Stelle (ANSA)

Domenica 19 giugno si sono tenuti i ballottaggi per l’elezione dei sindaci nei comuni sopra i 15mila abitanti in cui nessun candidato aveva ottenuto il 50 per cento più uno dei voti al primo turno, che si era tenuto lo scorso 5 giugno. Il Movimento 5 Stelle ha ottenuto due delle vittorie più importanti con Virginia Raggi a Roma e, a sorpresa, con Chiara Appendino a Torino. Il Partito Democratico ha mantenuto Milano con Beppe Sala e ha vinto a Bologna, ma nel complesso ha perso diverse altre importanti città. Nei 20 comuni in cui si è votato ai ballottaggi, il centrosinistra ha vinto in 6 città, il centrodestra in 9, il M5S in 3 e altri partiti di centro in 2.

Capoluoghi di regione

Movimento 5 Stelle
RomaVirginia Raggi del Movimento 5 Stelle ha vinto contro Roberto Giachetti del Partito Democratico, la vittoria più importante del Movimento ai ballottaggi e più in generale nella sua storia politica. Raggi ha ottenuto il 67,2 per cento dei voti contro il 32,8 per cento di Giachetti. Il centrosinistra ha governato Roma dal 2013 con Ignazio Marino, fino alle sue dimissioni nel 2015 e al successivo commissariamento della città.

TorinoChiara Appendino del Movimento 5 Stelle ha battuto a sorpresa Piero Fassino del PD, ottenendo il 54,6 per cento dei voti contro il 45,4 per cento del sindaco uscente. È la seconda vittoria più importante delle amministrative per il M5S e una dura sconfitta per il centrosinistra, che ha governato ininterrottamente la città dal 1993. Appendino era a 10 punti da Fassino al primo turno, ma secondo gli osservatori e le prime analisi al ballottaggio è stata votata da molti elettori del centrodestra.

Centrosinistra
MilanoBeppe Sala ha vinto con la sua coalizione di centrosinistra contro Stefano Parisi del centrodestra. Sala è stato votato dal 51,7 per cento degli elettori contro il 48,3 per cento di Parisi, che ha quindi mantenuto un distacco piuttosto contenuto come era già successo al primo turno. Milano è governata dal centrosinistra dal 2011, quando il sindaco uscente Giuliano Pisapia batté Letizia Moratti del centrodestra.

Bologna – Come da previsioni il sindaco uscente di centrosinistra, Virginio Merola, ha vinto il ballottaggio contro Lucia Borgonzoni della Lega Nord: è finita 54,6 per cento a 45,4 per cento. Merola ha detto che “qui il Carroccio razzista non passa”.

Napoli – Il sindaco uscente Luigi De Magistris ha vinto nettamente contro Gianni Lettieri: 66,8 per cento contro 33,2. La vittoria di De Magistris – sostenuto da liste civiche e di sinistra – era data per scontata dopo i risultati del primo turno, che hanno escluso il candidato del PD dalla competizione, una delle sconfitte più importanti nell’Italia del sud per il partito.

Centrodestra
TriesteRoberto Dipiazza del centrodestra ha vinto contro il sindaco uscente Roberto Cosolini del PD: 52,6 per cento contro 47,4 per cento. Dipiazza era già stato sindaco della città tra il 2001 e il 2011, dopo i due mandati di Riccardo Illy del centrosinistra. L’affluenza è stata intorno al 52,6 per cento, tra le più basse mai registrate a Trieste con il 47,4 per cento.

Capoluoghi di provincia

Movimento 5 Stelle
CarboniaPaola Massida del M5S ha vinto contro Giuseppe Casti del centrosinistra, ottenendo il 61,6 per cento dei voti. Casti era il sindaco uscente: l’ultimo in una lunghissima serie di amministrazioni di centrosinistra e sinistra che dal dopoguerra avevano amministrato la città.

Centrosinistra
CasertaCarlo Marino del centrosinistra ha vinto contro Riccardo Ventre del centrodestra, con il 62,7 per cento dei voti. La città era commissariata dal giugno dello scorso anno per presunti rapporti dell’amministrazione del sindaco Pino Fontana con la camorra.

Ravenna – Ha vinto Michele De Pascale del PD contro Massimiliano Alberghini del centrodestra, con il 53,3 per cento dei voti. Si conferma quindi un’amministrazione di centrosinistra in città, amministrata sempre da giunte di sinistra dal dopoguerra, fatta eccezione per alcuni anni di governo del partito Repubblicano tra i Cinquanta e Sessanta.

VareseDavide Galimberti del centrosinistra ha vinto contro Paolo Orrigoni del centrodestra, con il 51,8 per cento dei voti. È una vittoria simbolicamente e politicamente importante per il PD, che ottiene un importante risultato in un capoluogo di provincia governato ininterrottamente dalla Lega Nord dai primi anni Novanta, fatta eccezione per un commissariamento tra 2005 e 2006.

Centrodestra
BeneventoClemente Mastella del centrodestra ha vinto con il 62,9 per cento dei voti contro Raffaele Del Vecchio che si è fermato al 37,12. Mastella è stato più volte parlamentare, negli anni Novanta ministro del Lavoro nel primo governo Berlusconi e poi ministro della Giustizia nel secondo governo Prodi tra il 2006 e il 2008. È considerato tra i politici italiani più trasformisti, essendo sovente passato da uno schieramento all’altro.

Brindisi – Ha vinto Angela Carluccio del centrodestra con il 51,1 per cento dei voti contro il 48,9 per cento di Fernando Marino del centrosinistra. La città era commissariata dallo scorso febbraio, in seguito all’arresto del sindaco Cosimo Consales del PD accusato di corruzione, concussione e abuso d’ufficio nell’ambito di un’indagine sulla gestione dei rifiuti in città.

GrossetoAntonfrancesco Vivarelli Colonna del centrodestra ha vinto con il 54,9 per cento dei voti contro Lorenzo Mascagni del centrosinistra. Il PD aveva governato la città negli ultimi cinque anni con Emilio Bonifazi, che in precedenza era stato sindaco con La Margherita. È la città toscana più grande persa dal PD a queste elezioni.

Isernia Giacomo d’Apollonio ha battuto Gabriele Melogli con il 59 per cento dei voti. Entrambi i candidati erano di centrodestra: D’Apollonio sostenuto da Fratelli d’Italia e alcune liste civiche, Melogli da Forza Italia, Noi con Salvini e altre liste locali. La città era commissariata dallo scorso settembre in seguito alla mancata approvazione del bilancio di previsione, da parte della giunta di centrosinistra guidata dall’ex sindaco Luigi Brasiello.

Novara – È un’altra sconfitta rilevante per il PD, che con il suo sindaco uscente Andrea Ballarè ha perso contro Alessandro Canelli della destra: 57,7 per cento contro il 42,3. Canelli ha vinto nonostante il centrodestra si fosse presentato diviso al primo turno.

Olbia – Ha vinto Settimo Nizzi del centrodestra con il 50,7 per cento dei voti, contro Carlo Careddu del centrosinistra al 49,3 per cento. Nizzi era già stato sindaco di Olbia tra il 1997 e il 2007, attualmente è deputato di Forza Italia.

