Dopo il calo della fiducia di consumatori e imprese, ancora dati preoccupanti per l'economia italiana
Ancora segnali preoccupanti per l’economia italiana. L’Istat nei dati preliminari ha rilevato, a giugno, un tasso generale di disoccupazione del 12,7, in crescita rispetto al mese precedente di 0,2 punti, arrivando al 12,7%.Secondo l’Istituto nazionale di statistica nei dodici mesi il numero di disoccupati è aumentato del 2,7% (85mila in più i senza lavoro), il tasso di disoccupazione è salito di 0,3 punti percentuali.
ISTAT, DISOCCUPAZIONE GIOVANILE AL 44,2% -
Ma sale anche la disoccupazione giovanile, al 44,2% a giugno: tocca il livello più alto dall’inizio delle serie storiche mensile e trimestrali, nel primo trimestre 1977. La disoccupazione giovanile aumenta di 1,9 punti dal mese precedente, ma al tempo stesso si riduce il tasso di inattività di 0,2 punti, fino al 74%.
ISTAT, INATTIVI IN CALO NEGLI ULTIMI 12 MESI -
Stando a quanto fa sapere l’Istat, l’aumento del numero di disoccupati negli ultimi 12 mesi (il dato degli 85mila in più) è «associato ad una crescita della partecipazione al mercato del lavoro, testimoniata dalla riduzione del numero di inattivi». A giugno gli inattivi sono 131mila in meno rispetto allo stesso mese del 2014 (-0,9%) e c’è un leggero calo anche rispetto a maggio (-0,1%).
ISTAT, OCCUPAZIONE FEMMINILE IN CRESCITA NEL TRIMESTRE -
Nel secondo trimestre sono in crescita sia il tasso di occupazione sia il tasso di disoccupazione rispetto ai tre mesi precedenti, in salita entrambi di 0,1 punti. Nella media del periodo aprile-giugno 2015, il tasso di occupazione maschile rimane invariato, mentre cresce quello femminile (+0,2 punti). La disoccupazione cresce per gli uomini (+0,3 punti) e diminuisce per le donne (-0,1 punti).
EUROSTAT, DISOCCUPAZIONE GIOVANILE AL 20,7% IN UE -
Per quanto riguarda la media europea, Eurostat oggi fa sapere che il tasso di disoccupazione a giugno è rimasto stabile, all’11,1% nell’Eurozona e al 9,6% nell’Ue a 28 Paesi. In entrambi i casi, il dato è perfettamente invariato rispetto a maggio ed è in calo rispetto al 2014 (la disoccupazione 12 mesi fa era pari all’11,6% nell’Eurozona e al 10,2% in Ue). Resta elevato anche in Europa il livello della disoccupazione registrata fra i giovani sotto i 25 anni: il 22,5% in Eurozona e il 20,7 in Ue.
(Foto di copertina: Ansa / Ciro Fusco)
Fonte: Giornalettismo
venerdì 31 luglio 2015
Renzi va sotto sulla Rai. Ma la spartizione avanza
Il governo va sotto nonostante i “responsabili” di Denis Verdini. È accaduto al Senato e su un provvedimento importante – in chiave di controllo dei media – come il rinovo delle cariche del consiglio di amministrazione della Rai.
L'emendamento su cui è avvenuto il “fattaccio” sembra secondario – la delega al governo per la riforma del canone – ma mette in discussione l'esistenza stessa di una maggioranza stabile. La Commissione di Vigilanza, con la blindatura offerta dai verdiniani, aveva approvato infatti il punto centrale del provvedimento: la nomina di sette dei nove consiglieri di amministrazione con le modalità previste dalla teoricamente aborrita “legge Gasparri” (un nome, una garanzia), compresi i nuovi poteri per l'amministratore delegato, ahinoi previsti da una che non è stata ancora approvata.
Procedura piuttosto originale, sul piano costituzionale, e che doverbbe trovare l'opposizione del presidente della Repubblica, se si sentisse investito – come dovrebbe essere – della funzione di “guardiano della Carta”.
È evidente che tanta fretta – quei poteri diventeranno effettivamente esercitabili solo quando quell'altra legge verrà approvata, se mai lo sarà – è giustificata da un'intento indicibile: la spartizione delle poltrone ai vertici della Rai tra Pd e Forza Italia, soprattutto per quanto riguarda la statutaria maggioranza dei due terzi necessaria ad eleggere l'a.d. Scopo esplicito: tener sotto controllo la principale fonte di informazione del paese in vista delle sempre più probabili elezioni politiche nel 2016.
L'”incidente” del finire in minoranza, sembra evidente, è merito della minoranza “dem”, che ha fatto blcco con Cinque Stelle, Sel e Lega contro il provvedimento. Ma quel "coraggio" non è stato sufficiente a mettere in discussione il punto centrale del provvedimento (nomine e poteri). Testo che oggi approda comunque in aula a palazzo Madama e che, se approvato in questa forma, dovrà necessariamente essere rivisto alla Camera per poi tentare, in un secondo e obbligatorio passaggio al Senato, l'ennesimo blitz con voto di fiducia.
Dalla prossima settimana i giochi si sposteranno tra Palazzo San Macuto e Palazzo Chigi. Il premier dovrebbe indicare nei prossimi giorni il nome del dg e del presidente. Secondo i rumors, non è escluso un tandem tutto al femminile. Per la guida aziendale circolano i nomi di Marinella Soldi di Discovery e Tinni Andreatta, attuale direttore della fiction della tv pubblica, ma sarebbero in corsa anche uomini di prodotto come Andrea Scrosati di Sky o Andrea Castellari di Viacom. Per la presidenza si fa il nome di Luisa Todini, imprenditrice che è stata anche parlamentare di Forza Italia (anche se la loro prima scelta è Antonio Pilati), ma pare più probabile che si opti per un volto noto della Rai (probabilmente un ex, come ad esempio il sempre disponibile Giovanni Minoli).
Quanto ai consiglieri, la maggioranza dovrebbe averne quattro, due il centrodestra. Circolano, tra gli altri, i nomi di Antonio Campo Dall'Orto, Ferruccio De Bortoli, Marcello Sorgi, Bianca Berlinguer. Al M5S, in questo schema, dovrebbe andare un solorappresentante: la figura in pole position è quello di Carlo Freccero. Prestigioso, competente (l'unico, nel mazzo di nomi che circola) e certamente indipendente. Ma solo.
Fonte: contropiano.org
Caso Azzollini, la resa del PD e la vittoria di Alfano
Il partito di Renzi salva il senatore NCD e riaccende le polemiche al suo interno. Di Battista: 'Berlinguer si starà rivoltando nella tomba'.
Di Pietro Giunti
Oltre il caso Azzollini, il vuoto. C’è qualcosa che va ben oltre la grazia regalata dal PD al senatore del Nuovo Centrodestra. C’è il disarmante comportamento di una classe politica che nemmeno si nasconde più dagli occhi dell’opinione pubblica. Cambiano gli esecutivi ma i meccanismi restano gli stessi. Persino l’immagine del nuovo proposta da Renzi è finita con l’annebbiarsi, con il suo governo alla perenne ricerca di sostegni esterni (vedi Verdini). Dopo che il Senato ha votato no all’arresto dell’uomo di Angelino Alfano, la bagarre è nuovamente scoppiata. Non una novità nel Partito Democratico, alla perenne ricerca di una resa dei conti interna tra correnti.
L’ammissione di Debora Serracchiani
“La decisione della giunta si rispetta e io, se fossi stato un senatore, avrei votato sì all’arresto”. Le parole di Debora Serracchiani, esponente di spicco della segreteria renziana democrat, non lasciano spazio a interpretazioni. Che si tratti di dichiarazione di circostanza o di un’ammissione di responsabilità, poco importa. Il punto cruciale è il comportamento dei senatori di Palazzo Madama che hanno rinnegato il sì all’arresto sancito dai colleghi del PD della giunta per le immunità. Un soccorso nemmeno tanto velato all’alleato Angelino Alfano, che aveva messo sul piatto la fiducia all’esecutivo in cambio della libertà di Azzollini. “Una vergogna per salvare la casta” l’ha definita Felice Casson, componente della minoranza PD e della stessa giunta per le immunità.
Alessandro Di Battista e il PD del malaffare
Mentre erano in corso i festeggiamenti per l’esito del voto benevolo per il senatore di NCD, il Movimento 5 Stelle è tornato alla carica con Alessandro Di Battista. “Renzi è sotto ricatto - ha scritto in un post pubblicato sulla sua pagina Facebook - ricattato da NCD, il partito più indagato nella storia della Repubblica, che non gli farà passare le sue ‘schiforme’ se in cambio non riceverà indecenti favori come quello di oggi”. Ormai il clima instauratosi è di perenne campagna elettorale anche se, salvo sorprese, difficilmente si tornerà alle urne prima della naturale scadenza della legislatura. “Berlinguer si starà rivoltando nella tomba - ha affermato - il PD (o gran parte di esso) è diventato un punto di riferimento del malaffare”.
Il mercato delle vacche nelle istituzioni
“Il caso Azzollini grida vendetta perché svela l’idea che il Parlamento e alcune decisioni politiche, vengono piegate ai giochi di potere”. A sottolinearlo è Marco Furfaro, membro del Coordinamento nazionale di Sinistra Ecologia e Libertà. “Il PD si è arreso al ricatto di Alfano - ha proseguito - altrimenti sarebbe saltato il governo”. “C’è un principio - ha sottolineato l’esponente di SEL - che viene meno al di là di tutto: prima di ogni maggioranza, di ogni governo, di ogni questione di potere, viene il principio che tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge. Piegare questo principio alla tenuta delle maggioranza è la cosa più schifosa e più vecchia del mondo”. “Mi stupisce davvero tanto - ha concluso Furfaro - che colui che si era candidato per rottamare vecchi schemi e inciuci (Renzi ndr), sia adesso il principale esponente di questo sistema degno della Prima Repubblica e della gestione del potere di Berlusconiana memoria”.
