martedì 31 marzo 2015

La produzione di energia in Italia: un settore nel caos a spese dei cittadini

La produzione di energia in Italia è nel caos. In assenza di un piano energetico nazionale il settore è governato da provvedimenti spesso discutibili e contraddittori. Tutto a spese dei cittadini.




In Italia produciamo il 40% di energia oltre il fabbisogno nazionale, ma continuiamo ad importarla dall'estero. Abbiamo sviluppato una discreta produzione da fonti rinnovabili, tale da permetterci di raggiungere gli obiettivi della direttiva comunitaria "20-20-20″, ma continuiamo ad importarla anche dall'estero ad un prezzo esorbitante, come nel caso della mega opera dell'elettrodotto tra Italia e Montenegro.

Ma non solo: abbiamo agevolato la costruzione di centrali a ciclo combinato a gas che dopo pochi anni hanno cominciato ad essere poco produttive a causa della concorrenza delle rinnovabili. Ma il nostro governo ha deciso di pagare la loro improduttività con il capacity payment. Tra elettrodotti inutili, centrali pagate per stare ferme, incentivi spesso ingiustificati, la produzione di energia in Italia è un settore nel caos, grazie anche all'assenza di un piano energetico nazionale. Tutto, chiaramente, a spese dei cittadini che attraverso la loro bolletta pagano investimenti ed incentivi.

L'elettrodotto Italia - Montenegro
Nel 2009 il governo di Silvio Berlusconi strinse un accordo internazionale con il presidente del Montenegro Milo Djukanovic per l'importazione in Italia di energia potenzialmente rinnovabile dai Balcani. Un accordo che prevede la costruzione di un cavo sottomarino nell'Adriatico che collega le coste del Montenegro con quelle abruzzesi sbucando sulla spiaggia di Villalunga a Pescara. Il cavo, costato 1 miliardo di euro, servirà a portare in Italia l'energia prodotta da centrali idroelettriche che saranno costruite in Serbia da aziende italiane, come la Seci Energia e la A2A, per 15 anni al costo di 155 euro al Mhw. Un prezzo assolutamente fuori mercato contando che attualmente il valore della borsa energetica italiana si aggira tra i 50 ed i 55 euro a Mhw. L'accordo fu giustificato dall'allora governo Berlusconi, dalla necessità di raggiungere gli obiettivi della direttiva "20-20-20″ dell'Unione Europea , ovvero la riduzione del 20% del consumo di energia da fonte fossile, l'aumento del 20% della produzione di energia rinnovabile entro il 2020. Un obiettivo che l'Italia, come viene ammesso anche dal Ministero dello Sviluppo Economico, raggiungerà certamente. Ed è proprio l'attuale governo Renzi a confermarlo. Ma allo stesso tempo conferma anche l'impegno preso con il Montenegro che alla luce del raggiungimento degli obiettivi del "20-20-20″ risulta assolutamente svantaggioso.

Stiamo parlando di un investimento che tra costruzione delle opere ed acquisto dell'energia per 15 anni costerà al nostro paese la bellezza di 12 miliardi di euro. Il progetto prevede anche la costruzione di un impianto di "interconnessione", ovvero un ulteriore elettrodotto che porterà l'energia arrivata dai Balcani in tutta Italia. Si tratta dell'elettrodotto "Villanova - Gissi" che attraverserà le provincie di Pescara e Chieti a partire dalla centrale di Cepagatti (Pe) che sarà potenziata. Una grande opera che è stata affidata alla Terna. Un'opera dal forte impatto ambientale: molti boschi sono stati abbattuti per la costruzione dell'elettrodotto; i campi magnetici prodotti dai tralicci in prossimità delle case aumenteranno notevolmente; molte aziende agricole sono state espropriate per costruire i tralicci. Una grande opera assai discutibile sia per i costi sia per il beneficio reale apportato al nostro paese.

Un sistema nel caos: dalle centrali a ciclo combinato al capacity payment
L'esempio dell'elettrodotto Italia - Montenegro è un esempio della confusione che regna nel nostro paese nel settore della produzione di energia. L'Italia infatti non si è mai dotata di un piano strategico nazionale, ovvero di una programmazione precisa e strategica in merito alla produzione di energia, affidandosi invece a provvedimenti ad hoc ed accordi commerciali internazionali. Un esempio emblematico è quello che è accaduto con le centrali a ciclo combinato, ovvero le centrali elettriche che usano gas per produrre energia elettrica. Nel 2002 l'Italia varò il provvedimento legislativo cosiddetto "Sblocca centrali", ovvero una legge dello Stato che incentivava gli investimenti privati nella costruzione di centrali a ciclo combinato. Dopo alcuni anni, in cui sono sorte in tutta Italia centrali di questo tipo, ci si è resi conto che questi impianti appena costruiti non erano più produttivi. Ad incidere è stato proprio l'aumento delle energie rinnovabili più economiche e concorrenziali rispetto alle centrali a gas. Il governo Renzi ha deciso di andare incontro agli interessi dei gruppi privati, come Sorgenia ed Enel, che hanno investito nella costruzione di centrali a ciclo combinato che oggi sono ferme al palo.

Il provvedimento in questione si chiama "capacity payment", ovvero un finanziamento pubblico che dà soldi ai gestori delle centrali nonostante esse non producano energia o ne producano in portata ridotta. Secondo il Ministero dello Sviluppo Economico questo provvedimento è necessario per andare a istituire una "scorta di produzione energetica" in caso di scompensi della rete elettrica nazionale o in caso di black out. Intanto però questi impianti, costruiti sotto impulso dello Stato, restano fermi a spese dei cittadini. Infatti il capacity payment sarà pagato attraverso la bolletta.

Produciamo il 40% in più e continuiamo ad importare
Secondo il Ministero dello Sviluppo Economico, il nostro paese attualmente produce il 40% in più di energia rispetto al fabbisogno nazionale. Ma nonostante questo il nostro paese continua ad importare energia dagli altri paesi. In particolar modo l'Italia importa energia dalla Francia e dalla Svizzera che sono i nostri due principali partner energetici. Insomma, importiamo pur avendo il 40% di produzione in più. Il motivo è semplice: l'energia prodotta da Francia e Svizzera, in gran parte proveniente dalle centrali nucleari ci costa di meno rispetto a quella prodotta in Italia. Un ennesimo controsenso di un settore che appare carente di una strategia vera e propria.

Anche per le centrali la situazione non è diversa. Mentre il nostro paese aumenta le rinnovabili si continuano a finanziare attraverso gli incentivi le centrali a carbone. La produzione di elettricità dalla combustione del carbone è probabilmente tra i metodi di produzione di energia più inquinanti: in questi impianti è possibile bruciare anche il combustibile da rifiuto, pertanto i gestori delle centrali a carbone possono usufruire dei Cip 6 ovvero degli incentivi che paghiamo nella bolletta elettrica per le fonti assimilabili.

Tutto a spese dei cittadini
A pagare gli investimenti di un settore nel caos sono i cittadini. Come è possibile verificare sul sito dell'Autorità Nazionale per l'energia, solo il 45% dei costi della bolletta riguardano il servizio elettrico di cui effettivamente si usufruisce. Il resto della bolletta serve a pagare gli oneri ed i servizi della rete. Gli elettrodotti, gli incentivi per i Cip 6, il capacity payment, sono tutti pagati con i soldi dei cittadini pagati attraverso la bolletta elettrica.
Di certo un piano energetico nazionale servirebbe a razionalizzare questi investimenti ed evitare le troppe storture e e contraddizioni del settore della produzione di energia in Italia

Fonte: fanpage.it

lunedì 30 marzo 2015

Chicche giornalistiche (e non solo) di fine marzo. Imperdibili


La signora D'Urso annuncia l'uscita dei nuovi dati auditel, così.
Posted by Nonleggerlo on Lunedì 30 marzo 2015


Top 10: la classifica dei migliori tweet (e post su Facebook) scritti da #Salvini.#nonrassegna L'Espresso #Lega
Posted by Nonleggerlo on Lunedì 30 marzo 2015


Genio.#Gazebo
Posted by Nonleggerlo on Domenica 29 marzo 2015


#epicfail del @corriereit: come chiama #Vettel?… #Lubitz, il copilota del disastro aereo.@Mantzarlis #nonrassegna
Posted by Nonleggerlo on Domenica 29 marzo 2015


Messi male.#nonrassegna
Posted by Nonleggerlo on Giovedì 26 marzo 2015


Buongiorno...
Posted by Nonleggerlo on Giovedì 26 marzo 2015


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domenica 29 marzo 2015

Le guerre (quasi) segrete dell’Italia

Quadre speciali di incursori hanno operato nel più stretto riserbo in Afghanistan. Ora i militari italiani potrebbero essere schierati in Iraq e Somalia. In attesa di intervenire in Libia


Manifestazioni, bandiere arcobaleno, “yankee, go home”. Cosa resta oggi degli anni 2000, delle proteste contro la guerra in Iraq? Contro il militarismo occidentale? E cosa resta nell’immaginario collettivo dei morti di Nassiriya? Poco, pochissimo. Mentre i movimenti pacifisti sono di fatto spariti dall’orizzonte politico e sociale, gli Usa e i suoi alleati continuano la “lotta al terrorismo” che non è altro che la difesa (spesso legittima) dei propri interessi nazionali. Meno soldati al fronte, meno guerre dichiarate, ma più fronti aperti. E l’Italia fa la sua parte. Nulla sui tg, poco, veramente poco sui giornali. Forse perché gli italiani continuano a mantenere un livello di attenzione verso l’estero pari a quello di un neonato addormentato nella culla. Ma mentre in tanti dormono, intorno ai confini nazionali emergono nuove minacce.