Pordenone Alessandro Ciriani del centrodestra ha vinto con il 58,8 per cento dei voti contro Daniela Giust del centrosinistra. La città negli ultimi 10 anni era stata governata da giunte di centrosinistra.

Savona Ilaria Caprioglio della Lega Nord e alcune liste civiche ha vinto con il 52,9 per cento contro Cristina Battaglia del centrosinistra, che inizialmente era stata data per favorita.

Altri
LatinaDamiano Coletta ha vinto con alcune liste civiche contro Nicola Calandrini della destra: ha ottenuto il 75 per cento dei voti. La città era commissariata da inizio giugno 2015 in seguito al voto di sfiducia contro l’allora sindaco Giovanni Di Giorgi del centrodestra, per la vicenda legata alle nomine della società AcquaLatina.

CrotoneUgo Pugliese con le sue liste di centro ha vinto contro Rosanna Barbieri del centrosinistra ottenendo il 59,3 per cento dei voti. Pugliese era in svantaggio al primo turno rispetto a Barbieri, ma ha raccolto i voti provenienti dagli elettori degli altri candidati, esclusi dal ballottaggio.

Negli altri comuni

In Piemonte il Movimento 5 Stelle ha vinto anche a Pinerolo, una delle città più grandi della provincia di Torino, battendo al ballottaggio il PD. A San Mauro Torinese il M5S ha vinto contro la Lega Nord con il 62 per cento dei voti. Ad Arcore – comune in provincia di Monza e della Brianza conosciuto soprattutto per Villa San Matino, la residenza di Silvio Berlusconi – ha vinto il PD, dopo che la città era stata amministrata per cinque anni dal centrodestra. A Rho, comune adiacente a Milano, è stato riconfermato Pietro Romano del centrosinistra, schieramento che ha vinto anche a Pioltello, commissariata da circa un anno.

A Chioggia, in provincia di Venezia, hanno vinto i 5 Stelle con il 59,8 per cento dei voti, superando Giuseppe Casson sostenuto da Lega Nord e alcune liste civiche, nonché sindaco uscente. Anche a Cattolica, in provincia di Rimini, ha vinto il M5S superando Sergio Gambrino del PD: il centrosinistra governava da decenni il comune. A Cesenatico il centrodestra ha perso e il nuovo sindaco è Matteo Gozzoli del PD con il 59 per cento dei voti.

A Sesto Fiorentino, comune in provincia di Firenze, il PD ha perso per la prima volta le elezioni: con il 65,5 per cento dei voti ha vinto il candidato di Sinistra Italiana e della lista Per Sesto. La sinistra governa la città dal 1899 e la sconfitta del PD racconta molto dell’aria che tira intorno al partito e alla capacità di Matteo Renzi di mantenere i consensi, come abbiamo spiegato qui. Il centrosinistra ha perso anche Cascina, in provincia di Pisa, dove governava da più di 15 anni: il sindaco uscente Alessio Antonelli non è stato riconfermato.

Ad Assisi il PD ha vinto con il 53,8 per cento dei voti, battendo il centrodestra che aveva il governo della città da una decina di anni. A Castelfidardo in provincia di Ancona ha vinto il M5S così come ad Anguillara Sabazia, Casto Angelo, Marino e a Genzano in provincia di Roma. A Vasto, in provincia di Chieti, ha vinto di pochissimo il PD con 121 voti in più rispetto al candidato del centrodestra. Il PD ha vinto anche a Castellammare di Stabia, città in provincia di Napoli commissariata dallo scorso ottobre dopo due anni di amministrazione di centrosinistra. A Ginosa, in provincia di Taranto, ha vinto il M5S e la città era commissariata dalla scorsa primavera.

Ricapitolando i risultati complessivi delle comunali 2016

Passano dal centrosinistra al centrodestra: Brindisi, Savona, Novara, Iseria, Olbia, Pordenone, Trieste, Benevento, Grosseto.

Passano dal centrosinistra al centro o liste civiche: Villacidro, Crotone.

Restano al centrosinistra: Salerno, Ravenna, Rimini, Bologna, Napoli, Milano, Cagliari.

Passano dal centrodestra al centrosinistra: Caserta, Varese.

Passano dal centrodestra al centro o liste civiche: Latina.

Restano al centrodestra: Cosenza.

Passano dal centrosinistra al M5S: Roma, Torino, Carbonia.

Fonte: Il Post

venerdì 17 giugno 2016

Cosa sappiamo della morte di Jo Cox

La deputata britannica è stata uccisa giovedì da un uomo di 52 anni a Birstall, ma non è ancora chiaro perché

(DANIEL LEAL-OLIVAS/AFP/Getty Images)

Una parlamentare laburista britannica, Jo Cox, è stata uccisa giovedì 16 giugno a Birstall, nel nord dell’Inghilterra: un uomo l’ha aggredita in strada sparandole e ferendola ripetutamente con un coltello, prima di scappare ed essere arrestato poco dopo dalla polizia. Cox, che avrebbe compiuto 42 anni il 22 giugno, è morta poco dopo l’attacco, nonostante i soccorsi.

Cosa è successo
Jo Cox è stata aggredita pochi minuti prima delle 13 di giovedì pomeriggio, durante la pausa pranzo di una giornata di incontri con i cittadini della sua circoscrizione a Birstall, una cittadina di 16.000 abitanti poco distante da Leeds, nella regione del West Yorkshire. Cox stava uscendo con i suoi due assistenti dalla biblioteca civica di Birstall, un edificio basso di mattoni rossi che si trova in una delle strade centrali della città: c’era traffico e sui marciapiede c’erano diverse altre persone in pausa pranzo. L’aggressione è stata raccontata da diversi testimoni, con versioni che divergono per alcuni particolari: un uomo con un cappello nero e una giacca grigia è stato visto andare incontro a Cox e poi spararle almeno tre volte in pochi secondi, prima di ferirla ripetutamente con quello che è stato descritto come un coltello da caccia. Secondo altri testimoni l’aggressore avrebbe usato prima il coltello e poi, dopo aver ferito Cox, le avrebbe sparato con la pistola. Altri testimoni ancora hanno raccontato di aver visto l’aggressore prendere a calci ripetutamente Cox mentre era a terra ferita. Un uomo di 77 anni ha provato a fermarlo ed è stato ferito anche lui, in modo lieve. L’assalitore poi ha cercato di scappare ma è stato raggiunto e fermato da due agenti della polizia locale. Cox è stata soccorsa da diverse persone prima dell’arrivo dell’ambulanza e dei paramedici ma è morta alle 13.48; la notizia è stata diffusa alcune ore dopo.