Fonte: Blasting News Italia
Di Pietro Giunti
Oltre il caso Azzollini, il vuoto. C’è qualcosa che va ben oltre la grazia regalata dal PD al senatore del Nuovo Centrodestra. C’è il disarmante comportamento di una classe politica che nemmeno si nasconde più dagli occhi dell’opinione pubblica. Cambiano gli esecutivi ma i meccanismi restano gli stessi. Persino l’immagine del nuovo proposta da Renzi è finita con l’annebbiarsi, con il suo governo alla perenne ricerca di sostegni esterni (vedi Verdini). Dopo che il Senato ha votato no all’arresto dell’uomo di Angelino Alfano, la bagarre è nuovamente scoppiata. Non una novità nel Partito Democratico, alla perenne ricerca di una resa dei conti interna tra correnti.
L’ammissione di Debora Serracchiani
“La decisione della giunta si rispetta e io, se fossi stato un senatore, avrei votato sì all’arresto”. Le parole di Debora Serracchiani, esponente di spicco della segreteria renziana democrat, non lasciano spazio a interpretazioni. Che si tratti di dichiarazione di circostanza o di un’ammissione di responsabilità, poco importa. Il punto cruciale è il comportamento dei senatori di Palazzo Madama che hanno rinnegato il sì all’arresto sancito dai colleghi del PD della giunta per le immunità. Un soccorso nemmeno tanto velato all’alleato Angelino Alfano, che aveva messo sul piatto la fiducia all’esecutivo in cambio della libertà di Azzollini. “Una vergogna per salvare la casta” l’ha definita Felice Casson, componente della minoranza PD e della stessa giunta per le immunità.
Alessandro Di Battista e il PD del malaffare
Mentre erano in corso i festeggiamenti per l’esito del voto benevolo per il senatore di NCD, il Movimento 5 Stelle è tornato alla carica con Alessandro Di Battista. “Renzi è sotto ricatto - ha scritto in un post pubblicato sulla sua pagina Facebook - ricattato da NCD, il partito più indagato nella storia della Repubblica, che non gli farà passare le sue ‘schiforme’ se in cambio non riceverà indecenti favori come quello di oggi”. Ormai il clima instauratosi è di perenne campagna elettorale anche se, salvo sorprese, difficilmente si tornerà alle urne prima della naturale scadenza della legislatura. “Berlinguer si starà rivoltando nella tomba - ha affermato - il PD (o gran parte di esso) è diventato un punto di riferimento del malaffare”.
Il mercato delle vacche nelle istituzioni
“Il caso Azzollini grida vendetta perché svela l’idea che il Parlamento e alcune decisioni politiche, vengono piegate ai giochi di potere”. A sottolinearlo è Marco Furfaro, membro del Coordinamento nazionale di Sinistra Ecologia e Libertà. “Il PD si è arreso al ricatto di Alfano - ha proseguito - altrimenti sarebbe saltato il governo”. “C’è un principio - ha sottolineato l’esponente di SEL - che viene meno al di là di tutto: prima di ogni maggioranza, di ogni governo, di ogni questione di potere, viene il principio che tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge. Piegare questo principio alla tenuta delle maggioranza è la cosa più schifosa e più vecchia del mondo”. “Mi stupisce davvero tanto - ha concluso Furfaro - che colui che si era candidato per rottamare vecchi schemi e inciuci (Renzi ndr), sia adesso il principale esponente di questo sistema degno della Prima Repubblica e della gestione del potere di Berlusconiana memoria”.
Fonte: Blasting News Italia
Un bambino palestinese è stato bruciato vivo in un rogo causato da coloni israeliani
Un gruppo di estremisti israeliani ha dato fuoco a due case in Cisgiordania, uccidendo un bambino d 18 mesi
La notte del 30 luglio Ali Saad Dawabsheh, un bambino palestinese di 18 mesi, è morto tra le fiamme, in un rogo appiccato da quattro coloni israeliani.
I suoi genitori e il fratello di quattro anni sono stati ricoverati per le ferite riportate durante l'incendio, secondo quanto riferisce Al Jazeera. I dottori dell'ospedale di Nablus hanno detto che la famiglia ha ustioni e bruciature su quasi tutto il corpo.
All'alba del 31 luglio un gruppo di israeliani estremisti ha bruciato due case nel villaggio di Duma, a sud della città di Nablus, in Cisgiordania. Con delle bombolette spray, i coloni hanno poi scritto la parola "vendetta" sui muri e "lunga vita al Messia".
"Questo attacco contro dei civili è un atto barbarico di terrorismo", ha dichiarato il colonnello Peter Lerner, aggiungendo che l'esercito israeliano condanna fortemente il gesto e sta cercando di localizzare i responsabili.
Vicino al villaggio di Duma ci sono tre insediamenti israeliani illegali. Secondo le Nazioni Unite, nel 2015 sono stati riportati almeno 120 attacchi da parte di coloni israeliani in Cisgiordania.
Secondo quanto riferisce The Guardian, l'attacco potrebbe essere una ritorsione contro la recente demolizione di due edifici nel vicino villaggio di Beit El, ordinata dalla Corte suprema israeliana perché le case erano state costruite illegalmente su terreni palestinesi. Nei giorni scorsi ci sono stati violenti scontri tra i coloni e la polizia israeliana.
Fonte: The Post Internazionale
Violenti scontri durante la demolizione di due case abusive di coloni israeliani in Cisgiordania, il 28 luglio 2015. Credit: Amir Cohen
La notte del 30 luglio Ali Saad Dawabsheh, un bambino palestinese di 18 mesi, è morto tra le fiamme, in un rogo appiccato da quattro coloni israeliani.
I suoi genitori e il fratello di quattro anni sono stati ricoverati per le ferite riportate durante l'incendio, secondo quanto riferisce Al Jazeera. I dottori dell'ospedale di Nablus hanno detto che la famiglia ha ustioni e bruciature su quasi tutto il corpo.
All'alba del 31 luglio un gruppo di israeliani estremisti ha bruciato due case nel villaggio di Duma, a sud della città di Nablus, in Cisgiordania. Con delle bombolette spray, i coloni hanno poi scritto la parola "vendetta" sui muri e "lunga vita al Messia".
"Questo attacco contro dei civili è un atto barbarico di terrorismo", ha dichiarato il colonnello Peter Lerner, aggiungendo che l'esercito israeliano condanna fortemente il gesto e sta cercando di localizzare i responsabili.
Vicino al villaggio di Duma ci sono tre insediamenti israeliani illegali. Secondo le Nazioni Unite, nel 2015 sono stati riportati almeno 120 attacchi da parte di coloni israeliani in Cisgiordania.
Secondo quanto riferisce The Guardian, l'attacco potrebbe essere una ritorsione contro la recente demolizione di due edifici nel vicino villaggio di Beit El, ordinata dalla Corte suprema israeliana perché le case erano state costruite illegalmente su terreni palestinesi. Nei giorni scorsi ci sono stati violenti scontri tra i coloni e la polizia israeliana.
Fonte: The Post Internazionale
Sei persone accoltellate al gay pride di Gerusalemme
La reazione dei partecipanti al gay pride di Gerusalemme dopo l’attacco di un ebreo ultraortodosso che ha accoltellato sei persone, il 30 giugno. (Amir Cohen, Reuters/Contrasto)
Sei persone sono state accoltellate durante il gay pride che si è tenuto in serata, come ogni anno, a Gerusalemme. La polizia ha confermato che l’aggressore, arrestato subito dopo l’attacco, è Yishai Shlissel, un ebreo ultraortodosso che aveva già assalito con un’arma da taglio tre partecipanti alla parata dell’orgoglio omosessuale del 2005. Era uscito dal carcere da poco tempo, dopo aver scontato una pena di dieci anni.
JERUSALEM PRIDE PARADE: Stabber is same man convicted for 2005 pride parade stabbing http://t.co/zDNDIarWQa pic.twitter.com/UE8ezoIjGT
— Haaretz.com (@haaretzcom) 30 Luglio 2015
Secondo il servizio di croce rossa locale, il Magen David Adom, una donna è in condizioni critiche e due uomini sono feriti in modo abbastanza grave. Tutti i feriti hanno all’incirca trent’anni.
Stando alle prime ricostruzioni, Shlissel sarebbe apparso tra i manifestanti e avrebbe cominciato a gridare pugnalando i present. Un poliziotto è poi riuscito ad atterrarlo e l’ha arrestato. L’attacco è avvenuto sulla via Keren Hayesod, non lontano dalla residenza official del premier Benjamin Netanyahu. E lo stesso Netanyahu ha denunciato il gravissimo evento, assicurando che sarà fatta giustizia.
“Nello stato di Israele la libertà di scelta di ogni individuo è uno dei valori fondamentali. Dobbiamo assicurarci che in Israele, ogni uomo e ogni donna vivano in sicurezza in qualsiasi modo scelgano di farlo. Ecco come abbiamo agito in passato e continueremo ad agire”, ha dichiarato Netanyahu.