Task Force 45, la Delta Force italiana. Così, l’Italia – come altri paesi Nato – ha già da qualche tempo ridefinito la propria strategia militare nel contesto internazionale. Il primo banco di prova è rappresentato dalla Task Force 45, un manipolo di uomini altamente addestrati, provenienti dai gruppi di incursori di tutte le forze armate sotto il comando operativo dell’Esercito. Questa squadra ha operato nel completo segreto per otto anni in Afghanistan, sotto il comando Nato nell’ambito dell’Operazione “Sarissa” dell’International Security Assistance Force (ISAF). Il suo scopo è stato quello di colpire obiettivi selezionati e soprattutto “importanti”, come i capi talebani. Ora la stessa esperienza potrebbe ripetersi anche in altri paesi. Stando agli accordi che sono recentemente emersi, il governo italiano sarebbe pronto a schierare anche in Somalia e in Iraq una o più squadre con gli stessi compiti della Task Force 45. Anzi, è probabile che saranno gli stessi uomini che hanno già combattuto in Afghanistan.

Il ruolo fondamentale degli istruttori. Ma l’Italia non partecipa o parteciperà a conflitti contro il terrorismo di matrice islamica solo con uomini d’élite. Già in Afghanistan e in Iraq operano qualche centinaio di istruttori militari con il compito di addestrare le forze locali dei governi cosiddetti legittimi. Questi uomini – poco più di qualche centinaia – in caso di necessità possono combattere a fianco delle forze locali, conducendo e guidando anche alcune operazioni.

E se si dovesse intervenire il Libia? Le stesse forze potrebbero essere impiegate anche in Libia. Di fatto è probabile che già alcune squadre di qualche decina di uomini si muovano sul territorio libico, visti i consistenti interessi nazionali che sono oggi minacciati dai miliziani locali legati all’Isis. In ogni modo, una volta raggiunto il via libera da parte dell’Onu per un intervento di peace keeping o peace enforcing, il governo italiano potrebbe sperimentare la stessa formula utilizzata in Afghanistan. Il problema, tuttavia, potrebbe riguardare il numero di militari delle forze speciali schierabili. Secondo fonti interne, il numero degli uomini addestrati per questo tipo di missioni, è di circa 200 unità. Pochi, se si pensa che dovranno essere impiegati simultaneamente in Afghanistan, Iraq, Somalia e Libia. Forse sarà necessario rinunciare a qualcosa, come è già stato fatto nel Corno d’Africa, dove le unità navali italiane non partecipano più alle missioni anti-pirateria e sono state parzialmente rischierate nel Mediterraneo per un eventuale intervento in Libia.

Fonte: Diritto di critica

sabato 28 marzo 2015

La Cassazione ha assolto Raffaele Sollecito e Amanda Knox

Annullando senza formula di rinvio, ha capovolto la sentenza di condanna: sono assolti definitivamente


La Corte di Cassazione ha annullato senza rinvio le condanne a Amanda Knox e Raffaele Sollecito per l’omicidio di Meredith Kercher, una studentessa britannica morta a Perugia il primo novembre 2007. Knox e Sollecito erano stati condannati in appello dalla Corte d’assise di Firenze il 30 gennaio del 2014 rispettivamente a 28 anni e tre mesi e a 24 anni e nove mesi. La sentenza è arrivata poco prima delle 23, dopo che i giudici erano riuniti in camera di consiglio da diverse ore. Knox e Sollecito hanno sempre detto di essere innocenti e sono ora assolti, in quanto la Cassazione ha deciso di non ordinare il rifacimento del processo d’appello ma di annullarne la sentenza definitivamente. La Corte di Cassazione ha confermato i tre anni di condanna per calunnia ad Amanda Knox – un periodo che ha già scontato durante il periodo di carcerazione preventiva tra il 2007 e 2011.

Quello di Meredith Kercher è uno dei casi di cronaca nera più seguiti dalla stampa internazionale degli ultimi anni, anche per la nazionalità di Amanda Knox, statunitense, e quella della ragazza uccisa, britannica. Raffaele Sollecito e Amanda Knox, a quel tempo fidanzati, erano stati arrestati nel novembre del 2007 quattro giorni dopo che il corpo di Meredith Kercher, studentessa di 22 anni in Italia per Erasmus, era stato trovato nell’appartamento che condivideva con Amanda Knox. Il corpo era in camera da letto, coperto da un piumone. Venne stabilito che la ragazza era stata uccisa con un coltello da cucina sequestrato qualche giorno più tardi a casa di Sollecito. Sul coltello furono trovate tracce del DNA di Kercher e Knox. Oltre a Knox e Sollecito venne arrestato anche Patrick Lumumba Diya che gestiva un pub in cui lavorava Amanda. Dopo 14 giorni, il 20 novembre, Patrick Lumumba venne rimesso in libertà, ma lo stesso giorno fu arrestato Rudy Guede, ivoriano fermato in Germania: gli investigatori avevano individuato l’impronta di una sua mano su un cuscino accanto al cadavere della studentessa.

Il 18 gennaio del 2009 iniziò il processo in primo grado contro Knox e Sollecito che vennero condannati a 25 e 26 anni: le motivazioni della sentenza dicevano che Knox e Sollecito avevano ucciso spinti da un movente «erotico, sessuale, violento». Guede che nel frattempo aveva chiesto e ottenuto il rito abbreviato, venne condannato a 16 anni per aver «concorso pienamente»: la condanna sarà poi confermata dalla Cassazione nel dicembre del 2010. Il 24 novembre del 2010 ebbe inizio il processo di appello per Knox e Sollecito che furono assolti nel 2011 e scarcerati (erano stati in prigione quattro anni), dopo che una perizia indipendente aveva smontato quanto ipotizzato dalla polizia scientifica durante il processo di primo grado, mettendo in discussione tutti gli elementi che collocavano Knox e Sollecito sul posto in cui Kercher fu uccisa. Il 26 marzo del 2013 la Corte di Cassazione annullò quella sentenza, ordinando la ripetizione del processo e il suo trasferimento da Perugia a Firenze per «questioni procedurali». Poi sono arrivate le nuove condanne, i ricorsi dei loro legali e la sentenza di oggi della Cassazione. È abbastanza raro che la Cassazione annulli una condanna in maniera definitiva, senza rimandarla ad una Corte d’appello.

Amanda Knox era già stata condannata a 3 anni di carcere per avere ingiustamente accusato dell’omicidio Patrick Lumumba, estraneo ai fatti, durante le prime fasi delle indagini. La condanna risultava però già scontata, perché compresa nel periodo che Amanda Knox aveva passato sotto custodia cautelare in carcere, dal 2007 al 2011. Dopo l’assoluzione in appello Amanda Knox era tornata negli Stati Uniti. Dopo la notizia dell’assoluzione, la famiglia Knox ha diffuso un comunicato in cui Amanda ha scritto di essere: «Sollevata e grata per la decisione della Corte di cassazione». Raffaele Sollecito ha detto: «Finalmente posso tornare alla normalità». La famiglia Kercher non era presente all’udienza, ma il loro legale Francesco Maresca, ha detto che la sentenza: «È una sconfitta per il sistema giudiziario italiano».

Fonte: Il Post

Expo, il vero problema è arrivarci

Reportage dal cantiere, a un mese dal via: ce la si può fare, ma le infrastrutture sono carenti

Francesco Cancellato

Il cantiere di Expo 2015, a un mese dall’inaugurazione (Credits: GIUSEPPE CACACE/AFP/Getty Images) 

Sono stato a Expo 2015. Ospite, insieme ad altri cinquanta giornalisti, ho assistito all'inaugurazione di ”Waterstone”, il (bel) padiglione di Intesa San Paolo - il primo ad essere stato ufficialmente concluso e presentato alla stampa - officiata dall'amministratore delegato Carlo Messina, dall'architetto Michele De Lucchi, che l'ha progettato, e dell'onnipresente commissario di Expo Giuseppe Sala, che ha speso mezz'ora del suo tempo a rassicurare sull'effettivo avanzamento dei lavori.

Fin qui la fredda cronaca dell'evento, in cui è stata presentata una struttura realizzata con materiali interamente ecologici e riciclabili, che evoca gli elementi naturali e richiama i temi dello sviluppo sostenibile e del rispetto per l’ambiente, con una superficie esterna, ricoperta da 6.363 tavolette di legno di abete e da 3,5 chilometri di fibre e 168.000 punti led, e che all'interno richiama l’immagine «di un vecchio fienile, appoggiato su una base di calcestruzzo, interamente trasportabile al termine della manifestazione», spiega De Lucchi. 

Quel che più interessa, tuttavia, è il contorno, quel che si vedeva dalle finestre del padiglione della banca, quel che si poteva scorgere dai finestrini dell'autobus mentre attraversavano Milano prima e il Decumano poi, quel che si poteva estorcere, a mezza voce, a chiunque avesse addosso un caschetto e una pettorina. 