Chi è l’aggressore
Il nome dell’uomo fermato dalla polizia non è stato confermato ufficialmente, ma diversi testimoni hanno riconosciuto Thomas Mair, un uomo di 52 anni della zona che lavorava saltuariamente come giardiniere. Mair viveva da solo in una casa a 15 minuti dalla biblioteca di Birstall: i vicini lo hanno descritto come una persona solitaria di cui si sapeva poco, ma che non era mai sembrata aggressiva. In molti lo conoscevano solo di vista o per i consigli di botanica che dava ogni tanto ai suoi vicini. Uno dei suoi due fratelli ha detto che faceva volontariato in una scuola della zona e lui stesso, in un’intervista a un giornale locale, aveva parlato positivamente del suo lavoro come volontario e di come lo avesse aiutato “più delle medicine e della psicoterapia”. Due vicine di casa hanno raccontato di averlo visto ieri intorno alle 12.30 che usciva di casa con il cappello e una borsa. Nessuna delle persone che lo conoscono ha parlato di Mair come di qualcuno particolarmente politicizzato o con opinioni molto forti. Dopo l’aggressione la polizia ha perquisito per diverse ore la sua casa.

«Britain first!»
Alcuni testimoni dell’aggressione hanno raccontato alla polizia e ai giornalisti che Mair, prima e durante l’attacco a Cox, ha gridato “Britain first!”, il nome di un partito di destra e anti-europeista e, più in generale, uno slogan usato per esprimere posizioni nazionaliste: “la Gran Bretagna prima di tutto”. Per ora non ci sono conferme ufficiali sull’affidabilità di queste testimonianze, ma la polizia ha detto che sta indagando la possibilità che Mair fosse affiliato a qualche partito di estrema destra.

Giovedì 23 giugno i cittadini britannici voteranno per il referendum sulla permanenza del Regno Unito nell’Unione Europea, un tema che ha molto polarizzato il dibattito politico delle ultime settimane; Jo Cox, quando è stata attaccata, era diretta a una riunione di un comitato locale della campagna in favore della permanenza nella UE. Negli ultimi mesi, in generale, aveva fatto attivamente campagna elettorale a favore della permanenza del Regno Unito nell’Unione Europea e aveva più volte parlato dei benefici dell’immigrazione per il paese, uno degli argomenti più discussi durante la campagna referendaria. In un recente discorso in Parlamento aveva detto: «Le nostre comunità sono state profondamente migliorate dall’immigrazione, che fosse quella degli irlandesi cattolici o dei musulmani dall’India o dal Pakistan». Jayda Fransen, vice segretaria del partito Britain First, si è dissociata dall’attacco a Cox spiegando che «questi non sono il genere di comportamenti che condoniamo».

Chi era Jo Cox
Cox – il suo nome intero era Helen Joanne, abbreviato in Jo – era nata a Batley, nello Yorkshire, nel 1974 e si era laureata all’università di Cambridge nel 1995. Prima di diventare deputata nel 2015 aveva lavorato come dirigente nell’organizzazione non governativa Oxfam, che si occupa di aiuti umanitari e progetti di sviluppo, ed era stata consulente per l’attivista britannica Sarah Brown (la moglie dell’ex primo ministro Gordon Brown) e per la baronessa Glenys Kinnock, una politica britannica che è stata membro del parlamento europeo per il partito laburista dal 1994 al 2009.

Cox – descritta dal Guardian come «uno degli astri nascenti del Partito Laburista» – era la presidentessa del gruppo parlamentare “amici della Siria”, di cui fanno parte membri di diversi partiti. Nell’ottobre 2015 Cox scrisse insieme a Andrew Mitchell del Partito Conservatore un articolo che spiegava come l’esercito britannico avrebbe potuto aiutare a trovare una soluzione etica per la guerra in Siria. Nell’autunno del 2015 Cox decise però di astenersi nel voto che doveva decidere un eventuale intervento militare in Siria del Regno Unito. Per la sua astensione aveva ricevuto moltissime critiche da attivisti e sostenitori del Partito Laburista.

Cox era stata inizialmente una sostenitrice della candidatura di Jeremy Corbyn a leader del Partito Laburista britannico; poi aveva cambiato idea e votato per Liz Kendall, una candidata dalle posizioni più moderate. Era sposata con Brendan Cox, che fino all’anno scorso lavorava per l’organizzazione Save The Children, e aveva due figli.

Fonte: Il Post

mercoledì 15 giugno 2016

Il piano del governo sulle pensioni anticipate

In cosa consiste il progetto descritto dai giornali di oggi per chi vuole andare in pensione tre anni prima della scadenza

(Foto ufficio stampa Caritas)

Dopo un incontro tra il governo e i maggiori sindacati al ministero del Lavoro martedì 14 giugno, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio dei ministri Tommaso Nannicini e il ministro del Lavoro Giuliano Poletti hanno presentato una proposta sulle pensioni e sulla cosiddetta “flessibilità in uscita”: chi vorrà potrà andare in pensione tre anni prima del raggiungimento di una certa soglia, ottenendo un prestito da una banca (attraverso l’INPS) da restituire in vent’anni attraverso una rata che sarà tagliata automaticamente dall’assegno della pensione. Sono previste anche detrazioni per le persone con situazioni economiche più fragili. Per ora si tratta di una proposta allo studio dei sindacati in vista di un nuovo incontro il prossimo 23 giugno. Secondo quanto anticipato dal governo il nuovo meccanismo dovrebbe però far parte della legge di stabilità che sarà votata in autunno.

Chi riguarda
La nuova flessibilità in uscita nel 2017 riguarderà in un primo tempo i lavoratori che hanno almeno 63 anni e 7 mesi e le lavoratrici che hanno 62 anni e 7 mesi: saranno dunque coinvolti e coinvolte coloro a cui non mancano più di tre anni per l’età pensionabile di vecchiaia (chi, in sostanza, va in pensione non oltre tre anni prima del previsto). Il provvedimento sarà comunque sperimentale, durerà tre anni dal 2017 al 2019 e coinvolgerà i lavoratori nati a partire dal 1951.

Il provvedimento dovrebbe riguardare chi lavora nel settore privato, ma circola anche l’ipotesi di allargarlo agli impiegati del settore pubblico: questo punto non è però stato ancora chiarito. Diversi giornali scrivono che «secondo alcuni calcoli gli interessati potrebbero arrivare fino a 40 mila».

Come funziona
La proposta si basa su due meccanismi: l’Ape, cioè l’anticipo pensionistico, e la Rita, cioè la rendita integrativa temporanea anticipata. L’anticipo permetterà ai lavoratori a cui mancano tre anni di andare in pensione in modo anticipato e la rendita integrativa permetterà di incassare subito parte delle pensione integrativa. La categoria dei lavoratori interessati potrà contare su un prestito pensionistico-bancario da rimborsare in 20 anni. Il prestito, nei piani del governo, sarà garantito dalle banche convenzionate con un’assicurazione sui rischi, ma senza la necessità di una garanzia reale (la casa di proprietà, per esempio): le banche non potranno quindi chiedere garanzie che coinvolgano gli eredi. Il Sole 24 Ore spiega che «a erogare l’assegno anticipato sarà l’INPS». Sarà cioè l’INPS a dover creare il rapporto con le banche e ad essere l’interlocutore dei lavoratori che decideranno di accedere a questo meccanismo.