Fonte: Internazionale
giovedì 30 luglio 2015
Il gruppo parlamentare di Denis Verdini
Si chiama "Alleanza liberalpopolare-autonomie", è composto da ex senatori di Forza Italia e dice di voler far approvare le riforme costituzionali
Durante una conferenza stampa in Senato è stato presentato un nuovo gruppo parlamentare, fondato dal senatore Denis Verdini e composto al momento da dieci senatori, Verdini compreso. Il gruppo si chiamerà “Alleanza liberalpopolare-autonomie” (ALA) e sarà composto da parlamentari di centrodestra che intendono sostenere la riforma costituzionale in discussione in questi mesi e che era al centro del cosiddetto “patto del Nazareno”. Verdini è toscano ed è stato per molti anni un dirigente di Forza Italia e stretto collaboratore di Silvio Berlusconi.
Parlando ai giornalisti, Verdini ha detto che il gruppo parlamentare non entrerà nella maggioranza che sostiene il governo e che «nessuno di noi ha il desiderio, la voglia di iscriversi al PD». L’obiettivo di ALA, ha detto Verdini, è l’approvazione della riforma del Senato e del Titolo V della Costituzione. Quella riforma era stata concordata dal Partito Democratico con Forza Italia, che insieme l’avevano difesa, sostenuta e votata nei primi passaggi parlamentari; Forza Italia ha cominciato a opporsi alla riforma dopo l’elezione di Sergio Mattarella alla presidenza della Repubblica, quando Silvio Berlusconi ha accusato Matteo Renzi di aver rotto il patto decidendo di non consultarlo. Gli altri senatori che faranno parte del gruppo sono Lucio Barani, Riccardo Mazzoni, Eva Longo, Giuseppe Compagnone, Vincenzo D’Anna, Ciro Falanga, Riccardo Conti, Pietro Langella e Antonio Scavone. Per il momento non ci sono abbastanza deputati per formare un gruppo alla Camera: Verdini ha detto «vedremo a settembre».
«Vogliamo essere liberi di completare la legislatura costituente come avevamo iniziato», ha detto Verdini. «Ho una grandissima lealtà che mi lega a Berlusconi, ma vediamo le cose in maniera diversa. Lui è sempre stato in questi 20 anni lungimirante, però questo non significa che sempre si vedono le stesse possibilità. Come tutti gli strappi fanno male, il dolore uno se lo tiene e tira fuori l’ottimismo. La nostra storia legata a Berlusconi è straordinaria e fa male parlarne. Non ne vogliamo parlare, parliamo di quello che facciamo. Nella nostra componente c’è chi ha votato le riforme e c’è chi non lo ha fatto ed è libero di mantenere questa posizione. In questo momento politico delicato, intendiamo vivere e muoverci nella massima libertà, senza vincoli di mandato, senza offendere nessuno né rinnegare nessuno. La nostra prospettiva politica è l’area moderata, che è il centro del Paese ed è il centro che determina sempre la vittoria dell’una o dell’altra parte. Ma per poterlo fare deve muoversi in libertà, senza timori».
La formazione del nuovo gruppo parlamentare, di cui i retroscena politici dei giornali parlavano da tempo, rappresenta per il governo Renzi sia un potenziale problema che una potenziale opportunità. Gli oppositori di Renzi – sia dentro che fuori il PD – accusano il governo di voler rimpiazzare la sinistra con un altro alleato di governo di centrodestra, e ricordano la vicinanza di Verdini con Berlusconi e i molti procedimenti aperti a suo carico; dall’altra parte il governo Renzi potrebbe trovare nel nuovo gruppo i voti necessari a far passare le riforme (in Senato la maggioranza ha solo un piccolo margine di vantaggio) e chi difende il governo ricorda che già ai tempi del “patto del Nazareno” i deputati di Forza Italia sostenevano le riforme (e che del precedente governo italiano in questa legislatura faceva parte anche Forza Italia).
Fonte: Il Post
Denis Verdini. (Roberto Monaldo / LaPresse)
Durante una conferenza stampa in Senato è stato presentato un nuovo gruppo parlamentare, fondato dal senatore Denis Verdini e composto al momento da dieci senatori, Verdini compreso. Il gruppo si chiamerà “Alleanza liberalpopolare-autonomie” (ALA) e sarà composto da parlamentari di centrodestra che intendono sostenere la riforma costituzionale in discussione in questi mesi e che era al centro del cosiddetto “patto del Nazareno”. Verdini è toscano ed è stato per molti anni un dirigente di Forza Italia e stretto collaboratore di Silvio Berlusconi.
Parlando ai giornalisti, Verdini ha detto che il gruppo parlamentare non entrerà nella maggioranza che sostiene il governo e che «nessuno di noi ha il desiderio, la voglia di iscriversi al PD». L’obiettivo di ALA, ha detto Verdini, è l’approvazione della riforma del Senato e del Titolo V della Costituzione. Quella riforma era stata concordata dal Partito Democratico con Forza Italia, che insieme l’avevano difesa, sostenuta e votata nei primi passaggi parlamentari; Forza Italia ha cominciato a opporsi alla riforma dopo l’elezione di Sergio Mattarella alla presidenza della Repubblica, quando Silvio Berlusconi ha accusato Matteo Renzi di aver rotto il patto decidendo di non consultarlo. Gli altri senatori che faranno parte del gruppo sono Lucio Barani, Riccardo Mazzoni, Eva Longo, Giuseppe Compagnone, Vincenzo D’Anna, Ciro Falanga, Riccardo Conti, Pietro Langella e Antonio Scavone. Per il momento non ci sono abbastanza deputati per formare un gruppo alla Camera: Verdini ha detto «vedremo a settembre».
«Vogliamo essere liberi di completare la legislatura costituente come avevamo iniziato», ha detto Verdini. «Ho una grandissima lealtà che mi lega a Berlusconi, ma vediamo le cose in maniera diversa. Lui è sempre stato in questi 20 anni lungimirante, però questo non significa che sempre si vedono le stesse possibilità. Come tutti gli strappi fanno male, il dolore uno se lo tiene e tira fuori l’ottimismo. La nostra storia legata a Berlusconi è straordinaria e fa male parlarne. Non ne vogliamo parlare, parliamo di quello che facciamo. Nella nostra componente c’è chi ha votato le riforme e c’è chi non lo ha fatto ed è libero di mantenere questa posizione. In questo momento politico delicato, intendiamo vivere e muoverci nella massima libertà, senza vincoli di mandato, senza offendere nessuno né rinnegare nessuno. La nostra prospettiva politica è l’area moderata, che è il centro del Paese ed è il centro che determina sempre la vittoria dell’una o dell’altra parte. Ma per poterlo fare deve muoversi in libertà, senza timori».
La formazione del nuovo gruppo parlamentare, di cui i retroscena politici dei giornali parlavano da tempo, rappresenta per il governo Renzi sia un potenziale problema che una potenziale opportunità. Gli oppositori di Renzi – sia dentro che fuori il PD – accusano il governo di voler rimpiazzare la sinistra con un altro alleato di governo di centrodestra, e ricordano la vicinanza di Verdini con Berlusconi e i molti procedimenti aperti a suo carico; dall’altra parte il governo Renzi potrebbe trovare nel nuovo gruppo i voti necessari a far passare le riforme (in Senato la maggioranza ha solo un piccolo margine di vantaggio) e chi difende il governo ricorda che già ai tempi del “patto del Nazareno” i deputati di Forza Italia sostenevano le riforme (e che del precedente governo italiano in questa legislatura faceva parte anche Forza Italia).
Fonte: Il Post
Caso Azzollini, Grillo attacca: «Pd, libertà di….»
Il capo del Movimento attacca i democratici dopo il voto in Senato
«Libertà di coscienza Pd: libertà di pisciare in bocca agli elettori». Beppe Grillo attacca il Partito democratico dopo il no, votato al Senato, all’arresto di Antonio Azzollini. Con un post sul blog, Grillo critica le parole del capogruppo democratico di Palazzo Madama Luigi Zanda:
Le dichiarazioni in stato confusionale di Luigi Zanda, capogruppo Pd al Senato, che per difendere il salvataggio di Azzollini da parte del Pd fa una memorabile arrampicata sugli specchi accusando il M5S di anti democrazia. Sguardo basso, farfugliamenti, tono di voce sempre più basso. Libertà di coscienza Pd: libertà di pisciare in bocca agli elettori.
Il leader M5S evoca nella sua provocazione la frase intercettata del senatore verso una suora della casa di cura Divina Provvidenza.
(foto ANSA/CLAUDIO PERI)
Fonte: Giornalettismo
«Libertà di coscienza Pd: libertà di pisciare in bocca agli elettori». Beppe Grillo attacca il Partito democratico dopo il no, votato al Senato, all’arresto di Antonio Azzollini. Con un post sul blog, Grillo critica le parole del capogruppo democratico di Palazzo Madama Luigi Zanda:
Le dichiarazioni in stato confusionale di Luigi Zanda, capogruppo Pd al Senato, che per difendere il salvataggio di Azzollini da parte del Pd fa una memorabile arrampicata sugli specchi accusando il M5S di anti democrazia. Sguardo basso, farfugliamenti, tono di voce sempre più basso. Libertà di coscienza Pd: libertà di pisciare in bocca agli elettori.
Il leader M5S evoca nella sua provocazione la frase intercettata del senatore verso una suora della casa di cura Divina Provvidenza.
(foto ANSA/CLAUDIO PERI)
Fonte: Giornalettismo
Traumi e violenze: «Io psichiatra curo la mente dei profughi»
Intervista a Marzia Marzagalia, uno degli psichiatri che all’Ospedale Niguarda di Milano cura i richiedenti asilo affetti da disturbo post traumatico
Lidia Baratta
Marzia Marzagalia è una psichiatra. Da dieci anni, insieme ai colleghi del servizio di etnopsichiatria dell’Ospedale Niguarda di Milano, guarda nella mente degli immigrati. «All’inizio si trattava di pazienti stranieri senza permesso di soggiorno, la maggior parte migranti di tipo economico», racconta. «Ma dal 2011, con l’emergenza Nord Africa, da noi arrivano soprattutto rifugiati, richiedenti asilo e vittime di tortura». Vengono segnalati dai centri di accoglienza milanesi a seguito di gesti improvvisi o comportamenti preoccupanti, o anche dalle commissioni territoriali che devono decidere se concedere lo status di rifugiato a chi lo richiede.