Partiamo da qui, dai caschetti e dalle pettorine. Seimila, dicono. Non li ho contati, ma raramente ho visto un cantiere così attivo, pieno di automezzi e di persone come quello di Expo 2015. A fianco a me, un addetto ai lavori, che di cantieri ne ha visti parecchi. Smorza i toni, insomma, ma ha l'effetto di rassicurarmi ulteriormente: «C'è tanta gente, c'è movimento, ma non c'è la frenesia di chi teme di non farcela. Vedrai che tutto sarà pronto in tempo. Anzi, non mi stupirei se da Expo non stiano volutamente usando prudenza nel dire che non tutto sarà pronto per l'inizio della manifestazione, per raccogliere ancora più applausi».

Mi guardo attorno e mi sembra impossibile che tutto quel caos possa trasformarsi nei rendering che si vedono sul sito ufficiale: «Tieni conto - aggiunge il mio interlocutore - che gran parte dei lavori avvengono fuori da qui. Gran parte dei padiglioni e la totalità degli allestimenti interni sono prefabbricati. Magari sono già pronti, o quasi, ma tu oggi non li vedi. Poi nel giro di tre, quattro giorni sarà improvvisamente tutto pronto». 

Se e quando andrete all'Expo, tenete in mente questa parola: prefabbricato. Già, perché la principale sensazione visiva di questa esposizione universale è quella di un villaggio di legno. Di legno è il padiglione di Banca Intesa. Di legno è il Padiglione Zero - anch'esso di De Lucchi - i padiglioni dei cluster, quello del Giappone, quello dell'Angola, quello del Vietnam e di molti altri paesi. A memoria, l'unica grande costruzione in cemento della zona - anzi, «bio-cemento», come tiene a precisare il cicerone di Expo che ci racconta l'area espositiva dal microfono dell'autobus, come una professoressa in gita - è il Padiglione Italia, che prefabbricato non è. E che, non a caso, è tra quelli maggiormente in ritardo, insieme a quello cinese, il più grande, che era anche finito al centro delle indagine della scorsa primavera.

Un primo vincitore di Expo c'è già, insomma: si chiama Rubner Objektbau, gruppo altoatesino specializzato in costruzioni prefabbricate in legno che è riuscita nell'impresa di portare a casa 25 milioni di lavori per Expo Milano 2015: quarantatré Padiglioni per quattro Cluster, i quali raggruppano circa 70 Paesi - una parte del Children Park e tre padiglioni per Slow Food. Non solo: a fine febbraio, Expo 2015 S.p.A. ha affidato alla Rubner un nuovo incarico per le sistemazioni esterne dei Cluster. Parere di chi scrive: se lo sono meritati. I padiglioni dei cluster erano in piedi già lo scorso settembre, in due sole settimane di lavoro. Chi è in quei padiglioni, insomma, sta già allestendo gli interni, così come molti altri che hanno fatto la scelta del legno.

C'è da dire anche, forse me ne sono dimenticato, che l'effetto è complessivamente bello. Rispetto a Shanghai, l'Expo di Milano è molto più piccola - è lunga 1,2 km, contro i 5,4 km di quella cinese - ma anche molto più piacevole alla vista e, soprattutto, meno pacchiana. Le architetture, anche quando sono ardite mantengono una certa sobrietà. Personalmente - ma vi dovete accontentare di un'opinione profana e parziale - il più bel padiglione di Expo 2015 sarà quello del Giappone, una struttura in legno, interamente realizzata a incastro, senza un chiodo.

Note dolenti? Una soprattutto. Per arrivare a destinazione, partendo in pullman dal centro di Milano, ci abbiamo messo quasi un'ora. Se avessimo preso la metropolitana, ci sarebbe toccato circa un chilometro e mezzo a piedi di passerella per arrivare agli ingressi. Se fossimo arrivati dalle tangenziali, non avremmo potuto utilizzare il grande ponte ad arco progettati dagli architetti Antonio Citterio e Patricia Viel. Non è ancora pronto e, nel cantiere, si sussurra che lo sarà tra mesi: «Hai presente Italia '90?», mi dice un caschetto giallo?

A questo si sommano i ritardi e le ripogettazioni al ribasso di altre opere infrastrutturali come la Rho-Monza - metà autostrada col nome di tangenziale nord tra Monza e Paderno Dugnano, metà superstrada da Paderno Dugnano alla fiera di Rho -, che avrebbe dovuto essere una delle principali strade di accesso a Expo e che invece sarà un’opera provvisoria, con quattro corsie, ma col limite di velocità a 60 all’ora. Per non parlare, ovviamente, della famigerata M4 - la linea metropolitana che avrebbe dovuto congiungere l'aeroporto di Linate col centro di Milano - che avrebbe dovuto essere pronta per Expo e che invece lo sarà tra qualche anno.

Sarà un problema, per i visitatori? Probabilmente sì, molto più dei pezzi di padiglioni non finiti e coperti dal camouflage. Se è vero, come dice Giuseppe Sala, che sono già stati venduti 8 milioni di biglietti - anche se altre indiscrezioni parlano di un numero di gran lunga inferiore - e che ci si aspetta che tale cifra superi presto i dieci milioni, dovremo aspettarci dalle 50 alle 100mila persone che ogni giorno si riverseranno su quell'area. Un quinto rispetto a Shanghai, certo. Ma, per dare l'idea, circa il doppio di quante ne entrano ogni anno al Salone del Mobile, nei giorni di punta. Senza dimenticare, e anche questo non è secondario, che ogni sera, circa 600 camion - 850 nei giorni di punta - dovranno accedere a Expo per ritirare la sporcizia e rifornire i padiglioni di cibo e bevande.

Cibo e bevande, peraltro, saranno il cuore dell'esposizione, e non solo per via del tema: «Esposizioni come quella di Milano, Siviglia o Hannover non sono come quella di Shanghai - riflette e mi congeda il mio interlocutore -, ha un bacino d'utenza locale, non certo globale. Se saremo capaci di attrarre centomila persone al giorno, chapeau. Io ne dubito. Ma se ciò accadrà sarà perché si diffonderà la voce che a Expo si mangia gratis. Che è vero, nel senso che gli assaggi saranno parecchi, ma ci saranno anche ristoranti a pagamento. E agli italiani piace mangiare bene». Alla fine, come ogni grande evento che si rispetti, sarà il buffet a fare la differenza». Sempre che non si rimnga imbottigliati nel traffico, ovviamente.

Fonte: Linkiesta.it

venerdì 27 marzo 2015

Yemen nell’abisso della guerra civile


Difficile capire esattamente quello che sta accadendo in Yemen, paese che da tempo è letteralmente nel caos, diviso da lotte settarie e dall’insorgenza jihadista. Secondo gli ultimi sviluppi però la situazione sarebbe precipitata molto velocemente negli ultimi giorni dopo che ai terribili attentati kamikaze rivendicati dall’Isis contro la comunità sciita di Sanaa che hanno provocato almeno 130 morti. E infatti sembra proprio che lo Yemen sia stato travolto da una vera e propria ondata di lotte settarie che potrebbero portare a una pericolosa escalation militare.

Le milizie sciite Houti infatti hanno effettuato un vero e proprio colpo di mano nella capitale Sanaa costringendo il presidente Hadi a riparare ad Aden, nel sud del Paese, da dove nei giorni scorsi ha continuato a lanciare comunicati bellicosi, rinunciando di arrendersi e rivendicando di essere l’unica autorità legittima dello Yemen. I ribelli Houthi però non hanno fermato la loro avanzata e Hadi è stato costretto nelle scorse ore a lasciare il palazzo presidenziale in una fuga precipitosa che, secondo fonti locali, lo avrebbe portato in Gibuti. I ribelli Houthi però avrebbero comunque messo le mani sul ministro della Difesa di Hadi e sembra che il presidente yemenita abbia scritto di suo pugno alla comunità internazionale prima di fuggire per invocare un intervento militare degli altri Stati del Golfo, in primis l’Arabia Saudita che, guardacaso, ha subito allertato l’esercito al confine. Cosa succederà nelle prossime ore è difficile a dirsi dal momento che l’appello di Hadi alle Nazioni Unite richiede l’istituzione di una “no-fly zone” per impedire agli Houthi di utilizzare le basi aeree su cui hanno messo le mani. Insomma una scontro settario tra sciiti e sunniti che sembra riguardare da vicino l’Arabia Saudita che non avrebbe alcuna intenzione di tollerare che gli Houthi egati a doppio filo con Teheran mettano le mani sul Paese. Intanto è anche difficile comprendere quanto lo Stato Islamico sia effettivamente riuscito a stabilirsi nel Paese, quello che sembra invece sicuro (fonte Al Arabiya) è che gli americani hanno abbandonato lo Yemen in fretta e furia e che una loro base non lontano da Aden sarebbe finita nelle mani dei ribelli Houthi, anche se chiaramente dal Paese arrivano notizie frammentarie di cui è difficile controllare l’attendibilità.

Il terzo incomodo tra le truppe fedeli ad Hadi, sunnite, e i ribelli sciiti Houthi sono proprio i jihadisti di Al Qaeda e dello Stato Islamico, tra i quali peraltro non mancherebbero le rivalità, particolarmente accese proprio in Yemen. Secondo il Washington Post inoltre il Pentagono avrebbe perso di vista qualcosa come 500 milioni di dollari di forniture militari che sarebbero finiti nelle mani sbagliate. Si parla di almeno 200 fucili d’assalto M-4, 200 pistole Glock, ma anche strumentazioni di vario tipo, giubbotti antiproiettile, kit per visione notturna, 2 aerei Cessna, 4 elicotteri Huey II e molto altro. Tutte armi scomparse nel nulla che in passato erano state inviate dalla Casa Bianca al governo dello Yemen. In passato infatti gli Usa avevano utilizzato lo Yemen come base di appoggio per gli attacchi con i droni, ma dopo che la situazione nel Paese è degenerata ecco che gli Usa hanno abbandonato l’ambasciata di Sanaa a febbraio, rimpatriando anche i navy seals e i berretti versi che si trovavano nel Paese ufficialmente come addestratori delle forze regolari. In questa situazione frammentaria e drammatica ecco quindi che si aprono diversi scenari, tutti di guerra, che potrebbero portare il caos a livello regionale in tutti i paesi del Golfo, facendo ulteriormente esplodere la violenza settaria tra sciiti e sunniti.