Il rimborso del prestito sarà temporaneo, avverrà cioè nell’arco di vent’anni, partirà dopo il raggiungimento dell’età pensionabile (quindi dopo tre anni) e sarà automatico: l’assegno previdenziale pieno verrà cioè decurtato delle rate per recuperare le somme anticipate. L’assegno reale potrà dunque essere fino al 15 per cento inferiore rispetto all’assegno potenziale pieno. Il tasso di interesse di questo prestito dovrebbe essere intorno all’1,5 per cento.

L’importo della decurtazione dipenderà dagli anni di anticipo (prima si va in pensione anticipata maggiore poi sarà la rata), ma anche dalla condizione del lavoratore che farà richiesta di Ape: ci saranno delle specifiche detrazioni fiscali per le classi più deboli in modo da facilitare la restituzione della rata nell’assegno. Nello schema del governo sono previste tre fasce di lavoratori: chi va in pensione anticipata volontariamente, chi è disoccupato da lungo tempo e chi viene “spinto” alla pensione per una ristrutturazione aziendale. La prima fascia e quella di chi ha un reddito alto sarebbe quella meno interessata dalle detrazioni. Ci saranno invece maggiori detrazioni per la fascia dei disoccupati di lungo corso.

Ci saranno le penalizzazioni?
Le cosiddette “penalizzazioni” sono quei disincentivi introdotti dalla riforma Fornero nel 2011 per scoraggiare l’accesso alla pensione anticipata, e che hanno a che fare con una riduzione dell’1-2 per cento dell’importo dell’assegno previdenziale (le penalizzazioni sono state comunque oggetto di diversi interventi legislativi successivi). Nannicini ha precisato che «non c’è nessuna penalizzazione sulla pensione anticipata, c’è solo la rata che è una penalizzazione in sé, ma nient’altro».

La Stampa precisa:


«È chiaro però che la pensione finale verrebbe calcolata in forma ridotta visto che comunque mancheranno da 1 a 3 anni di versamenti. Insomma non c’è un meccanismo esplicito di penalizzazione, ma una certa decurtazione è nei fatti. Il governo conta però di compensarla con le detrazioni e rendendo più convenienti le ricongiunzione tra le varie gestioni previdenziali».


Il Sole 24 Ore aggiunge che nell’attuale proposta del governo «restano ancora da sciogliere i nodi della calibratura delle penalizzazioni degli assegni anticipati che dovrebbero essere in media del 3-4 per cento oscillando da un minimo dell’1 per cento a un massimo dell’8 per cento».

Quanto costerà allo Stato?
Repubblica dice che il costo delle detrazioni a carico dello Stato «dovrebbe essere contenuto sotto il miliardo che servirà a coprire anche la garanzia assicurativa per le banche che lavoreranno con l’INPS. Senza questo meccanismo il costo diretto dell’anticipo è stimato in 10 miliardi».

Fonte: Il Post

Continuano gli attacchi di Boko Haram in Nigeria

Il gruppo jihadista ha ucciso quattro persone e rapito tre donne nel villaggio di Kautuva, nella Nigeria nordorientale

Donne che sono riuscite a scappare dalle violenze di Boko Haram in Nigeria. Credit: Emmanuel Braun

Il gruppo jihadista Boko Haram martedì 14 giugno ha ucciso quattro persone e rapito tre donne nel nordest della Nigeria, nei pressi della città di Chibok. I miliziani hanno attaccato all’alba il villaggio di Kautuva, appiccando incendi nelle case dei residenti.

L’organizzazione affiliata all’Isis non è nuova a queste violenze. Nel 2014, i suoi membri hanno rapito 276 studentesse nigeriane, la maggior parte delle quali è ancora nelle loro mani.

Inizialmente focalizzato sulla lotta all'educazione occidentale (Boko Haram significa “l’istruzione occidentale è proibita”), nel corso del tempo le ambizioni del gruppo sono cresciute.

Infatti, i numerosi rapimenti di uomini, donne e bambini, sono parte di una più ampia strategia che Boko Haram usa per combattere il governo e instaurare un califfato islamico in Nigeria.

Nonostante l’esercito regolare abbia recuperato la maggior parte dei territori sotto il controllo dei jihadisti durante la presidenza di Muhammadu Buhari, i miliziani jihadisti continuano a seminare il terrore fra la popolazione.

In totale, durante i sette anni di guerra con il governo centrale, sono morte circa 15mila persone.

Fonte: The Post Internazionale

martedì 14 giugno 2016

In Francia due persone sono state uccise da un uomo già condannato per terrorismo

L'omicidio di un poliziotto e della compagna, avvenuto nei pressi di Parigi, è stato definito un "abietto atto terroristico" dal ministro dell'Interno francese

Il luogo dell'omicidio. Credit: Reuters 

L'assassinio di un poliziotto, Jean-Baptiste Salvint, e della sua compagna da parte di un uomo che ha giurato fedeltà al cosiddetto Stato islamico è stato definito un "abietto atto terroristico" dal ministro dell'Interno francese Cazeneuve. Il poliziotto è stato trovato morto fuori dalla sua casa a Magnanville, nei pressi di Parigi, mentre la compagna all'interno.

L'autore dell'omicidio è stato in seguito ucciso dalla polizia. Secondo alcuni testimoni l'uomo, armato di coltello, avrebbe urlato "Allahu akbar" (Dio è grande) prima di attaccare il poliziotto 42enne fuori dalla sua casa.

Subito dopo il primo omicidio l'assassino è entrato in casa e ha ucciso anche la compagna del poliziotto, dopo averla tenuta in ostaggio insieme al figlio di tre anni, rimasto illeso.

Prima di prendere la decisione di uccidere l'attentatore, le forze dell'ordine hanno provato a negoziare con l'uomo.

Secondo i media francesi l'aggressore, il 25enne Larossi Abballa che abitava nella vicina città di Mantes-la-Jolie, era già stato condannato a una pena di tre anni nel 2013, per il suo collegamento a gruppi jihadisti pakistani con l'accusa di "associazione a delinquere allo scopo di atti terroristici".

L'agenzia di stampa Amaq dello Stato islamico, ha detto che l'uomo era un combattente del sedicente Stato islamico. I pubblici ministeri francesi hanno avviato un'indagine anti-terrorismo.

Se la notizia sarà confermata, si tratterà del primo attacco da parte di militanti jihadisti sul territorio francese da quando è stato imposto lo stato di emergenza in seguito agli attacchi dello scorso novembre che ha provocato 130 morti a Parigi.

L'attacco è avvenuto in giorni di massima allerta dovuti ai campionati di calcio europei iniziati il 10 giugno e che si concluderanno il prossimo 10 luglio.

Fonte: The Post Internazionale

domenica 12 giugno 2016

Cinquanta morti in una sparatoria in un locale gay in Florida

L'attentatore è stato identificato come Omar Mateen, 29 anni, residente in Florida, ma di origine afghana

Credit: polizia di Orlando

Almeno 50 persone sono morte e 52 sono rimaste ferite in seguito a una sparatoria in una discoteca gay a Orlando, in Florida. Lo ha riferito la polizia di Orlando in una conferenza stampa alla conclusione delle operazioni delle forze dell'ordine per mettere in salvo le persone che si trovavano nel locale.