«Si tratta di persone vulnerabili che hanno fatto richiesta di asilo più o meno volontariamente», spiega Marzia Marzagalia. Dopo lunghi viaggi, maltrattamenti e pericolose traversate in mare, alcuni immigrati possono sviluppare quello che in psichiatria si chiama disturbo post traumatico da stress. I traumi che vive una persona che fugge da guerre e persecuzioni e si affida ai trafficanti di esseri umani per raggiungere l’Italia non sono pochi. «C’è chi ha visto morire annegati i compagni di viaggio, chi è scappato dal proprio Paese dopo essere stato torturato in carcere, chi ha visto uccidere davanti ai suoi occhi un fratello o stuprare madri e sorelle, ma c’è anche chi ha imparato bene cosa raccontare per ottenere la protezione». Una volta arrivati in Italia e “smistati” nei centri di accoglienza, «alcuni di loro vivono anzitutto un disagio ambientale, in situazioni comunitarie con persone di etnie diverse che hanno a loro volta storie traumatiche alle spalle. Hanno difficoltà relazionali, non parlano con nessuno».
Il disturbo post traumatico da stress si manifesta con sintomi di diversa intensità. Molti hanno disturbi di tipo fisico. «Dal mal di testa al mal di stomaco, fino all’insonnia», racconta la psichiatra. «Durante il sonno hanno risvegli improvvisi da flashback, con la riattivazione delle scene traumatiche che hanno vissuto». Ma può accadere anche durante il giorno. «Il ricordo di alcune scene violente li attraversa facendo rivivere quelle esperienze con la stessa intensità, provocando una dissociazione e in alcuni veri e propri stati psicotici». A volte basta che qualcuno nel centro in cui trovano pronunci una parola per attivare il flashback e reazioni violente improvvise. E chi ha vissuto torture e persecuzioni «può sviluppare anche un’elaborazione di tipo persecutoria, sentendosi continuamente minacciato e non al sicuro».
Non tutti gli immigrati che sbarcano sulle nostre coste sviluppano questi sintomi. «Dipende dalle basi da cui si parte nel proprio Paese d’origine», spiega Marzagalia. «Se è una migrazione subìta, con una fuga da guerre e violenze, senza un progetto migratorio di miglioramento delle proprie condizioni di vita, non sai cosa trovi dall’altra parte e sei più esposto». Senza dimenticare che «non tutti vogliono restare in Italia, ma a volte sono costretti a fare richiesta d’asilo qui per via della Convenzione di Dublino».
Ma se a Milano è stato messo a punto un protocollo d’azione interdisciplinare tra Comune, Commissione territoriale, ospedale e medici legali, nel resto d’Italia non è così. Una volta sbarcati sulle coste meridionali del nostro Paese, solo i profughi che danno evidenti segnali di disagio vengono ricoverati nei reparti di psichiatria dopo lo sbarco. Per gli altri, li attende l’accoglienza in strutture più o meno adeguate, dove tutto ruota intorno a un materasso dove dormire e a un pasto da ritirare in fila indiana. «C’è una grossa fetta di vulnerabili che non arriva alla nostra attenzione», dice la dottoressa Marzagalia. «Alcuni si allontanano dai centri di accoglienza per non essere identificati, molti sono affidati ad accoglienze di tipo alberghiero che non contemplano altro genere di servizi». Come sempre, dipende dalle regioni. E ovviamente l’attenzione nel trattamento dei richiedenti asilo è a macchia di leopardo. Ognuno fa a modo suo, e i casi virtuosi sono pochi.
«Se trattate adeguatamente, le persone traumatizzate non rimangono traumatizzate a vita», dice Marzia Marzagalia. «Il trauma segna un prima e un dopo, ma non necessariamente il dopo diventa cronico. Noi diciamo loro: “Sappiamo cosa stai provando, ce lo hanno raccontato tanti altri prima di te. Ne uscirai, non è una malattia”». La psichiatra lo spiega con il racconto di un paziente africano in crisi psicotica: «Diceva di essere stato attraversato da un demone: “Una volta passato, se non torna più e se ne va, è qualcosa che non è da me. Se invece rimane, è una malattia”».
Anche il lavoro dello psichiatra e dello psicologo cambia di fronte a questi pazienti. «Dobbiamo diventare più flessibili rispetto alle categorie diagnostiche e culturali che usiamo di solito», racconta Marzagalia. «Non dobbiamo lasciarci immergere nel loro clima culturale, ma neanche sovvrapporre completamente il nostro. Dobbiamo comunicare a un livello più profondo, con una modalità d’ascolto diversa». È per questo che i colloqui all’ospedale Niguarda si fanno sempre alla presenza di due operatori e un mediatore culturale, che aiuta a interpretare le sfumature della gestualità, delle posture sulla sedia, degli sguardi.
«C’è chi viene da noi dicendo di essere stato colpito dal malocchio, chi dice solo di avere mal di stomaco. Ma non ti raccontano subito le loro storie». L’idea di sedersi davanti a un medico e parlare è estranea a molte culture. Spesso si parte da un disturbo fisico. «Prima chiediamo che interpretazione danno a quel disturbo, poi diciamo come noi lo trattiamo e se vogliono provare a farlo con noi, e poi cominciamo a chiedere qualcosa sul loro vissuto, ma non è detto che loro rispondano. È difficile riporre fiducia in qualcuno dopo un periodo in cui sei sfuggito a violenze e persecuzioni e non ti sei fidato di nessuno». Bisogna resettare tutto. Il trucco, dice Marzia Marzagalia, è «porsi in una relazione d’ascolto senza etichettare la sofferenza. Posso dirti che c’è una matassa di dolore in te e se vuoi piano piano possiamo provare a sbrogliarla». E anche sulla prescrizione dei farmaci ci sono delle difficoltà. «Quando penso possa essere utile prescrivere dei farmaci, lo comunico dicendo che se vogliono possono prenderli o no. Il problema è che alcuni sono abituati allo stregone che dà il medicamento e loro sono obbligati a prenderlo. Se dici che possono scegliere se prendere o no una medicina, li mandi in confusione».
Lo psichiatra deve essere flessibile, anche negli appuntamenti. «Se dici che ci rivediamo tra una settimana a quest’ora, molti non si presentano. Vengono solo quando hanno bisogno, senza fissare un appuntamento. E in quei casi tu devi mostrarti disponibile, facendo in modo di ascoltarli comunque. È un lavoro di tessitura di una relazione». Perché, dice la psichiatra, «dobbiamo distinguere tra accoglienza e ospitalità. Non basta offrire un pasto e un letto ai rifugiati che arrivano in Italia. Bisogna che ci siano operatori che sappiano come approcciarsi a loro. Posso dare agli immigrati anche un albergo a cinque stelle con piscina ma non accoglierli, e invece offrir loro solo una branda ma ascoltarli».
Fonte: Linkiesta.it
Lidia Baratta
(Getty Images/FILIPPO MONTEFORTE)
Marzia Marzagalia è una psichiatra. Da dieci anni, insieme ai colleghi del servizio di etnopsichiatria dell’Ospedale Niguarda di Milano, guarda nella mente degli immigrati. «All’inizio si trattava di pazienti stranieri senza permesso di soggiorno, la maggior parte migranti di tipo economico», racconta. «Ma dal 2011, con l’emergenza Nord Africa, da noi arrivano soprattutto rifugiati, richiedenti asilo e vittime di tortura». Vengono segnalati dai centri di accoglienza milanesi a seguito di gesti improvvisi o comportamenti preoccupanti, o anche dalle commissioni territoriali che devono decidere se concedere lo status di rifugiato a chi lo richiede.
«Si tratta di persone vulnerabili che hanno fatto richiesta di asilo più o meno volontariamente», spiega Marzia Marzagalia. Dopo lunghi viaggi, maltrattamenti e pericolose traversate in mare, alcuni immigrati possono sviluppare quello che in psichiatria si chiama disturbo post traumatico da stress. I traumi che vive una persona che fugge da guerre e persecuzioni e si affida ai trafficanti di esseri umani per raggiungere l’Italia non sono pochi. «C’è chi ha visto morire annegati i compagni di viaggio, chi è scappato dal proprio Paese dopo essere stato torturato in carcere, chi ha visto uccidere davanti ai suoi occhi un fratello o stuprare madri e sorelle, ma c’è anche chi ha imparato bene cosa raccontare per ottenere la protezione». Una volta arrivati in Italia e “smistati” nei centri di accoglienza, «alcuni di loro vivono anzitutto un disagio ambientale, in situazioni comunitarie con persone di etnie diverse che hanno a loro volta storie traumatiche alle spalle. Hanno difficoltà relazionali, non parlano con nessuno».
Il disturbo post traumatico da stress si manifesta con sintomi di diversa intensità. Molti hanno disturbi di tipo fisico. «Dal mal di testa al mal di stomaco, fino all’insonnia», racconta la psichiatra. «Durante il sonno hanno risvegli improvvisi da flashback, con la riattivazione delle scene traumatiche che hanno vissuto». Ma può accadere anche durante il giorno. «Il ricordo di alcune scene violente li attraversa facendo rivivere quelle esperienze con la stessa intensità, provocando una dissociazione e in alcuni veri e propri stati psicotici». A volte basta che qualcuno nel centro in cui trovano pronunci una parola per attivare il flashback e reazioni violente improvvise. E chi ha vissuto torture e persecuzioni «può sviluppare anche un’elaborazione di tipo persecutoria, sentendosi continuamente minacciato e non al sicuro».