Fonte: OltremediaNews

giovedì 26 marzo 2015

Il trasporto aereo low cost è INAFFIDABILE E INSICURO


La prima tragedia nei voli low cost, evidenziano molti media dopo lo schianto dell'Airbus 320 della GermanWings. E fa più impressione se si pensa che si tratta di una “sottomarca” della Lufthansa, la più importante delle compagnie di bandiera Europea, considerata tra le più serie anche nella gestione della sicurezza sui propri mezzi.

In attesa delle analisi della scatola nera, peraltro danneggiata nello schianto, è difficile fare ipotesi tecnicamente valide delle ragioni dell'incidente. Anche i piloti più espsitecomerti consultati in queste ore da tutti i media si tngono sulle generali, evidenziando al massimo l'età non proprio verde dell'aereo (24 anni). Ma è notizia di ieri sera che il personale di volo di GermanWings si rifiuta di volare, costringendo così la compagnia a cancellare oltre 30 voli per “incompletezza degli equipaggi”. Evidentemente piloti e assistenti di volo hanno messo in fila una serie di “segnali” raccolti nel corso del tempo (avarie più o meno serie, incidenti evitati, disfunzioni varie) e considerano lo schianto di ieri come il punto di arrivo di una situazione ormai ingestibile.

L'assenza di incidenti tragici era uno dei vanti delle compagnie low cost, anche se difficilmente qualcuno provava a spiegarne le ragioni. Eppure gli aerei di tutte queste compagnie volano più frequentemente della media, fino al caso limite di Ryanair che non lascia mai più di venti minuti un velivolo fermo (con le hostess a fare le pulizie di corsa, dopo che l'altoparlante ha invitato ai passeggeri a eliminare il più possibile i rifiuti prodotti).

Naturalmente anche le società low cost sono obbigate a fermare gli aeromobili per i controlli di serie, dopo un tot di ore di volo (diverse a seconda dei modelli e dell'anzianità). Ma quando sono in servizio è molto difficile che ci siano controlli e manutenzione approfonditi, a meno di avarie gravi.

È un modello di organizzazione del lavoro, insomma, che minimizza i tempi di sosta sia per il personale e inevitabilmente porta a sottostimare i piccoli segnali stress umano e meccanico.

Ciò nonostante per venti anni – da quando le compagnie low cost hanno fatto la loro comparsa sul mercato del trasporto aereo – non c'erano stati incidenti di questa gravità. La ragione è in fondo semplice: hanno tutte iniziato, nel continente europeo, con aerei nuovi di fabbrica. Che soltanto ora cominciano a mostrare i segni dell'usura.

Lufthansa, in questi mesi, ha dovuto affrontare diversi problemi seri nella sua flotta. Lo scorso 5 novembre del 2014 un altro Airbus, della compagnia “madre”, un A321 in volo tra Bilbao e Monaco di Baviera, è stato vicino a un grave incidente per il funzionamento difettoso di alcuni sensori. Ma i sensori sono anche un elemento centrale nel calcolo delle variabili di un sistema di guida sempre più computerizzato. Se, come può accadere più facilmente nei mesi invernali, i sensori vengono ricoperti dal ghiaccio, ecco che i valori chiave risultano sballati, impegnando l'aereo in manovre automatiche altrettanto sballate che solo la perizia e la tempestività dei piloti possono a volte correggere.

E infatti l'inchiesta condotta dal giornale tedesco Der Spiegel ha ricostruito il mancato incidente di novembre, individuando proprio nel ghiaccio sui sensori il responsabile della rapida perdita di quota (mille metri al minuto, con la cloche dei piloti bloccata) dell'A321. Per riprendere il controllo del velivolo i piloti hanno dovuto spegnere il computer di bordo e volare “a vista”.

Quell'episodio ha convinto Lufthansa a cambiare i sensori su tutti gli 80 velivoli della famiglia A320. Ciò nonostante, l'aereo caduto ieri ha perso quota esattamente con la stessa velocità (900 metri al minuto) e senza che i piloti riuscissero a lanciare neanche il normale mayday.

Ora vengono fuori altri – numerosi – episodi in cui i portelloni hanno presentato problemi, carrelli che non rientravano, ecc. Tutti segnali di usura dei mezzi e dei materiali che però non hanno portato a fermare i velivoli interessati. Non è difficile capire perché, nella logica dell'economia low cost...

Il problema è il contagio, però. La concorrenza low cost si ripercuote inevitabilmente anche sulle compagnie più grandi, che devono-vogliono comprimere i costi per mantenere-aumentare i tassi di profitto. Che sia addirittura Lufthansa a mostrare la corda è più che una dimostrazione. Le low cost hanno infatti raggiunto una quota di mercato del 32%, abbastanza da convincere tutti a imitarle.

Ma non è semplice. Il modello di business inventato a suo tempo da Ryanair si basa infatti non soltanto sulla contrazione dei salari per i dipendenti, ma sul "cofinanziamento" pubblico-privato. Ovvero sui consorzi locali disposti a finanziare la compgnia low cost perché usi l'aeroporto da sviluppare. Orio al Serio, in Italia, e il consorzio bergamasco che lo sostiene, ne sono l'esempio più chiaro.

Ma è difficile che le grandi compagnie di bandiera, quelle che si sono spartite il mercato oltre venti anni fa decretando - governo italiano consenziente - la scomparsa di Alitalia come vettore globale - possa no seguire lo stesso modello. A loro, dunque, non resta che la semplice contrazione dei costi. Con tutti i rischi che ciò comporta per la sicurezza.

Come diceva quel tale economista, "non esistono pasti gratis". Tanto meno quando ci si stacca da terra....

Gerd Dani

Fonte: FREE ITALIA

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mercoledì 25 marzo 2015

Isola dei Famosi: la trasmissione più brutta dell’anno


L’isola dei Famosi più brutta che si possa ricordare. La più volgare, senza dubbio. La più voyeur che sia passata sui nostri schermi. Ma di un voyeurismo diverso da quello al quale ci siamo abituati in questi anni di tv trash, quello tipico da buco della serratura; qui ci troviamo davanti ad una vera e propria esibizione di corpi e cattivo gusto.

Vittorio Zunino Celotto/Getty Images

Un’edizione quella del 2015, in cui gli autori dell’isola dei famosi hanno deciso di “ravanare” direttamente nel cestino della spazzatura “elevando” il trash a programma televisivo di quattro ore.

Il porno attore, la spiaggia dove si vive nudi, le bellocce con le tette rifatte, le battute volgari e i doppi sensi a go go.

Ieri sera alle 21.50 si parlava allegramente di disfunzione erettili (riferite a Rocco Siffredi), il tutto sollecitato da una Alessia Marcuzzi, che è ormai un pallido ricordo di quella simpatica conduttrice che abbiamo imparato a conoscere alle Iene o a Fuego!.

Non un’idea in questo reality, in cui tutti vengono definiti “vincitori morali“, da Alvin, l’inviato che nessuno conosce, a Rocco Siffredi dilaniato dai rimorsi per non essere stato un buon marito, e che ora annuncia di essere pronto a lasciare il Porno. Talmente poco credibile, in questo ruolo il nostro Rocco, che i televotanti hanno sbattuto fuori dall’Isola non una ma ben due volte.

Probabilmente il peggior programma della stagione televisiva questa Isola dei Famosi, talmente brutta, che avremmo preferito vedere la sessantaseiesima edizione del Grande Fratello non andata in onda.

Eppure, dato d’ascolto alla mano, l’Isola è stato un successo di pubblico. Inspiegabile tanto successo in mezzo a cotanta bruttezza. Ci viene da pensare – visto anche il successo del Sanremo di Carlo Conti, che i telespettatori della tv generalista italiana si stiano abituando al brutto. Al falso. Allo stereotipato. Sostituendo la leggerezza con il pecoreccio, la spensieratezza con il pressappochismo, l’evasione con la superficialità.

Perché ci si può divertire con una tv popolare ma di qualità come quella di Tale e Quale, ci si può rilassare e informare con la tv di qualità ma non seriosa come Gazebo, ci si può svagare con Italia’s got Talent, senza rimestare nella spazzatura come si è scelto di fare.

Ecco, preferiremmo una tv con una qualche idea. In questo caso non se ne è vista traccia

Fonte: Giornalettismo

martedì 24 marzo 2015

Una legge per uccidere i gay

La proposta è stata depositata da un avvocato della California, e nonostante la sua incostituzionalità sembra difficile da fermare

di The Post Internazionale


Matt McLaughlin, avvocato della contea di Orange, in California, ha pagato il 26 febbraio la tassa di 200 dollari per poter presentare il Sodomite suppression Act (l’atto per la soppressione dei sodomiti) e sottoporla alla volontà degli elettori nel novembre 2016.