La polizia di Orlando, che ha schierato uomini e volanti, aveva scritto su Twitter di stare lontani dalla discoteca Pulse e ha definito l'episodio "terrorismo domestico". La polizia di Orlando ha annunciato su Twitter che l'attentatore è morto, colpito dai poliziotti.

Il presidente Barack Obama ha chiesto alla polizia federale di intervenire a sostegno delle forze dell'ordine locali della Florida. L'Fbi dunque parteciperà alle indagini e riferirà direttamente al presidente. Secondo l'Fbi l'attentatore potrebbe avere legami con i miliziani del sedicente Stato islamico.

Il capo della polizia di Orlando, John Mina, ha riferito che tra la sparatoria e l'omicidio della cantante Christine Grimmie, avvenuto due giorni fa nella stessa città, non c'è alcuna connessione.

L'attentatore è stato identificato come Omar Mateen, 29 anni, residente in Florida a Fort Pierce, ma di origine afghana.

L'arma utilizzata è un fucile AR-15. Il primo colpo è stato sparato alle 2.02 ora locale.

Si tratta della sparatoria di massa con il più alto numero di vittime della storia degli Usa, superando i 32 morti alla Virginia Tech University del 2007.

Fonte: The Post Internazionale

sabato 11 giugno 2016

Perché si parla di nuovo di articolo 18

Una sentenza ha stabilito che si applica ai licenziamenti degli statali, smentendo quanto affermato da un'altra sentenza: insomma, c'è della confusione

Il presidente del Consiglio Matteo Renzi con la ministra della Semplificazione e Pubblica Amministrazione Marianna Madia (ANSA/ANGELO CARCONI)

Giovedì 9 giugno la Corte di Cassazione ha depositato la sentenza 11868 della sezione Lavoro, che dice: «Il licenziamento del personale del pubblico impiego non è disciplinato dalla “legge Fornero” bensì dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori». La sentenza non è una sorpresa, perché la riforma del lavoro del 2012 cosiddetta “Fornero”, dal nome dell’allora ministro, non riguardava gli statali: ma un’altra sentenza della Cassazione dello scorso novembre aveva stabilito che ai dipendenti pubblici dovevano essere applicate le regole della riforma Fornero e quindi del “Jobs Act”, la nuova riforma del lavoro del 2014 fatta dal governo Renzi, che aveva cambiato l’articolo 18. Tutti i principali giornali si occupano oggi di nuovo dell’articolo 18, perché queste due sentenze ravvicinate mostrano, come denunciano da mesi sindacati e giuslavoristi, che nella stratificazione delle diverse riforme si è creata una sostanziale disuguaglianza tra lavoratori del settore pubblico e del settore privato.

Con la sua ultima sentenza la Cassazione ha accolto le ragioni del ministero delle Infrastrutture e Trasporti contro una decisione della Corte d’appello di Roma del dicembre 2014. La Corte di Appello aveva riconosciuto sei mesi di stipendio come risarcimento a un funzionario pubblico licenziato che faceva un doppio lavoro, come stabilisce la legge Fornero per i casi di licenziamenti senza giusta causa ma con violazione delle procedure disciplinari. Il ministero delle Infrastrutture aveva fatto ricorso in Cassazione contro i sei mesi di indennità. La Corte ha ora stabilito che per il pubblico impiego valgono le garanzie dello Statuto dei Lavoratori: e cioè che in caso di licenziamento illegittimo il lavoratore va reintegrato e non semplicemente risarcito. La legge Fornero effettivamente non prevedeva l’applicazione delle nuove regole agli statali: prevedeva che venisse emanata una norma successiva che estendesse le nuove regole agli statali, ma quella norma non è mai stata fatta.

L’articolo 18, in breve, dallo Statuto dei Lavoratori al Jobs Act
L’articolo 18 è una parte di quello che comunemente viene chiamato Statuto dei Lavoratori, e cioè della legge del 20 maggio 1970, numero 300, che contiene l’insieme delle norme «sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro». Si tratta insomma delle regole più importanti a tutela di illeciti e ingiustizie quando si parla di lavoro in Italia e che sono organizzate, nella legge, in diversi “titoli” dedicati a vari temi. L’articolo 18 rientra nel “Titolo II – Della libertà sindacale” e si occupa dei licenziamenti che avvengono senza giusta causa per certe categorie di lavoratori e lavoratrici: indica cioè quali sono i diritti e i limiti per chi viene licenziato in modo illegittimo e che decide di fare richiesta al giudice per ottenere indietro il suo impiego o essere risarcito del danno subito.

L’articolo 18 ha subìto una sostanziale modifica nel 2012 con la riforma dell’allora ministro del Lavoro Elsa Fornero, sia nella procedura che seguiva immediatamente il licenziamento (riducendo i tempi per rivolgersi al giudice e introducendo una procedura di conciliazione), sia nella giustificazione del licenziamento stesso (discriminatorio, disciplinare, economico): in sostanza, riduceva e rendeva complicata l’applicabilità della tutela del reintegro nella maggior parte dei casi di licenziamento che arrivavano in tribunale. La legge Fornero prevedeva che queste nuove regole venissero applicate anche ai dipendenti pubblici con una norma successiva che però non è mai stata fatta.

Poi è arrivato il cosiddetto “Jobs Act”, la riforma del lavoro del governo Renzi del 2014, che ha superato definitivamente l’articolo 18 e il diritto al reintegro sostituendolo, in caso di licenziamento senza giusta causa, con un indennizzo. La riforma si applica però solo ai nuovi contratti di lavoro e cioè a chi è stato assunto dopo il 7 marzo del 2015 e sebbene non sia stato esplicitamente chiarito nella legge la ministra della Pubblica amministrazione, Marianna Madia, ha sempre ribadito che non riguarda gli statali. Madia dice in sostanza che l’articolo 18 per gli statali non è stato cambiato né dalla legge Fornero né dal Jobs Act. Una sentenza della Cassazione del novembre del 2015 sembrava però smentire questa posizione.

E quindi?
Il risultato è che esistono in teoria tre regimi diversi di tutela. Per i lavoratori pubblici dovrebbe valere l’articolo 18 come previsto dallo Statuto dei Lavoratori, per tutti i lavoratori privati assunti entro il 7 marzo 2015 vale la legge Fornero e per chi è stato assunto dopo quella data si applica il Jobs Act (questo significa che dopo il Jobs Act all’interno di una stessa azienda ci sono lavoratori con le stesse mansioni ma con regimi di tutela diversi e che nell’ipotesi di un licenziamento collettivo alcuni lavoratori hanno il diritto ad essere reintegrati e altri no). Le due sentenze della Cassazione hanno aggiunto “confusione” per quanto riguarda il settore del lavoro statale: quella più recente dice per i lavoratori statali vale lo Statuto dei Lavoratori, quella dello scorso novembre dice che anche per gli statali vale il licenziamento riformato senza obbligo di reinterga.