Non tutti gli immigrati che sbarcano sulle nostre coste sviluppano questi sintomi. «Dipende dalle basi da cui si parte nel proprio Paese d’origine», spiega Marzagalia. «Se è una migrazione subìta, con una fuga da guerre e violenze, senza un progetto migratorio di miglioramento delle proprie condizioni di vita, non sai cosa trovi dall’altra parte e sei più esposto». Senza dimenticare che «non tutti vogliono restare in Italia, ma a volte sono costretti a fare richiesta d’asilo qui per via della Convenzione di Dublino».
Ma se a Milano è stato messo a punto un protocollo d’azione interdisciplinare tra Comune, Commissione territoriale, ospedale e medici legali, nel resto d’Italia non è così. Una volta sbarcati sulle coste meridionali del nostro Paese, solo i profughi che danno evidenti segnali di disagio vengono ricoverati nei reparti di psichiatria dopo lo sbarco. Per gli altri, li attende l’accoglienza in strutture più o meno adeguate, dove tutto ruota intorno a un materasso dove dormire e a un pasto da ritirare in fila indiana. «C’è una grossa fetta di vulnerabili che non arriva alla nostra attenzione», dice la dottoressa Marzagalia. «Alcuni si allontanano dai centri di accoglienza per non essere identificati, molti sono affidati ad accoglienze di tipo alberghiero che non contemplano altro genere di servizi». Come sempre, dipende dalle regioni. E ovviamente l’attenzione nel trattamento dei richiedenti asilo è a macchia di leopardo. Ognuno fa a modo suo, e i casi virtuosi sono pochi.
«Se trattate adeguatamente, le persone traumatizzate non rimangono traumatizzate a vita», dice Marzia Marzagalia. «Il trauma segna un prima e un dopo, ma non necessariamente il dopo diventa cronico. Noi diciamo loro: “Sappiamo cosa stai provando, ce lo hanno raccontato tanti altri prima di te. Ne uscirai, non è una malattia”». La psichiatra lo spiega con il racconto di un paziente africano in crisi psicotica: «Diceva di essere stato attraversato da un demone: “Una volta passato, se non torna più e se ne va, è qualcosa che non è da me. Se invece rimane, è una malattia”».
Anche il lavoro dello psichiatra e dello psicologo cambia di fronte a questi pazienti. «Dobbiamo diventare più flessibili rispetto alle categorie diagnostiche e culturali che usiamo di solito», racconta Marzagalia. «Non dobbiamo lasciarci immergere nel loro clima culturale, ma neanche sovvrapporre completamente il nostro. Dobbiamo comunicare a un livello più profondo, con una modalità d’ascolto diversa». È per questo che i colloqui all’ospedale Niguarda si fanno sempre alla presenza di due operatori e un mediatore culturale, che aiuta a interpretare le sfumature della gestualità, delle posture sulla sedia, degli sguardi.
«C’è chi viene da noi dicendo di essere stato colpito dal malocchio, chi dice solo di avere mal di stomaco. Ma non ti raccontano subito le loro storie». L’idea di sedersi davanti a un medico e parlare è estranea a molte culture. Spesso si parte da un disturbo fisico. «Prima chiediamo che interpretazione danno a quel disturbo, poi diciamo come noi lo trattiamo e se vogliono provare a farlo con noi, e poi cominciamo a chiedere qualcosa sul loro vissuto, ma non è detto che loro rispondano. È difficile riporre fiducia in qualcuno dopo un periodo in cui sei sfuggito a violenze e persecuzioni e non ti sei fidato di nessuno». Bisogna resettare tutto. Il trucco, dice Marzia Marzagalia, è «porsi in una relazione d’ascolto senza etichettare la sofferenza. Posso dirti che c’è una matassa di dolore in te e se vuoi piano piano possiamo provare a sbrogliarla». E anche sulla prescrizione dei farmaci ci sono delle difficoltà. «Quando penso possa essere utile prescrivere dei farmaci, lo comunico dicendo che se vogliono possono prenderli o no. Il problema è che alcuni sono abituati allo stregone che dà il medicamento e loro sono obbligati a prenderlo. Se dici che possono scegliere se prendere o no una medicina, li mandi in confusione».
Lo psichiatra deve essere flessibile, anche negli appuntamenti. «Se dici che ci rivediamo tra una settimana a quest’ora, molti non si presentano. Vengono solo quando hanno bisogno, senza fissare un appuntamento. E in quei casi tu devi mostrarti disponibile, facendo in modo di ascoltarli comunque. È un lavoro di tessitura di una relazione». Perché, dice la psichiatra, «dobbiamo distinguere tra accoglienza e ospitalità. Non basta offrire un pasto e un letto ai rifugiati che arrivano in Italia. Bisogna che ci siano operatori che sappiano come approcciarsi a loro. Posso dare agli immigrati anche un albergo a cinque stelle con piscina ma non accoglierli, e invece offrir loro solo una branda ma ascoltarli».
Fonte: Linkiesta.it
Le stiliste musulmane di Mosca combattono gli stereotipi sull'Islam con la moda
Un gruppo di donne musulmane di Mosca ha iniziato a produrre innovativi capi d'abbigliamento, per cercare di combattere gli stereotipi nei loro confronti
Nonostante le moschee siano solamente sei, a Mosca vivono quasi due milioni di musulmani, ovvero il 16 per cento dei 17 milioni di abitanti della capitale russa. Nel continente europeo, la capitale russa è la città con il maggior numero di musulmani.
Secondo quanto riporta il quotidiano The New York Times, negli ultimi decenni in Russia si è però consolidata la tendenza ad associare la religione islamica agli attacchi terroristici avvenuti nel Paese, nonché alle due guerre contro i separatisti in Cecenia e alle continue insurrezioni nel nord del Caucaso.
Le donne musulmane sono state particolarmente stigmatizzate per la diffusa e crescente paura delle cosiddette “vedove nere”, che compiono attentati suicida al fine di vendicare la morte dei propri mariti o familiari.
Dagli inizi del 2014 l'attenzione mediatica in Russia si è però concentrata sui disordini in Ucraina, facendo passare in secondo piano le tensioni con la comunità islamica e con i gruppi musulmani estremisti.
Alcune donne musulmane, approfittando di questo momento di tregua, hanno intravisto un'opportunità per cambiare la percezione del popolo russo nei loro confronti.
Natalia Narmin IchaevaI, convertitasi all'Islam due anni fa, è una specialista in pubbliche relazioni. Insieme a un piccolo gruppo di giovani moscovite musulmane, ha deciso di lottare contro gli stereotipi attraverso la moda, cercando di ridefinire il look dell'Islam in Russia.
In una serie di eventi nella capitale russa, ha promosso oltre 40 brand di moda e prodotti per la cura del corpo legati al mondo musulmano.
Lo scorso maggio ha organizzato un'asta di moda di beneficenza, in cui si potevano incontrare numerose donne che indossavano hijab dai colori sgargianti e vestiti a fiori, azzardavano gli stili moderni proposti dai designer locali, cercavano nuovi cosmetici e si mettevano in posa per scattarsi selfie da postare sui social media.
L'attrice televisiva Nina Kurpyakova, che ha partecipato all'evento, ha poi raccontato: “Mi è stato offerto un bellissimo abito con cui camminare sul red carpert. Non importa di quale religione sia la stilista che lo ha disegnato, lo indosserò sicuramente”.
I rapporti tesi del governo russo con gli Stati Uniti e con l'Europa hanno portato il Cremlino a rafforzare i propri legami con altre zone del mondo, tra cui anche alcuni Paesi del Medio Oriente.
Anche per questa ragione, “i musulmani in Russia non sono più sotto i riflettori", afferma Rezeda Suleyman, una stilista musulmana di 23 anni.
Zulfiya Raupova, una compositrice russa che si dichiara una musulmana laica, a tal proposito ha detto a The New York Times: “È sempre un buon momento per rompere gli stereotipi".
“Ora è diventato più facile uscire con il velo e vendere i nostri vestiti anche a donne non musulmane. Le persone hanno sempre bisogno di avere un nemico: prima erano i musulmani, ora la situazione in Ucraina ha creato nuovi nemici, e possiamo solo sfruttare questo momento per rendere la nostra vita a Mosca più facile”, conclude Suleyman.
Fonte: The Post Internazionale
Un gruppo di fashion designer di Mosca che vuole rilanciare l'immagine delle donne musulmane in Russia. Credit: Natalia Osipova
Nonostante le moschee siano solamente sei, a Mosca vivono quasi due milioni di musulmani, ovvero il 16 per cento dei 17 milioni di abitanti della capitale russa. Nel continente europeo, la capitale russa è la città con il maggior numero di musulmani.
Secondo quanto riporta il quotidiano The New York Times, negli ultimi decenni in Russia si è però consolidata la tendenza ad associare la religione islamica agli attacchi terroristici avvenuti nel Paese, nonché alle due guerre contro i separatisti in Cecenia e alle continue insurrezioni nel nord del Caucaso.
Le donne musulmane sono state particolarmente stigmatizzate per la diffusa e crescente paura delle cosiddette “vedove nere”, che compiono attentati suicida al fine di vendicare la morte dei propri mariti o familiari.
Dagli inizi del 2014 l'attenzione mediatica in Russia si è però concentrata sui disordini in Ucraina, facendo passare in secondo piano le tensioni con la comunità islamica e con i gruppi musulmani estremisti.