Questa proposta di legge dello stato della California prevede l’uccisione “ una pallottola in testa o qualsiasi altro metodo si convenga” per qualsiasi persona che ne tocchi un’altra del proprio stesso sesso per gratificazione sessuale. Qualora lo stato non eseguisse la condanna entro un anno, qualsiasi cittadino potrebbe compiere la condanna. In altri termini, si legalizzerebbe l’omicidio.

La proposta di legge prevede inoltre una multa di un milione di dollari, fino a 10 anni di detenzione e l’espulsione permanente dalla California per chiunque difendesse i diritti dei gay di fronte a un pubblico di minori.

La proposta difficilmente potrà diventare una legge, in quanto incostituzionale, ma, al tempo stesso, sembra sia difficile fermarne il processo referendario. Infatti, il procuratore dello stato della California deve garantire il diritto di ogni cittadino a proporre qualsiasi legge da sottoporre agli elettori, comprese le più assurde e violente.

Questo fatto è stato stabilito dalla Corte Suprema della California per evitare la possibilità che i procuratori affossino una proposta di legge per ragioni politiche. Tuttavia, come dimostra il caso del Sodomite suppression Act, viene garantita anche la possibilità di proporre leggi incostituzionali.

Intorno a questa vicenda è nato un ampio dibattito riguardo le regole per proporre i quesiti referendari. Ad esempio, secondo il presidente della California Voter Foundation, Kim Alexander, la tassa per presentare le proposte di legge, fissata dal 1943 a 200 dollari, è troppo bassa, e “andrebbe aumentata a 500 o mille dollari”, come ha riferito al Sacramento Bee.

Fonte: The Post Internazionale

lunedì 23 marzo 2015

Il dramma di Vanuatu, già dimenticato

Nell'arcipelago del Pacifico ora si teme una vera e propria emergenza alimentare


Rossella Assanti

Dopo la catastrofe, la distruzione. Così il ciclone che si è abbattuto il 13 e il 14 marzo sulle Isole di Vanuatu, piccolo arcipelago del sud-ovest del Pacifico lascia una scia di devastazione. Piomba il grigio su quello che era definito il “luogo più felice del mondo”. Il ciclone soprannominato “Pam” passa tragicamente alla storia come il più grande disastro naturale della storia del Pacifico radendo al suolo più della metà delle case, delle scuole e dei servizi sanitari.

L’Unicef in azione. Fa un rumore assordante il post tempesta, la tragedia, il vuoto, i morti che ad oggi non riescono a contarsi, baracche andate in frantumi, popolazione senza più una casa, palme e alberi sradicati dal suolo e caduti su tetti e strade. Quasi ormai assente l’acqua potabile, la maggior parte delle comunicazioni sono interrotte e il bilancio delle vittime si avrà solo una volta ripristinate. “Il più devastante evento climatico. 132mila persone con urgente bisogno di assistenza umanitaria, tra cui ben 54mila bambini”, spiega l’Unicef. “Lavoriamo con le autorità dei National Disaster Management Offices (NDMO) di Vanuatu, delle Figi e delle Isole Salomone, per offrire assistenza umanitaria di emergenza, in particolare nei settori dell’acqua e dei servizi igienici, della nutrizione, della salute, dell’istruzione e della protezione dell’infanzia.”

Si teme un’emergenza alimentare. Domenica scorsa diversi aerei francesi, australiani e neozelandesi, sono atterrati all’aeroporto della capitale Port Villa portando aiuti di generi alimentari. Si teme una carestia, una vera e propria emergenza alimentare. Le ong non riescono a giungere attualmente nelle isole più decentralizzate e ci vorranno giorni per raggiungere e distribuire i viveri a tutti i villaggi. Di fronte a questo dramma la voce rotta dal dolore e dalla commozione del Presidente delle Vanuatu Baldwin Lonsdale – il quale si trovava in Giappone per una conferenza delle Nazioni Unite sull’emergenza dei cambiamenti climatici – si fa portavoce di una triste realtà: “Il ciclone Pam è un mostro che ha spazzato via il nostro sviluppo economico”.

L’allarme in Nuova Zelanda. Nel frattempo la Nuova Zelanda corre ai ripari e si prepara ad affrontare il ciclone che va spostandosi lungo la Costa Orientale. La tempesta ha perso d’intensità ma desta comunque preoccupazione. Circa cento persone sono state evacuate dalle zone costiere e l’allarme è stato diramato anche nelle Isole Chatham ad est della Nuova Zelanda.

Ora non resta che cercare di ricostruire e arginare quella che si teme assumerà le forme di una grande carestia.

Fonte: Diritto di critica

domenica 22 marzo 2015

“Scusa”: l’esperimento sul razzismo in rete (Video)


Si tratta di un esperimento video dedicato a promuovere il sito www.svetimageda.lt lanciato di recente (solo in lituano). Il sito web è un “manuale” digitale, pieno di consigli su come tutti noi possiamo reagire al razzismo, omofobia, altro tipo di bullismo, abuso e discorsi di odio on line, nei mass media, nelle strade, nelle scuole, lavoro, etc.

L’agenzia lituana che ha organizzato l’esperimento racconta: “Come abbiamo fatto a condurre l’esperimento? Abbiamo invitato le persone (attori non professionisti) a partecipare ad un casting per un annuncio. In anticipo, abbiamo dato non specifiche su ciò che riguardava l’annuncio. Quando sono arrivati, abbiamo chiesto loro di aspettare un secondo nella nostra sala d’attesa. Non avevano idea che la sala d’attesa non fosse reale, e sono stati ripresi con le nostre telecamere nascoste.”

Il ragazzo di colore finge di essere appena arrivato in Lituania e chiede alle persone di leggere quanto gli hanno scritto (in lituano) sulla propria pagina facebook. Si tratta di messaggi razzisti: “Scimmia”, “Tornatene in Africa”, e tanti altri. La reazione di chi legge e dovrebbe tradurre è spiazzante. I “traduttori” si scusano e si sentono in difetto, hanno vergogna di leggere quei messaggi.



Sui social Network sono tantissime le pagine e i gruppi razzisti, omofobi e portatori di un pensiero d’odio. Molte volte chi esprime tali “sentimenti” si richiama al principio della libertà di manifestazione del pensiero. Ma il limite che la libertà d’espressione può subire in caso di manifestazioni razziali deve essere letto, almeno inizialmente, con lo sguardo rivolto al passato ed in particolar modo al ventennio fascista che portò a gravi limitazioni alla libertà di espressione e all’introduzione del nostro ordinamento di un corpus legislativo che istituiva la definizione giuridica di “appartenente alla razza ebraica” e assoggettava tali persone a un elevato numero di restrizioni fino ad escluderle dalla vita sociale ed economica del Paese. All’epoca vi furono tante campagne di diffusione delle idee razziste, attraverso la distribuzione pubblica di immagini, opuscoli o materiali diversi inerenti la discriminazione razziale. L’”arte dell’odio” è stata diffusa ampiamente attraverso le colonne della rivista “La Difesa della razza”, che iniziò le sue pubblicazioni il 5 agosto 1938. Il Ministro dell’educazione, Bottai, in una circolare, invitò i rettori delle università e i direttori delle scuole superiori a divulgare tale rivista, assimilandone i contenuti.106 Ma altre riviste dell’epoca diffondevano tale odio: “Lo Stato”, “Il diritto Razzista” e “La nobiltà della stirpe”.

Oggi, simili riviste violerebbero la legge Scelba e prima ancora i princìpi dello Stato costituzionale.
Nel corso degli anni si è sviluppata un’azione di sensibilizzazione dei pericoli che possono derivare dal divulgarsi di un pensiero razzista e fascista. Anche se stiamo constatando come parte della classe politica e dirigente italiana non si nasconde difronte a proclami razzisti.

Con il decreto legge 26 aprile 1993, n.122 convertito con legge il 25 giugno 1993, n.205 (c.d. Legge Mancino), si giunge ad una svolta estremamente importante nella regolamentazione delle manifestazioni di odio razziale. È infatti con questa normativa che il legislatore inizia ad ampliare l’area delle illiceità penali, introducendo non solo la commissione, ma anche l’incitamento alla commissione di atti (anche non violenti fisicamente) di discriminazione razziale, etnici, religiosi o nazionali. Intenzione manifesta del nuovo intervento legislativo è dunque la volontà di ampliare ed articolare in maniera sostanzialmente diversa rispetto al passato l’intervento repressivo. L’oscuramento di un sito e, quindi, l’impedimento alla diffusione delle idee, è finalizzato dalla necessità di impedire la reiterazione di un presunto reato. Spesso, però, il reato è strettamente inerente ad un singolo messaggio, non a tutto il contenuto del sito. In sostanza, tali provvedimenti possono presentare il vizio di essere sopra dimensionati rispetto al contenuto, mancando un’indicazione di metodo da parte del legislatore rispetto ad un mezzo che, ai tempi della formulazione dei nostri codici, era inesistente.