Aldo Bottini, il presidente degli avvocati giuslavoristi italiani ha spiegato che questa situazione «rappresenta una disuguaglianza, una discriminazione non so quanto sostenibile anche da un punto di vista costituzionale». Bottini ha spiegato che il contrasto tra le due sentenze «andrà chiarito dalle Sezioni unite o da un intervento legislativo di interpretazione autentica, che peraltro il governo aveva annunciato di voler fare fin dallo scorso anno, quando entrò in vigore il Jobs Act ed era in discussione la riforma del pubblico impiego». Per quanto riguarda gli statali, viste le diverse interpretazioni, il governo e la ministra Madia hanno infatti detto più volte di voler intervenire con una norma che espliciti l’esclusione dei dipendenti pubblici dalla riforma. Scrive Repubblica che «la precisazione dovrebbe trovare spazio nel testo unico del pubblico impiego, in attuazione della riforma della Pubblica amministrazione».

Fonte: Il Post

Almeno sette civili sono rimasti uccisi nei bombardamenti su Bengasi, in Libia

I colpi di mortaio hanno colpito dei quartieri residenziali vicini al fronte cittadino, dove si scontrano le forze del generale Haftar e militanti islamisti

La città di Bengasi è terreno di pesanti scontri tra le forze filogovernative e i miliziani islamisti. Credit: Esam Al-Fetori

Almeno sette civili sono rimasti uccisi e otto feriti in seguito a bombardamenti su Bengasi, nell’est della Libia, ha riferito una fonte medica sabato 11 giugno 2016.

I colpi di mortaio hanno colpito i quartieri residenziali più vicini al fronte durante le giornate di giovedì e venerdì. Alcune zone di Bengasi sono state teatro di pesanti combattimenti nel corso degli ultimi due anni.

Le forze fedeli al comandante militare Khalifa Haftar hanno lanciato una campagna contro i militanti islamisti e altri oppositori nel 2014. Haftar ha guadagnato notevolmente terreno ma i combattimenti ai margini della città proseguono.

Un portavoce delle forze speciali, Fadel al-Hassi, ha riferito che i colpi di mortaio dei giorni scorsi provenivano dai distretti di Sabri e Souq al-Hut nel nord di Bengasi, dove si concentrano gli oppositori di Haftar.

All’inizio di questa settimana entrambi i quartieri sono stati colpiti dall’aeronautica, mentre almeno sei uomini appartenenti alle forze di Haftar sono morti durante gli scontri sul terreno.

La Libia è preda di una guerra civile sin dall’inizio della rivoluzione che ha portato alla caduta di Gheddafi cinque anni fa.

Un governo di unità nazionale sostenuto dalle Nazioni Unite ha rimpiazzato i due governi rivali di Tobruk e Tripoli, ma fatica ancora a stabilire il controllo sul paese e sulle molte milizie armate.

Fonte: The Post Internazionale

Duplice attentato nel sobborgo sciita a sud di Damasco

Ci sono diverse vittime e feriti. L'area di Sayeda Zeinab è stata colpita altre tre volte dall'Isis nel corso del 2016

Il sito dell'esplosione di un'autobomba a Sayeda Zeinab il 25 aprile 2016. Credit: Omar Sanadiki

Un attentatore suicida e un’autobomba hanno colpito separatamente un sobborgo di Damasco uccidendo almeno otto persone e ferendone molte altre sabato 11 giugno 2016.

I media governativi hanno diffuso la notizia del duplice attentato nell’area di Sayeda Zeinab, dove si trova il santuario sciita più sacro della Siria che è stato oggetto di altri tre attentati nel corso di quest’anno. Tutti, compresi quelli di oggi, sono stati rivendicati dall’Isis.

Un religioso sciita ha riferito attraverso il canale televisivo governativo Ikhbariya che l'autobomba è esplosa non lontano dalla via di al-Taen dove si trova il santuario.

L'Osservatorio siriano per i diritti umani ha detto che il bilancio delle vittime è di almeno 20 morti tra cui 13 civili.

La zona è pesantemente presidiata ed è la roccaforte della milizia sciita libanese Hezbollah, che combatte a fianco del regime di Damasco.

Migliaia di reclute sciite irachene e afghane sono arrivate in Siria come volontari per sostenere il presidente Bashar al-Assad e convergono su Sayeda Zeinab, che dicono di voler difendere dagli estremisti sunniti.

Fonte: The Post Internazionale

Pedro Pablo Kuczynski è il nuovo presidente del Perù

Keiko Fujimoro, figlia dell'ex dittatore ammette la sconfitta e promette un'opposizione attenta e vigile

Il nuovo presidente del Perù Pedro Pablo Kuczynski. Credit: Mariana Bazo

Il nuovo presidente del Perù è Pedro Pablo Kuczynski, economista 77enne, ex funzionario della Banca Mondiale vicino a posizioni liberali e centriste.

Domenica 5 giugno 2016 si è svolto il secondo turno delle elezioni presidenziali in Perù. Dopo un lungo testa a testa, Keiko Fujimori, una dei due contendenti al ballottaggio, ha ammesso la sconfitta venerdì 10 giugno.

Fujimori, 41enne figlia dell’ex dittatore peruviano Alberto, ha dichiarato che il suo schieramento assumerà il ruolo di un’opposizione attenta e vigile.

Tuttavia, durante un discorso segnato dall’amarezza per la sconfitta, ha detto che il suo avversario ha vinto lo spareggio grazie al supporto dei “promotori dell’odio” e che i risultati ufficiali delle votazioni sono poco chiari.

Fonte: The Post Internazionale

venerdì 10 giugno 2016

Silvio Berlusconi sarà operato al cuore

Per la sostituzione della valvola aortica a causa di un'insufficienza cardiaca, lo hanno confermato i medici che lo hanno in cura al San Raffaele di Milano


Silvio Berlusconi dovrà essere operato al cuore, per la sostituzione della valvola aortica, che collega il ventricolo sinistro all’aorta, la più grande e importante arteria del nostro organismo. L’annuncio è stato dato da Alberto Zangrillo, direttore di Anestesia e Rianimazione presso l’ospedale San Raffaele di Milano e che segue da tempo Berlusconi. L’operazione durerà quattro ore circa e sarà eseguita dal cardiochirurgo Ottavio Alfieri. Berlusconi è ricoverato al San Raffele da martedì scorso, dopo che aveva avuto uno scompenso cardiaco domenica.

Fonte: Il Post

Denunciato scambio d'identità nel caso del trafficante di migranti Mered Medhane

Diverse persone hanno riconosciuto nelle immagini rilasciate dalla polizia italiana un emigrante eritreo di nome Mered Tesfamariam

Una foto del presunto rifugiato eritreo Mered Tesfamariam, scambiato per il trafficante d'uomini Mered Medhane

Nel caso di Mered Yehdego Medhane, l’uomo eritreo sospettato di essere uno dei più grandi trafficanti di esseri umani al mondo ed estradato dal Sudan all’Italia nella notte tra martedì 7 e mercoledì 8 giugno, ci sarebbe stato uno scambio di identità.