Alcune donne musulmane, approfittando di questo momento di tregua, hanno intravisto un'opportunità per cambiare la percezione del popolo russo nei loro confronti.
Natalia Narmin IchaevaI, convertitasi all'Islam due anni fa, è una specialista in pubbliche relazioni. Insieme a un piccolo gruppo di giovani moscovite musulmane, ha deciso di lottare contro gli stereotipi attraverso la moda, cercando di ridefinire il look dell'Islam in Russia.
In una serie di eventi nella capitale russa, ha promosso oltre 40 brand di moda e prodotti per la cura del corpo legati al mondo musulmano.
Lo scorso maggio ha organizzato un'asta di moda di beneficenza, in cui si potevano incontrare numerose donne che indossavano hijab dai colori sgargianti e vestiti a fiori, azzardavano gli stili moderni proposti dai designer locali, cercavano nuovi cosmetici e si mettevano in posa per scattarsi selfie da postare sui social media.
L'attrice televisiva Nina Kurpyakova, che ha partecipato all'evento, ha poi raccontato: “Mi è stato offerto un bellissimo abito con cui camminare sul red carpert. Non importa di quale religione sia la stilista che lo ha disegnato, lo indosserò sicuramente”.
I rapporti tesi del governo russo con gli Stati Uniti e con l'Europa hanno portato il Cremlino a rafforzare i propri legami con altre zone del mondo, tra cui anche alcuni Paesi del Medio Oriente.
Anche per questa ragione, “i musulmani in Russia non sono più sotto i riflettori", afferma Rezeda Suleyman, una stilista musulmana di 23 anni.
Zulfiya Raupova, una compositrice russa che si dichiara una musulmana laica, a tal proposito ha detto a The New York Times: “È sempre un buon momento per rompere gli stereotipi".
“Ora è diventato più facile uscire con il velo e vendere i nostri vestiti anche a donne non musulmane. Le persone hanno sempre bisogno di avere un nemico: prima erano i musulmani, ora la situazione in Ucraina ha creato nuovi nemici, e possiamo solo sfruttare questo momento per rendere la nostra vita a Mosca più facile”, conclude Suleyman.
Fonte: The Post Internazionale
La Birmania libera quasi settemila prigionieri
Le autorità birmane hanno concesso la grazia a 6.966 prigionieri, tra cui 210 stranieri. Il provvedimento, che secondo il governo è basato su “ragioni umanitarie”, arriva alla vigilia delle elezioni a novembre. Non è chiaro se i prigionieri politici birmani siano tra le persone liberate, scrive la Bbc.
Tra le persone messe in libertà ci sono anche 150 taglialegna cinesi, arrestati a gennaio per traffico illegale di legname. Il loro caso aveva provocato le proteste di Pechino.
Si tratta dell’ultima di una serie di amnistie messe in atto dal governo birmano. Diversi prigionieri politici sono stati liberati nei mesi scorsi, sulla base del processo di riforme voluto dal presidente birmano, l’ex generale Thein Sein, al potere dal 2011. Secondo il sito Irrawaddy, in Birmania ci sono ancora più di 150 prigionieri politici.
Fonte: Internazionale
mercoledì 29 luglio 2015
La nuova giunta di Roma
È la terza dall'inizio del mandato di Ignazio Marino: ci sono quattro nuovi assessori
Il sindaco di Roma Ignazio Marino ha annunciato la composizione della sua nuova giunta: in seguito alle dimissioni degli ultimi giorni (dovute all’inchiesta “Mafia Capitale” e alle critiche sul degrado della città) ha dovuto sostituire il vicesindaco Luigi Nieri, l’assessore ai Trasporti Guido Improta e l’assessora al Bilancio Silvia Scozzese. Dall’assessorato alla Cultura è stato scorporato quello al Turismo, che è stato assegnato a Luigina Di Liegro.
Marino ha nominato come nuovo vicesindaco Marco Causi, deputato del PD, assegnandogli anche la delega al Bilancio, compito che ha già svolto sotto la giunta Veltroni. Si occuperà di trasporti Stefano Esposito, senatore PD piemontese e vicepresidente della commissione Lavori pubblici e comunicazioni e membro della commissione antimafia, che era stato nominato commissario del partito sul territorio di Ostia lo scorso febbraio in seguito allo scandalo di “Mafia Capitale”. Esposito in Piemonte è da sempre molto attivo contro i movimenti No Tav. La delega alla Periferie (che finora era del vicesindaco Nieri) è stata infine assegnata a Marco Rossi Doria, già sottosegretario all’Istruzione con i governi Monti e Letta, esperto di istruzione, dispersione scolastica, disagio ed esclusione precoce dei giovani, già “maestro di strada” nei Quartieri Spagnoli a Napoli.
Silvia Scozzese del PD, ex assessore al Bilancio, aveva annunciato le sue dimissioni il 25 luglio parlando di «affievolimento dell’azione riformatrice» e di «lavoro di squadra venuto meno». Guido Improta, assessore alla Mobilità, aveva detto di voler lasciare l’incarico già un mese fa e Marino aveva chiesto esplicitamente le sue dimissioni durante un breve conferenza stampa la scorsa settimana in cui aveva annunciato che ATAC, la criticata azienda municipale che si occupa di trasporto pubblico, era arrivata ormai al fallimento. Martedì 14 luglio si era invece dimesso il vicesindaco Luigi Nieri, di Sinistra Ecologia Libertà, per motivi che avevano a che fare con l’inchiesta “Mafia Capitale” (le sue ragione le aveva raccontate in una lunga lettera pubblicata sul suo sito). Dopo le dimissioni di Nieri, i dirigenti romani si SEL avevano dichiarato che non sarebbero entrati nel nuovo rimpasto di giunta che è dunque composta, dopo le nuove ultime nomine, esclusivamente da esponenti del Partito Democratico.
A circa due anni dalle elezioni, Marino è alla sua terza nuova giunta poiché ha perso, per dimissioni spontanee o richieste, otto assessori su dodici. Il comune di Roma sta attraversando un momento molto difficile e Marino viene spesso viene attaccato anche per episodi nei quali c’entra poco o con motivazioni abbastanza pretestuose, come le improbabili polemiche sulla sua automobile Panda (è capitato anche che Marino abbia involontariamente aiutato i suoi critici con un atteggiamento non proprio conciliante). Tuttavia Roma resta una città con gravi problemi, a partire dalla questione dei trasporti fino a quella dei rifiuti.
Dopo l’inchiesta “Mafia Capitale”, le cose si sono aggravate: il PD romano è stato commissariato, diversi dirigenti sono stati costretti ad abbandonare le loro cariche e l’ostilità nei confronti di Marino è rimasta. Il sindaco non è stato aiutato nemmeno dal fatto che il presidente del Consiglio Matteo Renzi non lo ha quasi mai apertamente difeso. Anzi: per due volte Renzi ha detto che se Marino «non è in grado di governare» allora dovrebbe dimettersi. Lunedì 27 luglio il presidente del Consiglio è stato alla festa del PD di Roma facendo sapere che spetta a Marino andare avanti se ne avrà il coraggio e se riuscirà a fare cose concrete per risollevare la città. In una lettera al Messaggero, Renzi è tornato a parlare di Roma scrivendo: «In queste ore Roma occupa le pagine dei media internazionali per l’incuria, la metropolitana in tilt, le foto del New York Times, la rabbia della sua gente. La capitale d’Italia non si merita questo. Prendersi cura delle piccole grandi cose di ogni giorno, ricostruire luoghi di decoro e di speranza, accudire i luoghi del bello: si può fare. A condizione di volerlo. E di essere all’altezza di una sfida da vertigini». in conclusione Renzi invita Marino «a dare un segnale».
Nell’annunciare la composizione della nuova giunta di Roma, Marino ha risposto così a Renzi: «Ha ragione ad affermare che l’amministrazione della Capitale deve essere valutata per ciò che ha fatto e che fa. Ma voglio anche rispondergli in modo puntuale e preciso dicendogli che sapevo fin da subito che non avrei trovato lo stesso rigore di Stoccolma ma di certo non immaginavo le casse vuote e un debito di quasi un miliardo, la criminalità e la corruzione».
Fonte: Il Post
La nuova giunta del comune di Roma. (Vincenzo Livieri - LaPresse)
Il sindaco di Roma Ignazio Marino ha annunciato la composizione della sua nuova giunta: in seguito alle dimissioni degli ultimi giorni (dovute all’inchiesta “Mafia Capitale” e alle critiche sul degrado della città) ha dovuto sostituire il vicesindaco Luigi Nieri, l’assessore ai Trasporti Guido Improta e l’assessora al Bilancio Silvia Scozzese. Dall’assessorato alla Cultura è stato scorporato quello al Turismo, che è stato assegnato a Luigina Di Liegro.
Marino ha nominato come nuovo vicesindaco Marco Causi, deputato del PD, assegnandogli anche la delega al Bilancio, compito che ha già svolto sotto la giunta Veltroni. Si occuperà di trasporti Stefano Esposito, senatore PD piemontese e vicepresidente della commissione Lavori pubblici e comunicazioni e membro della commissione antimafia, che era stato nominato commissario del partito sul territorio di Ostia lo scorso febbraio in seguito allo scandalo di “Mafia Capitale”. Esposito in Piemonte è da sempre molto attivo contro i movimenti No Tav. La delega alla Periferie (che finora era del vicesindaco Nieri) è stata infine assegnata a Marco Rossi Doria, già sottosegretario all’Istruzione con i governi Monti e Letta, esperto di istruzione, dispersione scolastica, disagio ed esclusione precoce dei giovani, già “maestro di strada” nei Quartieri Spagnoli a Napoli.