Bisogna notare come gli obiettivi di tutela a cui si riferiva la c.d. Legge Mancino non sono stati adeguatamente raggiunti. Lo dimostra lo scarso numero delle sentenze pronunciate sulla base della legge 205/1993. La stessa Commissione europea contro il razzismo e l’intolleranza (ECRI) afferma: “Benché esistano casi di applicazione di tali disposizioni, viene segnalato da certe fonti che i casi portati dinnanzi ai tribunali non riflettono il numero reale degli atti razzisti verificatisi in Italia. Ciò si può spiegare in parte con le difficoltà iniziali di far conoscere la legislazione. In particolare, l’ECRI ritiene che dovrebbe venir migliorata l’applicazione delle disposizioni secondo le quali la motivazione razzista costituisce una circostanza aggravante, come pure di quelle relative all’incitamento alla discriminazione e alla violenza per motivi razziali, etnici, religiosi o nazionali. A tal fine l’ECRI incoraggia le autorità italiane a predisporre una formazione supplementare in materia per tutte le persone che operano nel quadro dell’ordinamento giudiziario penale, che si tratti di agenti di polizia, di ufficiali del pubblico ministero, oppure di giudici, al fine di sensibilizzarle maggiormente sulla necessità di lottare in maniera incisiva contro i reati commessi per motivi razziali e contro l’incitamento alla discriminazione e alla violenza razziale. Nel contempo si dovrebbero prendere in esame i mezzi da mettere in atto per incoraggiare le vittime di tali atti a denunciarli”.

Purtroppo internet sembra essere un mondo a sè. Provate a segnalare a Facebook un gruppo palesemente razzista, spesso e volentieri la risposta, relativamente ai controlli effettuati dal social network, sarà negativa. Non si può lasciare la regolamentazione legislativa in mano ai vertici di un social network su tematiche che formano le prossime generazioni, purtroppo troppo spesso collocate davanti ad un pc.

Fonte: OltremediaNews

sabato 21 marzo 2015

Cosa sta succedendo nello Yemen


  • È salito a 142 morti il bilancio delle vittime di tre bombe esplose in due moschee sciite di Sanaa, la capitale dello Yemen. Le due moschee erano frequentate dai leader dei ribelli sciiti houthi, almeno due dei quali sono rimasti feriti. Gli attacchi sono stati rivendicati dal gruppo Stato islamico.
  • Da gennaio Sanaa è sotto il controllo degli houthi, accusati di essere alleati dell’ex presidente Ali Abdullah Saleh.
  • Gli houthi hanno conquistato la capitale nel settembre del 2014, costringendo il governo a dimettersi.
  • Nel gennaio del 2015 hanno messo agli arresti domiciliari il presidente Abd Rabbo Mansur Hadi e l’hanno sostituito con il loro leader Abdel Malik al Houthi.
  • Hadi è fuggito ad Aden, ex capitale dello Yemen del Sud.
  • Il 19 marzo alcuni aerei hanno bombardato il palazzo presidenziale di Aden.

Al Jazeera

Fonte: Internazionale

venerdì 20 marzo 2015

La scomparsa delle banconote stampate


Tra meno di 10 anni la carta stampata scomparirà per sempre. Può sembrare un'affermazione bizzarra e forse fin troppo futuristica ma guardandoci intorno ci renderemo conto che è inevitabile. La maggior parte delle cose che compriamo ormai siamo sempre più orientati a comprarle su Internet. Sia perché è più facile fare dei confronti con i prezzi e sia perché si ha la comodità tramite un click di comprare qualcosa e vedercelo spedire a casa. Questo vantaggio esiste specialmente per i prodotti tecnologici. Un utente medio nel giro di una giornata può farsi un’idea completa su quale prodotto acquistare grazie soltanto alle recensioni e video recensioni dei prodotti, per non parlare del feedback che ogni prodotto ha rispetto alla soddisfazione o non soddisfazione di chi l’ha già acquistato. Si pensi che secondo un recente studio le vendite via smartphone sono pari a 1.2 miliardi di euro nel 2014, che insieme a quelle via tablet arrivano a coprire il 20% dell’e-commerce. Tuttavia secondo www.osservatori.net la maggior fetta di mercato nelle vendite online lo prende il turismo con il 40%, seguito dal settore dell’abbigliamento con il 14%, l’informatica ed elettronica con il 12% e altri settori che coprono il restante 34%. È verosimile immaginare come tramite pochi passaggi sulla pagina Facebook di un negozio, hotel e simili una persona possa pagare con il suo portafoglio virtuale fatto ad esempio di “facemoney”.

Pensate che rivoluzione ci sarà quando Facebook, Google, Twitter e altri famosi social network permetteranno di fare pagamenti tramite un messaggio, e-mail o tweet, rispettivamente. Non stiamo parlando di bitcoin ma di soldi veri e propri. Stiamo parlando di un sistema che farà sparire completamente il concetto di moneta stampata. Si pensi che Google permette già pagamenti elettronici per gli utenti inglesi e Facebook ha annunciato che sarà disponibile a breve. Il passaggio sarà velocissimo. Basta pensare che fino a 10 anni fa Facebook non esisteva e in questi 10 anni ha fatto sì che sia normale avere centinaia di foto personali condivise con il mondo, migliaia di "amici" virtuali, mandare messaggi a chiunque e senza limiti. Un villaggio globale. Questo villaggio pensate che non si adatti in maniera altrettanto veloce all'adozione di una moneta completamente elettronica? I bambini che oggi hanno 2/3 anni vedranno darsi la paghetta dai nonni digitali con un messaggio. È il futuro ed è inevitabile.

Carmine De Fusco

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giovedì 19 marzo 2015

In ricordo di don Peppe Diana


Sono trascorsi 21 anni dall'uccisione di don Peppe Diana, il parroco assassinato per mano della camorra. Era il 19 marzo del 1994. Don Peppe aveva deciso di rimanere a Casal di Principe, dove portava avanti una lotta ai clan fatta di emancipazione culturale e risveglio delle coscienze. Gli spararono in faccia. Fu la camorra a ucciderlo. Sognava una Casal di Principe non più in ginocchio davanti alla camorra, in un posto dove anche certi sogni sono proibiti.

'Per amore del mio popolo non tacerò' (don Peppe Diana)

mercoledì 18 marzo 2015

Riflessioni sull'omicidio di David Raggi


Giovedì 12 marzo un giovane ragazzo di 26 anni,David Raggi, è stato brutalmente aggredito e ucciso dal 29enne Amine Assaoul, a Terni. Su tale vicenda c'è bisogno di fare alcune riflessioni.
Innanzitutto, è bene partire dal fatto che ovviamente la cosa più importante di tale tragedia NON è la nazionalità di vittima e carnefice, in quanto le brave persone e i criminali esistono da tutte le parti, e a riguardo di ciò è molto interessante la notizia che diversi esponenti della comunità marocchina della città, alcuni amici di famiglia dello stesso David, hanno espresso subito solidarietà con il padre e il fratello della vittima. Detto questo, passando alla questione dell'immigrazione, ovviamente il problema non è la stessa in sé, come causa di questo e altri episodi, si deve dire che la pessima gestione di essa nonché la latitanza della giustizia che vige in Italia, sono da prendere in considerazione.

Difatti, il carnefice, già sbarcato ad ottobre a Lampedusa e in seguito allontanato per diversi reati, aveva deciso di ritornare in Italia come "rifugiato politico" ma dopo che la sua richiesta di domanda era stata respinta, aveva fatto ricorso e quindi era liberamente tornato nello Stivale per continuare a delinquere, e ciò rappresenta una delle tante storie di pessima gestione dell'immigrazione e della giustizia che hanno garantito e garantiscono a certi personaggi, come questo Assaoul, Kabobo e tanti altri, di parassitare e di commettere crimini e uno "Stato" che è incapace di tutelare i cittadini onesti (sia italiani che STRANIERI), e questa non è demagogia, ma pura realtà.

Tali crimini e altre vicende tragiche simili possono essere evitati, non con l'odio o con la spicciola demagogia fascio-leghista, ma semplicemente cercando di far funzionare la giustizia e mettendo fine a una politica orientata a difendere privilegi e potere dei gruppi e degli individui che fanno del parassitismo e della criminalità (di tutti i tipi) a scapito dei cittadini onesti, italiani e stranieri.

Su ciò, sarebbe ora anche di finirla con il pensiero tanto diffuso che solo se un'italiano commette reato contro un'immigrato è razzismo ed è (giustamente) da condannare, mentre se avviene il contrario il carnefice si "deve capire" e la deve passare liscia, insomma i soliti discorsi retorici di aria fritta fatti spesso da certi politici.

In tutti e due i casi si tratta di deprecabili atti di violenza da condannare senza se e senza ma, e si deve fare in modo di costruire una società realmente libera e funzionale per cittadini italiani e stranieri, rifiutando discorsi di "xenofobi" e la "guerra tra poveri" che si vuole innescare, e che a quanto pare è già iniziata.

Gerd Dani

Fonte: FREE ITALIA

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martedì 17 marzo 2015

La bufala delle arance libiche contaminate dal virus HIV

Sta circolando molto su Facebook un'immagine allarmista che non ha niente di vero e neanche di verosimile 


Sta circolando molto su Facebook un post con un’immagine di alcune arance tagliate a spicchi con quelle che sembrano essere delle venature rosse. Il messaggio scritto sopra alla foto – tradotto malamente in italiano, perché il post originale era scritto in arabo – spiega che le arance, importate dalla Libia, sarebbero state bloccate alla dogana algerina perché infettate col sangue di un malato di HIV (virus dell’immunodeficienza umana).