Diversi amici e conoscenti dell’uomo fermato a Khartoum, hanno denunciato l’errore delle forze dell’ordine. Infatti, secondo loro, il suo vero nome sarebbe Mered Tesfamariam, un semplice rifugiato eritreo che viveva nel confinante Sudan.

Tuttavia, la polizia italiana è convinta di avere preso in custodia l’uomo giusto, negando l’avvio di indagini sulla sua identità.

Intanto, Meron Estefanos, giornalista svedese che aveva intervistato Medhane lo scorso anno, ha affermato di non riconoscere la persona nelle immagini rilasciate dalla polizia italiana.

La pubblica accusa ritiene che il vero Mered Medhane sia al cuore della tratta di esseri umani tra Africa ed Europa.

Il procuratore di Palermo Francesco Lo Voi ha dichiarato che Medhane “è accusato di aver messo in piedi una delle più importanti reti criminali specializzate nella tratta di esseri umani che operano nell’Africa centrale e in Libia e organizzano i viaggi via mare verso le coste siciliane”.

L’organizzazione di Medhane, infatti, avrebbe preparato anche la traversata in cui morirono 359 migranti in un naufragio a sud di Lampedusa.

Negli ambienti criminali, Medhane era conosciuto come “il Generale”, in quanto in Libia si vantava di avere un potere pari a quello dell’ex dittatore Muammar Gheddafi, e poteva contare sulla complicità di un altro boss delle “tratte della morte”, l’etiope Ghermay Ermias, ancora latitante.

L'uomo avrebbe fatto imbarcare in un solo anno almeno 7-8mila migranti, alimentando un lucroso traffico: secondo le stime, un'imbarcazione con 600 persone frutta ai trafficanti tra gli 800mila e il milione di dollari.

Fonte: The Post Internazionale

giovedì 9 giugno 2016

Maria Sharapova è stata squalificata per due anni

Non aveva superato un controllo anti-doping durante gli Australian Open: lei ha detto che farà ricorso

(AP Photo/Aaron Favila)

Maria Sharapova, tennista russa di 29 anni, è stata squalificata oggi per due anni dalla federazione internazionale di tennis per aver violato le norme antidoping: a gennaio, durante gli ultimi Australian Open, era risultata positiva al meldonium, un farmaco molto usato dagli atleti russi e proibito dal primo gennaio del 2016. Sharapova è una delle tenniste più note degli ultimi anni e al momento della positività nel test antidoping era in settima posizione nel ranking mondiale della WTA. Dopo la notizia della sua positività, Sharapova aveva organizzato una conferenza stampa in cui aveva detto di prendere quei medicinali da dieci anni e di non sapere che fossero stati vietati. Si era assunta la piena responsabilità dell’errore, spiegando di aver ricevuto a dicembre una mail dall’Agenzia mondiale antidoping con un link che rimandava all’elenco delle sostanze proibite, e di non averlo aperto. Il test in questione è stato fatto a Sharapova il 26 gennaio, giorno in cui agli Australian Open aveva giocato e perso i quarti di finale contro Serena Williams. Sharapova ha già pubblicato un comunicato in cui ha detto che presenterà ricorso contro la squalifica della ITF.


Nel comunicato della ITF si legge:


Un tribunale indipendente, incaricato secondo l’articolo 8.1 del programma antidoping tennistico del 2016, ha dichiarato che Maria Sharpova ha infranto le regole antidoping e, di conseguenza, l’atleta è stata squalificata per due anni a partire dal 26 gennaio del 2016.


Sharapova, tennista russa di 29 anni, ha fornito un campione di urine durante i controlli del 26 gennaio, dopo i quarti di finale degli Australian Open. Il campione è stato inviato ad un laboratorio antidoping di Montreal accreditato dalla WADA (l’Agenzia mondiale antidoping), che lo ha analizzato e vi ha trovato tracce di meldonium, un modulatore ormonale che è incluso nelle sostanze proibite della WADA e nel programma della federazione tennistica.


Che cos’è il meldonium?
La WADA ha incluso il meldonium nella lista dei modulatori ormonali e metabolici, cioè delle sostanze che modificano le reazioni enzimatiche e ormonali. La proibizione del farmaco è stata molto criticata dagli atleti e dai preparatori atletici russi, che ne hanno fatto sempre uso. Il meldonium è stato legale per molti anni e solo nel 2015 la WADA ha iniziato a monitorare la sua somministrazione: iniziò a essere commercializzato nel 1975 come cura ai problemi cardiaci, in quanto aiuta la circolazione e aumenta la quantità di ossigeno presente nel sangue, cosa che però permette agli atleti di recuperare velocemente le energie durante gli allenamenti.

L’inventore del farmaco fu Ivars Kalvins, professore dell’Istituto per la sintesi organica lettone. Negli Stati Uniti la Food and Drug Administration, l’ente governativo che regolamenta i prodotti alimentari e farmaceutici, ne ha proibito la vendita: Sharapova abita negli Stati Uniti da quando ha sette anni e i dottori della federazione tennistica russa hanno detto che non erano al corrente del suo uso di meldonium. Anche in Italia e nel resto d’Europa il meldonium non è commercializzato ed è un farmaco sconosciuto, mentre può essere acquistato facilmente e ad un prezzo molto basso in tutte le farmacie russe.

Il principale produttore di meldonium è l’azienda lettone Grindex, che nel suo sito spiega che può essere usato per curare malattie cardiovascolari e che il periodo consigliato per la sua assunzione è al massimo sei settimane. Sergei Sheremetiev, medico della squadra russa di salto con lo sci, sostiene di averci lavorato per vent’anni e di averlo somministrato ai suoi atleti almeno un paio di volte all’anno. Ha detto inoltre che in Russia è usato regolarmente nell’hockey, nello sci, in vari sport invernali e nell’atletica. Dopo la positività di Sharapova, la Grindex aveva dichiarato in un comunicato ufficiale che il meldonium non avrebbe dovuto essere proibito agli atleti, perché non utile ad aumentare il livello delle prestazioni. Secondo alcuni però, il meldonium aiuterebbe anche a “coprire” nei controlli le tracce di EPO, una delle sostanze dopanti più diffuse fra gli atleti.

Fonte: Il Post

Almeno 22 persone sono morte in due diversi attacchi a Baghdad in Iraq

I due attacchi sono avvenuti nei pressi di un'area commerciale e di un posto di blocco dell'esercito. Lo ha riferito la polizia irachena.

La scena dell'attacco. Credit: Twitter

Almeno 22 persone sono state uccise e 70 ferite in due attentati separati a Baghdad, nei pressi di un'area commerciale e di un posto di blocco dell'esercito. Lo ha riferito la polizia irachena.

Gli attacchi sarebbero una risposta all'offensiva dell'esercito a Falluja, per riprendere la città dal controllo dei miliziani dello Stato islamico.