Silvia Scozzese del PD, ex assessore al Bilancio, aveva annunciato le sue dimissioni il 25 luglio parlando di «affievolimento dell’azione riformatrice» e di «lavoro di squadra venuto meno». Guido Improta, assessore alla Mobilità, aveva detto di voler lasciare l’incarico già un mese fa e Marino aveva chiesto esplicitamente le sue dimissioni durante un breve conferenza stampa la scorsa settimana in cui aveva annunciato che ATAC, la criticata azienda municipale che si occupa di trasporto pubblico, era arrivata ormai al fallimento. Martedì 14 luglio si era invece dimesso il vicesindaco Luigi Nieri, di Sinistra Ecologia Libertà, per motivi che avevano a che fare con l’inchiesta “Mafia Capitale” (le sue ragione le aveva raccontate in una lunga lettera pubblicata sul suo sito). Dopo le dimissioni di Nieri, i dirigenti romani si SEL avevano dichiarato che non sarebbero entrati nel nuovo rimpasto di giunta che è dunque composta, dopo le nuove ultime nomine, esclusivamente da esponenti del Partito Democratico.
A circa due anni dalle elezioni, Marino è alla sua terza nuova giunta poiché ha perso, per dimissioni spontanee o richieste, otto assessori su dodici. Il comune di Roma sta attraversando un momento molto difficile e Marino viene spesso viene attaccato anche per episodi nei quali c’entra poco o con motivazioni abbastanza pretestuose, come le improbabili polemiche sulla sua automobile Panda (è capitato anche che Marino abbia involontariamente aiutato i suoi critici con un atteggiamento non proprio conciliante). Tuttavia Roma resta una città con gravi problemi, a partire dalla questione dei trasporti fino a quella dei rifiuti.
Dopo l’inchiesta “Mafia Capitale”, le cose si sono aggravate: il PD romano è stato commissariato, diversi dirigenti sono stati costretti ad abbandonare le loro cariche e l’ostilità nei confronti di Marino è rimasta. Il sindaco non è stato aiutato nemmeno dal fatto che il presidente del Consiglio Matteo Renzi non lo ha quasi mai apertamente difeso. Anzi: per due volte Renzi ha detto che se Marino «non è in grado di governare» allora dovrebbe dimettersi. Lunedì 27 luglio il presidente del Consiglio è stato alla festa del PD di Roma facendo sapere che spetta a Marino andare avanti se ne avrà il coraggio e se riuscirà a fare cose concrete per risollevare la città. In una lettera al Messaggero, Renzi è tornato a parlare di Roma scrivendo: «In queste ore Roma occupa le pagine dei media internazionali per l’incuria, la metropolitana in tilt, le foto del New York Times, la rabbia della sua gente. La capitale d’Italia non si merita questo. Prendersi cura delle piccole grandi cose di ogni giorno, ricostruire luoghi di decoro e di speranza, accudire i luoghi del bello: si può fare. A condizione di volerlo. E di essere all’altezza di una sfida da vertigini». in conclusione Renzi invita Marino «a dare un segnale».
Nell’annunciare la composizione della nuova giunta di Roma, Marino ha risposto così a Renzi: «Ha ragione ad affermare che l’amministrazione della Capitale deve essere valutata per ciò che ha fatto e che fa. Ma voglio anche rispondergli in modo puntuale e preciso dicendogli che sapevo fin da subito che non avrei trovato lo stesso rigore di Stoccolma ma di certo non immaginavo le casse vuote e un debito di quasi un miliardo, la criminalità e la corruzione».
Fonte: Il Post
Sanità: ecco cosa cambia con il decreto
Le novità arriveranno con i protocolli del ministro della Salute Lorenzin. Ci sarà una rivoluzione per esami di laboratorio, radiografie, tac, risonanze magnetiche, terapie riabilitative e degenze. Pagheremo di tasca nostra molte prestazioni fino ad ora gratuite
Meno esami, meno ricoveri, meno terapie riabilitative. Sarà probabilmente questa la conseguenza del decreto legge enti locali che ieri ha ricevuto il via libera dal Senato e passa ora alla Camera per l’approvazione definitiva. Il provvedimento, che ha recepito il patto per la salute, introdurrà una stretta su analisi di laboratorio, radiografie, tac, risonanze magnetiche, e non solo. In altre parole, dovremo pagare di tasca nostra molte prestazioni fino ad ora gratuite. Lo spiega bene Roberto Petrini su Repubblica:
Da quando entreranno in vigore, tra circa un mese, i nuovi protocolli-Lorenzin che mantengono a carico dello stato solo analisi di laboratorio e radiografie ritenute «appropriate » cioè utili, il medico dovrà attenersi a precise disposizioni patologia per patologia, accertamento per accertamento. E se prima, ad esempio, avrebbe potuto prescrivere, 3-4 o anche più ecocardiografie all’anno, in futuro potrebbe doversi limitare ad una-due. Lo stesso potrebbe valere per le analisi per colesterolo e trigliceridi: se si ripeteranno prima di cinque anni dovranno essere pagate di tasca propria.
I protocolli-Lorenzin cambieranno anche i tempi tra sintomi e accertamenti, che vengono consigliati quanto i segnali di allarme si aggravano:
Il ministero dovrà stabilire tempi standard tra la presenza del sintomo e l’accertamento, introdurre criteri di età e soprattutto individuare la patologia sospetta che dà diritto all’analisi gratuita: se si indaga per una semplice ernia si pagherà, mentre con tutta probabilità resteranno a carico del sistema sanitario nazionale i sospetti oncologici oppure le complicanze post-chirurgiche.
Il medico di famiglia, intanto, sarà costretto a dirci molti più «no» di ora. Scrive ancora Petrini su Repubblica:
Se non rispetterà i protocolli, per compiacere il paziente o perché vuole mettersi al riparo da grane giudiziarie, rischierà un taglio della propria remunerazione. Chi ha una mutua privata o un’assicurazione potrà sempre cavarsela, gli altri no.
Sono previsti limiti anche alle sedute di riabilitazione (di solito si pensa alla fisioterapia, ma la riabilitazione è necessaria anche per patologie tumorali e dell’apparato respiratorio:
Fino ad oggi non ci sono limiti, con i nuovi protocolli di appropriatezza, le sedute saranno circoscritte a seconda della reale e presunta necessità del paziente. Ad esempio, la protesi d’anca, patologia piuttosto diffusa, che oggi può richiedere anche un mese e mezzo di terapie riabilitative potrebbe essere ridotta a seconda di età, gravità e altri parametri.
Infine, le degenze ospedaliere tradizionali: Aspettiamoci pure, sperando fortemente di non incapparci, meno ricoveri ospedalieri classici e maggiori degenze a casa propria. Ci sono già 108 patologie che possono essere curate a casa con l’ausilio del Day-Hospital.
(Foto da archivio Ansa)
Fonte: Giornalettismo
Meno esami, meno ricoveri, meno terapie riabilitative. Sarà probabilmente questa la conseguenza del decreto legge enti locali che ieri ha ricevuto il via libera dal Senato e passa ora alla Camera per l’approvazione definitiva. Il provvedimento, che ha recepito il patto per la salute, introdurrà una stretta su analisi di laboratorio, radiografie, tac, risonanze magnetiche, e non solo. In altre parole, dovremo pagare di tasca nostra molte prestazioni fino ad ora gratuite. Lo spiega bene Roberto Petrini su Repubblica:
Da quando entreranno in vigore, tra circa un mese, i nuovi protocolli-Lorenzin che mantengono a carico dello stato solo analisi di laboratorio e radiografie ritenute «appropriate » cioè utili, il medico dovrà attenersi a precise disposizioni patologia per patologia, accertamento per accertamento. E se prima, ad esempio, avrebbe potuto prescrivere, 3-4 o anche più ecocardiografie all’anno, in futuro potrebbe doversi limitare ad una-due. Lo stesso potrebbe valere per le analisi per colesterolo e trigliceridi: se si ripeteranno prima di cinque anni dovranno essere pagate di tasca propria.
I protocolli-Lorenzin cambieranno anche i tempi tra sintomi e accertamenti, che vengono consigliati quanto i segnali di allarme si aggravano:
Il ministero dovrà stabilire tempi standard tra la presenza del sintomo e l’accertamento, introdurre criteri di età e soprattutto individuare la patologia sospetta che dà diritto all’analisi gratuita: se si indaga per una semplice ernia si pagherà, mentre con tutta probabilità resteranno a carico del sistema sanitario nazionale i sospetti oncologici oppure le complicanze post-chirurgiche.
Il medico di famiglia, intanto, sarà costretto a dirci molti più «no» di ora. Scrive ancora Petrini su Repubblica:
Se non rispetterà i protocolli, per compiacere il paziente o perché vuole mettersi al riparo da grane giudiziarie, rischierà un taglio della propria remunerazione. Chi ha una mutua privata o un’assicurazione potrà sempre cavarsela, gli altri no.
Sono previsti limiti anche alle sedute di riabilitazione (di solito si pensa alla fisioterapia, ma la riabilitazione è necessaria anche per patologie tumorali e dell’apparato respiratorio:
Fino ad oggi non ci sono limiti, con i nuovi protocolli di appropriatezza, le sedute saranno circoscritte a seconda della reale e presunta necessità del paziente. Ad esempio, la protesi d’anca, patologia piuttosto diffusa, che oggi può richiedere anche un mese e mezzo di terapie riabilitative potrebbe essere ridotta a seconda di età, gravità e altri parametri.