La stessa immagine era già stata condivisa l’anno scorso su un forum con la stessa versione, ma non aveva avuto così risalto sui social media. Senza considerare il fatto che la fonte da cui arrivano queste immagini è sconosciuta, la notizia è chiaramente una bufala. Innanzitutto non ci sono conferme da qualsiasi fonte di anche minima affidabilità. Ma soprattutto, anche se le arance fossero state effettivamente contaminate con sangue infetto con il virus dell’HIV, non ci sarebbe pericolo di contaminazione: è noto che il virus HIV non si può prendere per via aerea o attraverso il cibo, perché sopravvive per un tempo brevissimo fuori dal corpo umano.

Inoltre, come sa chiunque mangi di tanto in tanto un’arancia, è piuttosto normale che ci siano venature di colori diversi.

Fonte: Il Post

Dolce e Gabbana e i figli dei gay

Una frase di uno dei due stilisti omosessuali sui figli delle coppie gay ha causato un notevole strascico di polemiche

di The Post Internazionale


"Non mi convincono i figli della chimica, i bambini sintetici, uteri in affitto, semi scelti da un catalogo": queste dichiarazioni di Domenico Dolce, stilista che insieme al collega Stefano Gabbana forma il celebre brand di moda Dolce & Gabbana, uscite sull'ultimo numero del settimanale Panorama, hanno alzato una notevole quantità di critiche.

Due stilisti che, oltre alla professione e al brand, condividono anche il fatto di essere omosessuali, fatto che ha contribuito a scatenare una serie di pesanti critiche verso questa affermazione.

"Come vi permettete di dire che i miei meravigliosi bambini sono sintetici?" ha replicato infatti il cantante britannico Elton John, anche lui omosessuale, e padre di figli nati grazie alla fecondazione in vitro. Lo stesso cantante ha inoltre lanciato l'hashtag #boycottDolceGabbana, invitando dunque a boicottare il marchio dei due stilisti.

A Elton John sono seguite le critiche di numerose altre personalità, come quelle della cantante Courtney Love, che ha dichiarato sul suo account Instagram che ha raccolto tutti i suoi vestiti Dolce & Gabbana e che ha intenzione di bruciarli.

In risposta a queste critiche, Stefano Gabbana ha riferito in una nota ufficiale che i due credono fortemente nella democrazia e hanno detto il loro modo di sentire la realtà senza voler criticare in alcun modo le scelte degli altri.

Domenico Dolce, autore della frase della discordia, invece, ha riferito che è siciliano e cresciuto in una famiglia tradizionale, fatta di una madre, un padre e i figli, e che non per questo vuole criticare l'esistenza di altre realtà.

Fonte: The Post Internazionale

lunedì 16 marzo 2015

Onorevoli ripensamenti. In 2 anni 200 cambi di partito

È un diritto costituzionale. I 5 Stelle hanno perso quaranta parlamentari, saldo positivo per il Pd

Marco Sarti

Afp/Getty Images

L’ultimo ad aver cambiato idea è Massimo Corsaro. Deputato di Fratelli d’Italia, dopo aver contestato invano l’alleanza con la Lega di Matteo Salvini, alla fine ha preferito cambiare aria. Salutando i vecchi colleghi e trasferendosi al gruppo misto. Nulla di scandaloso, Corsaro è in buona compagnia. Dall’inizio della legislatura sono quasi duecento i deputati e i senatori che ci hanno ripensato. Una volta eletti, hanno cambiato idea e sono passati con un altro partito. Intanto la geografia parlamentare è in continua trasformazione. E se in due anni gli elettori del Movimento Cinque Stelle hanno visto lentamente ridursi il gruppo dei propri rappresentanti, c’è anche chi può festeggiare. Matteo Renzi, ad esempio. Da quando il segretario democrat è diventato presidente del Consiglio, il Partito democratico si è trasformato in un incredibile polo di attrazione. E tra Camera e Senato ha già visto crescere il numero dei propri parlamentari di quasi quaranta unità. Miracoli del trasformismo.

Si parlava della lunga emorragia grillina. Nel giro di due anni i pentastellati hanno perso trentasei parlamentari. Non tutti sono andati via spontaneamente. Molti hanno cambiato idea strada facendo, altri sono stati espulsi dai vertici del movimento. Vittime delle epurazioni a cinque stelle. Dall’inizio della legislatura è stato uno stillicidio continuo, senza un attimo di sosta. Il primo a lasciare è stato il senatore Marino Mastrangeli. Se n'è andato il 30 aprile 2013, a pochi giorni dalle elezioni. Qualche settimana dopo lo hanno seguito i due deputati Alessandro Furnari e Vincenza Labriola. Un addio dopo l’altro, i gruppi grillini hanno perso sensibilmente consistenza. Gli ultimi in ordine di tempo sono i nove deputati che a fine gennaio scorso si sono trasferiti al gruppo misto, dove hanno creato la componente "Alternativa Libera”. Forse non è il caso di scomodare i dieci piccoli indiani di Agatha Christie, ma certo la tendenza è inquietante. A inizio legislatura i parlamentari grillini erano 163, ora ne sono rimasti 127.

Per un gruppo che dimagrisce, un altro aumenta notevolmente di peso. È il Partito democratico. Da inizio legislatura a oggi i parlamentari dem sono cresciuti di venti unità. Curiosamente quasi tutti i trasferimenti sono avvenuti in epoca recente, da quando Matteo Renzi è diventato presidente del Consiglio. Tra i più sensibili al richiamo del premier ci sono i parlamentari Sinistra Ecologia e Libertà. Il partito di Nichi Vendola ha “fornito” ai democrat ben undici deputati. Folgorati sulla via del Nazareno son passati tra le fila del Pd Ferdinando Aiello e Michele Ragosta, per primi. Poi il tesoriere Sergio Boccadutri. Lo scorso autunno, per ultimi, Titti Di Salvo, Luigi Lacquaniti, Fabio Lavagno, Martina Nardi, Ileana Piazzoni, Nazzareno Pilozzi, Alessandro Zan. Con loro anche il capogruppo di Sel Gennaro Migliore. Renzi piace a sinistra, ma anche al centro. Lo scorso ottobre si sono trasferiti tra i democrat i deputati del gruppo Per l’Italia Gea Schirò e Gregorio Gitti. Poco dopo li hanno seguiti i colleghi di Scelta Civica Andrea Romano, Ilaria Borletti e Irene Tinagli. A Palazzo Madama, invece, è passata sotto le insegne del renzismo quasi l'intera componente di Scelta Civica. Sei senatori su otto. Tra i pochi montiani a non trasferirsi nel Pd resta proprio Mario Monti, che preso atto della situazione ha optato per un più sobrio passaggio al Misto.

Un cambio di casacca dopo l’altro, si trasformano gli equilibri tra maggioranza e opposizione. Nulla di male, sia chiaro. È la stessa Costituzione italiana a difendere il diritto al ripensamento dei transfughi. L’articolo 67 della Carta stabilisce che ogni parlamentare esercita le sue funzioni «senza vincolo di mandato». Una norma inserita a tutela della libertà di ciascun eletto. Ne sanno qualcosa dalle parti dei berlusconiani. Nel novembre 2013 la creazione dei gruppi del Nuovo Centrodestra ha stravolto gli equilibri delle Camere. A lasciare il Popolo della Libertà - di lì a pochi giorni sarebbe diventato Forza Italia - sono stati una sessantina. Equamente distribuiti tra Montecitorio e Palazzo Madama. Per qualcuno quella scissione rappresenta ancora un tradimento, per altri un necessario cambio di rotta. Di certo da quel giorno il governo è diventato più stabile. E poi ci sono i doppi strappi. Dopo aver lasciato il Pdl, alcuni parlamentari hanno cambiato idea un’altra volta, e hanno abbandonato anche il Nuovo Centrodestra. Un paio di loro, con imprevista conversione a U, sono tornati direttamente al punto di partenza, in Forza Italia. Sono il senatore Antonio D’Alì e il deputato Alberto Giorgetti.

Più recente l’addio di Barbara Saltamartini. La portavoce del partito ha lasciato il Nuovo Centrodestra in polemica con l’elezione del presidente della Repubblica. Secondo alcune indiscrezioni la deputata romana sarebbe prossima a passare con la Lega di Matteo Salvini. Del resto neppure il gruppo padano è esente da cambi in corsa. Uscito in questi giorni il deputato valdostano Rudi Marguerettaz, direzione Minoranze Linguistiche, a breve potrebbero andarsene anche i parlamentari più vicini al sindaco di Verona Flavio Tosi. Mistero sul numero dei futuri transfughi. Tra Camera e Senato dovrebbero essere almeno in sei. Una volta consumato lo strappo, i tosiani sono pronti a creare una nuova componente all’interno del gruppo Misto. L’ennesima.

Fonte: Linkiesta.it

domenica 15 marzo 2015

L’ultima di Salvini: «Il figlio di coppie gay parte con handicap»

Le frasi choc del segretario della Lega Nord non finiscono mai. Per lui i matrimoni omosessuali «non sono un diritto umano». Gay Center risponde: «Non sa quel che dice. Parla per slogan»


Si allunga la serie di dichiarazione anti-rom, anti-immigrati e anti-gay di Matteo Salvini. Intervenendo nel corso della trasmissione radiofonica di Radio 24 La Zanzara il segretario federale della Lega Nord ha affermato che non affitterebbe la casa a «rom cenciosi», che vieterebbe il velo islamico, che le nozze gay «non sono un diritto umano» e che il bambino di una coppia omosessuale «parte con un handicap».