Una macchina piena di esplosivo è stata fatta esplodere a al-Jadeeda, un quartiere orientale della capitale, uccidendo almeno 15 persone e ferendone oltre 50.

Quasi contemporaneamente un'altra autobomba ha preso di mira un posto di blocco dell'esercito a Taji, a nord di Baghdad, uccidendo sette soldati e ferendone più di 20.

Fonte: The Post Internazionale

Il video di Fanpage.it sui brogli alle elezioni Comunali a Napoli

Via Carbonara, Soccavo, Rione Sanità, Pallonetto: le telecamere di Fanpage.it documentano ancora una volta anomalie e scambi sospetti all'esterno dei seggi elettorali aperti per scegliere Consiglio comunale e sindaco di Napoli.



Fanpage.it dopo le Elezioni Comunali del 5 giugno a Napoli ha reso noto un video, frutto del lavoro della squadra di videoreporer della redazione partenopea, che con telecamere nascoste si sono recati nel giorno del voto dinanzi alcuni seggi nel centro storico. Il quadro che è emerso, al pari dell'analogo video sulle Primarie del Partito Democratico in città, è di irregolarità, anomalie, possibili brogli.

Nel filmato si vedono passaggi di denaro (20 euro), di fogli e foglietti – materiale di propaganda dei candidati – e di certificati elettorali. Il video parte con le immagini nel piazzale antistante l'Istituto Bovio, in via Carbonara, nel quartiere San Lorenzo, in cui si sente un uomo, che si qualifica come rappresentante di lista, che spinge una donna a prendere una borsa. Nel video poi si vedono due donne, avvicinate da un uomo che passa qualcosa, forse soldi o materiale elettorale. In via della Solitaria, al Pallonetto, nell'Istituto Palizzi, nel quartiere Chiaia si sente un uomo che scandisce «Forza Italia, Forza Italia!». Poi persone parlano tra di loro e viene evidenziato un presunto passaggio di banconote.

Ci si sposta poi al rione Sanità, all'esterno di un Caf, un centro di assistenza fiscale stranamente aperto di domenica: si tratta di strutture ufficialmente impiegate come supporto all'assistenza di tipo fiscale e previdenziale (redditometro, modello Unico, 730…) ma che spesso diventano veri e propri centri di propaganda elettorale. Lì si vede un manifesto con il simbolo di Centro Democratico e si nota altro scambio di materiale con un via vai di persone. Si evidenzia scambio di materiale elettorale e probabilmente di banconote con un via vai di persone, che giungono e ripartono in moto, con in mano la tessera elettorale. 

Periferia Ovest: Soccavo, scuola Scherillo, via Stanislao Manna: una donna invita a votare ad alta voce un candidato. nello steso luogo due uomini parlano di persone che erano attese al seggio: uno di essi ha anche un foglio in cui sembra ci sia una lista di elettori attesi.

Fonte: Fanpage.it

Leggi anche: Video brogli a Napoli, la procura apre inchiesta dopo il video di Fanpage.it


“Stefano Cucchi è stato vittima di tortura come Giulio Regeni”


“Stefano Cucchi è stato vittima di tortura come Giulio Regeni”: questa l’accusa che il procuratore generale Eugenio Rubolino ha lanciato nel corso della sua requisitoria al processo d’appello bis per la vicenda della morte di Stefano Cucchi, il geometra romano arrestato il 15 ottobre 2009 e deceduto una settimana dopo in ospedale. Il pg ha chiesto quattro anni di carcere per il primario Aldo Fierro e tre anni e sei mesi per gli altri quattro medici dell’ospedale Pertini accusati di omicidio colposo per non aver fornito a Cucchi le cure necessarie affinché non morisse. Si tratta di Stefania Corbi, Flaminia Bruno, Luigi De Marchis e Silvia Di Carlo. Il processo arriva dopo l’annullamento dell’assoluzione deciso dalla Corte di Cassazione nel dicembre scorso. Il procuratore generale ha in sostanza sostenuto nel corso della sua requisitoria che Cucchi fin dal momento del suo ricovero non ebbe le cure necessarie. In aula sono presenti anche la sorella di Stefano, Ilaria Cucchi, e il suo avvocato Fabio Anselmo.
“Medici responsabili di omicidio colposo”“Cucchi è stato pestato, ucciso quando era in mano dello Stato, ucciso da servitori dello Stato in camice bianco. Occorre restituire dignità a Stefano e all’intero Paese. Bisogna evitare che muoia una terza volta”, ha aggiunto Rubolino nella sua requisitoria.

Un abbraccio forte ad Ilaria. Coraggio

mercoledì 8 giugno 2016

Pizzarotti è indagato per l’alluvione di Parma del 2014

Il sindaco di Parma del M5S è accusato di disastro colposo: è la seconda indagine che lo coinvolge in un mese, dopo quella sulle nomine al Teatro Regio

(ANSA/UFFICIO STAMPA COMUNE DI PARMA)

Il sindaco di Parma del Movimento 5 Stelle Federico Pizzarotti è indagato con l’accusa di disastro colposo per l’alluvione di Parma dell’ottobre 2014: Pizzarotti è indagato perché tra le responsabilità dei sindaci c’è anche quella sulla protezione civile nella città amministrata. Oltre a Pizzarotti sono indagati anche il Comandante della Polizia Municipale Gaetano Noè e tre tecnici: il direttore dell’Agenzia regionale di protezione civile Gabriele Mainetti, l’ex direttore del Servizio tecnico di Bacino degli Affluenti del Po Gianfranco Larini e l’ex dirigente della protezione civile della Provincia di Parma Gabriele Alifraco. Nell’ottobre 2014 il torrente Baganza di Parma esondò per le forti piogge, allagando diversi quartieri a sud-ovest della città: non ci furono morti, ma i danni ammontarono a diversi milioni di euro. L’indagine su Pizzarotti arriva dopo mesi di indagini del Corpo forestale dello Stato e della Polizia Municipale. Alcune settimane fa era stata aperta un’indagine su Pizzarotti per abuso d’ufficio nelle decisioni sulle nomine al Teatro Regio della città, e la cosa aveva portato alla sua sospensione dal Movimento 5 Stelle.


Il sindaco di Parma Federico Pizzarotti, il capo dei vigili Gaetano Noè e tre tecnici sono stati iscritti nel registro degli indagati con l’accusa di disastro colposo in merito all’alluvione che nell’ottobre 2014 ha causato a Parma milioni di euro di danni.


Il primo cittadino nelle settimane scorse ha ricevuto un avviso di garanzia per la vicenda delle nomine al teatro Regio di Parma, vicenda che gli è costata la sospensione dal M5s per aver tenuto nascosto l’atto della Procura. Nei giorni scorsi era già emersa la possibilità che Pizzarotti fosse coinvolto in un’altra indagine. 


Sono stati indagati per disastro colposo anche il direttore dell’Agenzia regionale di protezione civile Gabriele Mainetti, l’ex responsabile del servizio tecnico di bacino Gianfranco Larini e l’ex dirigente della protezione civile della Provincia Gabriele Alifraco.



Fonte: Il Post