SALVINI: «LE NOZZE GAY NON SONO UN DIRITTO UMANO. IL BAMBINO DI UNA COPPIA OMOSEX PARTE CON UN HANDICAP» – «Matrimonio e adozione gay – ha dichiarato Salvini – non sono un diritto umano. I bambini devono nascere e crescere come il buon Dio ha deciso, l’utero in affitto è bieco e volgare egoismo». «Ma – ha detto ancora il leader del Carroccio – pensiamo al bambino: oltre all’egoismo del genitore pensiamo al bimbo. Se cresce con genitori o un genitore gay parte da un gradino più sotto. Parte con handicap».

SALVINI: «IO PROIBIREI DI INDOSSARE IL VELO ISLAMICO» – Sugli stranieri Salvini ha poi affermato: «Ho letto che a Bologna due islamici non trovano una casa da affittare. Ma uno sarà libero di affittare la casa a chi vuole? Se arriva un rom cencioso, con quattro bambini che usa ai semafori, sarò libero di non affittargli la casa?». E ancora, sull’Islam: «Il velo è simbolo di oppressione. La donna che porta il velo non mi piace, è simbolo di prigionia. Fosse per me lo proibirei, si va in giro a volto scoperto».

MARRAZZO (GAY CENTER): «SALVINI NON SA COSA DICE. PARLA PER SLOGAN» – Le parole del segretario leghista hanno immediatamente scatenato indignazione. «Salvini non sa cosa dice. Ormai – ha fatto sapere in una nota Fabrizio Marrazzo, portavoce di Gay Center – parla per slogan. Prima i Rom, adesso i gay. Un buon modo per riesumare slogan fascisti. E fare quello di destra puro e duro da salotto radiofonico o tv».

GRILLINI (GAYNET): «PER SALVNI PROVO UNA GRANDE PENA» – «Vedo che Salvini – è stato il commento di Franco Grillini, presidente di gayNet Italia – è ossessionato dai gay, dai matrimoni omosessuali e dalle adozioni da parte delle coppie lgbt. Psicologicamente sarei portato a dire che gatta ci cova, se uno ne parla tanto… se non parla d’altro, se gli interessa solo questo». «In realtà – ha continuato Grillini nella sua nota – provo una grande pena perché Salvini e Maroni solo pochi anni fa dicevano esattamente il contrario ed entrambi sono proprio l’esempio di come si cambia discorso politico a seconda delle convenienze. Dai comunisti padani di cui Salvini era il capo ai nazisti padani per raccattare qualche voto dalle fogne della storia». «Secondo Salvini i gay adottati sono handicappati? Tutti gli studi effettuati su persone educate da genitori omosessuali – ha continuato Grillini – dimostrano che il successo educativo è lo stesso di tutti gli altri ma Salvini si guarda bene dallo studiare perché se vede un libro mette mano alla pistola«. «Il bello è che Salvini fa finta di combattere l’estremismo islamico e poi ne condivide valori e idee politico esattamente come Al Bagdadi. L’unica soddisfazione a proposito di Salvini è che gli italiani sono vaccinati dall’estremismo e dal fascismo e finché c’è Salvini – ha concluso il presidente di Gaynet – la Lega non vincerà mai e il nostro non saraà mai leader del centrodestra».

(Foto di copertina di Marco Dal Maso da archivio LaPresse)

Fonte: Giornalettismo

sabato 14 marzo 2015

Venezuela. Gli “artigli” della Casa Bianca minacciano Caracas


Da qualche giorno il Venezuela viene considerato una “minaccia nazionale” da parte della Casa Bianca. Come molti sanno il Venezuela dispone di immensi giacimenti petroliferi e soprattutto ha il “torto” di ispirarsi al socialismo bolivariano, alla Rivoluzione Cubana e sandinista, un patrimonio ideale e pratico cui si è ispirato direttamente Hugo Chavez, l’autore materiale di quella rivoluzione che lo rese uno dei più acerrimi nemici di Washington, che arrivarono anche a finanziare un vero e proprio golpe contro di lui nel 2001, poi fallito.

Eppure Obama ha seriamente, con un ordine esecutivo, dichiarato il Venezuela una minaccia nazionale, il che secondo molti analisti potrebbe preludere anche a una escalation di tipo militare. Questa eventualità, almeno per il momento, sembra improbabile, mentre pare molto ma molto probabile che la Casa Bianca possa cominciare una destabilizzazione su larga scala del governo di Nicolas Maduro, l’uomo erede di Chavez votato in elezioni democratiche e giudicate regolari da tutti gli osservatori internazionali.

Nicolas Maduro comunque ha voluto rispondere per le rime e ha chiesto ufficialmente a Washington di esibire le prove di questa presunta minaccia e lo ha fatto dichiarandosi persino pronto a viaggiare fino a Washington per perorare la propria causa: “Forse potrei presentarmi a Washington a questo evento, mostrare la mia faccia per il mio Paese e spiegare al governo americano che sta facendo un grave errore” [Fonte: Agi.it].

Ma esiste anche chi, come l’avvocatessa e scrittrice Eva Golinger, teme che gli Usa possano ricorrere a un vero e proprio attacco militare. Interrogata da RT, la Golinger ha spiegato che l’ordine esecutivo approvato da Obama è di solito una norma che “si applica in tempo di guerra in difesa della nazione“. Questo vorrebbe dire sostanzialmente che gli Usa vogliano intraprendere “azioni più consistenti contro il Venezuela“, un modo per autogiustificarsi prima di agire contro Caracas sia economicamente che militarmente. A quanti ritengono improbabile un attacco militare l’avvocatessa ha ricordato le azioni militari degli Usa a Panama e Granada, che a differenza del Venezuela, peraltro, sono prive di risorse energetiche.

Insomma, il Venezuela si trova oggi in una situazione difficilissima sia dal punto di vista economico, sia dal punto di vista strategico, e ora bisognerà vedere se il governo di Maduro riuscirà a superare questo momento di tensione e difficoltà.

Fonte: OltremediaNews

venerdì 13 marzo 2015

I due anni di pontificato di Francesco, il Papa venuto dalla “fine del mondo”

Il 13 marzo 2013 Papa Francesco si affacciò per la prima volta su Piazza San Pietro: due anni di viaggi verso le periferie dell'umanità.


Quando il 13 marzo del 2013 Papa Francesco si affacciò dalla finestra che dà su Piazza San Pietro, dopo l'esultanza delle migliaia di persone presenti pronunciò il suo primo discorso da Pontefice: parole che, come fu subito evidente, avrebbero segnato una netta differenza rispetto al suo predecessore, Benedetto XVI, e inaugurato una stagione di "vicinanza" tra i "ministri di Dio" e i fedeli: "Fratelli e sorelle, buonasera! Voi sapete che il dovere del conclave era di dare un vescovo a Roma. Sembra che i miei fratelli cardinali siano andati a prenderlo quasi alla fine del mondo, ma siamo qui. Vi ringrazio dell'accoglienza. La comunità diocesana di Roma ha il suo vescovo: grazie! E prima di tutto, vorrei fare una preghiera per il nostro vescovo emerito, Benedetto XVI. Preghiamo tutti insieme per lui, perché il Signore lo benedica e la Madonna lo custodisca. […] E adesso, incominciamo questo cammino: Vescovo e popolo. Questo cammino della Chiesa di Roma, che è quella che presiede nella carità tutte le Chiese. Un cammino di fratellanza, di amore, di fiducia tra noi. […] E adesso vorrei dare la Benedizione, ma prima – prima, vi chiedo un favore: prima che il vescovo benedica il popolo, vi chiedo che voi preghiate il Signore perché mi benedica: la preghiera del popolo, chiedendo la Benedizione per il suo Vescovo. Facciamo in silenzio questa preghiera di voi su di me".

Il Papa venuto "dalla fine del Mondo" in questi due anni ha dedicato alle "periferie dell'umanità" gran parte delle sue energie: si è recato in Albania e i Corea del Sud, in Turchia e nelle Filippine, ma anche a Cassano all'Jonio, Campobasso, Caserta. Ha incontrato i potenti del pianeta, da Obama a Shimon Peres, passando per Abu Mazen. Fondamentale il suo operato contro un nuovo intervento militare in Siria, che nell'estate del 2013 sembrava veramente imminente. Ma fondamentale è stato anche il ruolo giocato da Bergoglio nel riavvicinamento tra Stati Uniti e Cuba, e quello nella ripresa dei negoziati di pace tra Israele e palestinesi. Se c'è però un'opera in cui Papa Francesco si è veramente contraddistinto è stato il tentativo di riavvicinare la chiesa alle persone comuni: in tal senso la "lotta senza quartieri" alla pedofilia, gli appelli alla sobrietà, le critiche al capitalismo e alla povertà e persino le telefonate fatte alle persone in difficoltà.

Bergoglio è dunque il "Papa delle periferie", sia geografiche che esistenziali, il Pontefice che sta facendo della "misericordia" l'elemento distintivo rispetto ai suoi predecessori. Francesco promuove una chiesa che non ha paura di abbracciare gli "ultimi", né di dialogare con chi non si è mai avvicinato alla fede cattolica. Non è forse un caso che sabato il Santo Padre abbia ricordato che il ruolo della chiesa "è quello di non condannare eternamente nessuno; di effondere la misericordia di Dio a tutte le persone che la chiedono con cuore sincero; la strada della Chiesa è proprio quella di uscire dal proprio recinto per andare a cercare i lontani nelle “periferie” dell’esistenza; quella di adottare integralmente la logica di Dio".

Fonte: fanpage.it