Infine, le degenze ospedaliere tradizionali: Aspettiamoci pure, sperando fortemente di non incapparci, meno ricoveri ospedalieri classici e maggiori degenze a casa propria. Ci sono già 108 patologie che possono essere curate a casa con l’ausilio del Day-Hospital.
(Foto da archivio Ansa)
Fonte: Giornalettismo
Il dramma dei migranti, costretti a mentire per diventare rifugiati
Quest’anno sempre più arrivi dall’Africa subsahariana. E c’è chi crea un passato di persecuzioni per ottenere lo status di rifugiato
Cristina Giudici
Fra i profughi non esattamente profughi, cioè migliaia di migranti economici scappati dalla miseria, ma non dalle guerre o dalle persecuzioni, ora si è diffuso un nuovo mestiere: lo storyteller. E cioè quello del cantastorie che, per pochi euro, inventa e vende tragiche vicende da sottoporre alle commissioni preposte a valutare se concedere lo status dei rifugiati ai richiedenti asilo.
In questa emergenza umanitaria che ormai è diventata strutturale (e dal gennaio del 2015 ha portato in Italia oltre 100 mila persone sbarcate in Sicilia), c’è chi usa la fantasia per aggrapparsi agli scogli dell’Europa. Linkiesta lo ha appreso in un viaggio nei centri di accoglienza, dove vengono portati quelli che chiedono di restare in Italia. In attesa di entrare nel circuito-girone che dura in media un anno, spesso due, prima di sapere se avranno o meno lo status di rifugiato o una protezione umanitaria.
Perché mentre a Bruxelles si litiga ancora per definire le quote dei profughi da ridistribuire o ricollocare in tutti i Paesi membri dell’Unione Europea, in Italia ci si arrangia come si può. E spesso, per timore di offendere il sentimento politicamente corretto che induce alla lecita e doverosa pietas verso chi ci chiede aiuto e protezione, si preferisce ignorare un fatto evidente: il flusso dell’immigrazione illegale è cambiato. La maggior parte dei migranti salvati nel Canale di Libia nel 2015 non sono più solamente siriani ed eritrei, ma sempre più spesso africani subsahariani, che fuggono soprattutto dalla miseria.
Migranti economici, quindi, non profughi. Per rendersene conto basta varcare le soglie di un centro di accoglienza della Sicilia orientale. Come quello di Città Giardino, in provincia di Siracusa, dove dopo due o tre giorni da uno sbarco, chi scrive questo articolo ha trovato solo donne nigeriane. Che, interpellate da Linkiesta, hanno dato motivazioni bizzarre per spiegare come mai abbiano attraversato il deserto e viaggiato sui barconi e/o gommoni con il terrore di annegare.
Mary per esempio, 22 anni, ci ha raccontato una storia confusa su una maledizione, un rito malefico legato alle credenze ancestrali del suo villaggio, subito dalla famiglia di suo marito, che l’avrebbe costretta a scappare. Mary, quindi, arrivata da sola con un neonato fra le braccia, sarebbe venuta in Italia per colpa di una witch: una strega. Anche Blasy, 20 anni, spiega di essere fuggita dalla Nigeria per sottrarsi alle violenze domestiche di un marito padrone. Ed è difficile sapere se stia raccontando la verità.
Secondo gli operatori umanitari che le hanno accolte, è improbabile che entrambe vengano rimpatriate. Perché non si può rimandare indietro una giovane donna con un figlio, che ha affrontato il viaggio nel deserto, subito le torture fisiche e psicologiche da parte dei trafficanti in Libia. E sfidato la sorte su un gommone. E forse è anche giusto sia così. Ma è anche giusto dire come stanno le cose: ormai l’esodo che spinge verso le coste siciliane è cambiato. A scendere dai mercantili, dalle navi della Guardia Costiera, sono soprattutto africani subsahariani che vengono dalla Nigeria, dal Gambia, dal Ghana, dal Mali e dal Senegal.
I poliziotti che ogni giorno accolgono centinaia di migranti nei porti stanno raccogliendo testimonianze che negli ultimi mesi riportano più o meno tutti la stessa versione dei fatti. E cioè che hanno lasciato i loro villaggi inariditi dalla siccità e bruciati dalla miseria per andare a lavorare in Libia. E non avevano alcuna intenzione di venire in Europa. Sono arrivati in Italia perché costretti a salire sui barconi dai trafficanti libici oppure perché la guerra fra le milizie, l’instabilità economica e politica ha reso la loro permanenza in Libia troppo pericolosa.
Una volta arrivati qui, per restare in Europa, per essere accolti, si inventano storie di persecuzioni, che non possono essere verificate. E infatti basta andare a Bresso, nell’hub lombardo per profughi gestito dalla Croce Rossa, per rendersene conto. Dopo diverse ore passate all’ingresso della caserma trasformata in un centro di accoglienza, che accoglie e smista ogni giorno centinaia di profughi arrivati in pullman dalla Sicilia, abbiamo trovato solo un profugo che aveva l’aria di esserlo: Mohamed, afghano, arrivato a Venezia, attraverso la Turchia, per sfuggire all’ira dei talebani.
Ad uscire e ad entrare dal centro di Bresso, a cui la stampa non ha accesso, sono soprattutto africani. Del Senegal e del Mali. Sbarcati in Sicilia nell’ultimo mese. Questo è il caso in cui le statistiche, i dati, servono a comprendere parzialmente ciò che accade. Sappiamo che nel 2014 le richieste di asilo in Italia sono state 64mila, di cui sono state esaminate meno della metà. E si è verificato un aumento, in un anno, rispetto al 2013, del 143% delle richieste, alle quali fino ad oggi, nel 2015, se ne sono aggiunte altre 20mila, ma esiste un’anomalia italiana (un'altra?).
Nella classifica delle nazionalità dei richiedenti asilo in Italia, al primo posto si trovano migranti del Gambia, seguiti da quelli del Senegal e della Nigeria, del Mali. Paesi in balia di crisi strutturali economiche e sociali, non dilaniati da guerre civili, persecuzioni religiose o politiche. Perché i profughi veri, quelli che vengono dalla Somalia, dall’Eritrea e dalla Siria, in Italia non ci restano. E proseguono verso Nord, in Germania, in Francia, in Svezia.
E infatti nel primo trimestre del 2015, su 10mila richieste di asilo, in Italia, la metà sono state rifiutate.
E forse non è un caso se un ragazzo del Senegal, uscito dal centro-hub di Bresso - che si toglie gli occhiali per farci vedere una ferita sulla guancia destra dicendo «Nel mio Paese sono perseguitato», ma senza riuscire a spiegare da chi e perché - susciti un sorriso compassionevole, ma al contempo scettico da parte dei volontari che lo hanno accolto. E allora nell’anomalia italiana, è normale che si arrangi come si può.
Il traffico degli esseri umani fa leva sulle speranze di un destino migliore, sulla miseria, sulle povertà. E per non tornare al punto di partenza si è disposti a fare qualsiasi cosa. Anche a vendere storie di persecuzioni mai subite. E allora davanti a questo esodo che spinge migliaia di africani subsahariani sui barconi e gommoni dalla Libia, che provoca stragi nel canale di Sicilia, i casi sono due: o si cerca di fermare il traffico, creando un corridoio umanitario laddove si crea il traffico, per arginarlo e fermare le stragi in mare. O si cambiano i criteri per stabilire chi è profugo e ha diritto a una protezione umanitaria. Anche per ragioni economiche.
Fonte: Linkiesta.it
Cristina Giudici
(ALFONSO DI VINCENZO/AFP/Getty Images)
Fra i profughi non esattamente profughi, cioè migliaia di migranti economici scappati dalla miseria, ma non dalle guerre o dalle persecuzioni, ora si è diffuso un nuovo mestiere: lo storyteller. E cioè quello del cantastorie che, per pochi euro, inventa e vende tragiche vicende da sottoporre alle commissioni preposte a valutare se concedere lo status dei rifugiati ai richiedenti asilo.
In questa emergenza umanitaria che ormai è diventata strutturale (e dal gennaio del 2015 ha portato in Italia oltre 100 mila persone sbarcate in Sicilia), c’è chi usa la fantasia per aggrapparsi agli scogli dell’Europa. Linkiesta lo ha appreso in un viaggio nei centri di accoglienza, dove vengono portati quelli che chiedono di restare in Italia. In attesa di entrare nel circuito-girone che dura in media un anno, spesso due, prima di sapere se avranno o meno lo status di rifugiato o una protezione umanitaria.
Perché mentre a Bruxelles si litiga ancora per definire le quote dei profughi da ridistribuire o ricollocare in tutti i Paesi membri dell’Unione Europea, in Italia ci si arrangia come si può. E spesso, per timore di offendere il sentimento politicamente corretto che induce alla lecita e doverosa pietas verso chi ci chiede aiuto e protezione, si preferisce ignorare un fatto evidente: il flusso dell’immigrazione illegale è cambiato. La maggior parte dei migranti salvati nel Canale di Libia nel 2015 non sono più solamente siriani ed eritrei, ma sempre più spesso africani subsahariani, che fuggono soprattutto dalla miseria.
Migranti economici, quindi, non profughi. Per rendersene conto basta varcare le soglie di un centro di accoglienza della Sicilia orientale. Come quello di Città Giardino, in provincia di Siracusa, dove dopo due o tre giorni da uno sbarco, chi scrive questo articolo ha trovato solo donne nigeriane. Che, interpellate da Linkiesta, hanno dato motivazioni bizzarre per spiegare come mai abbiano attraversato il deserto e viaggiato sui barconi e/o gommoni con il terrore di annegare.
Mary per esempio, 22 anni, ci ha raccontato una storia confusa su una maledizione, un rito malefico legato alle credenze ancestrali del suo villaggio, subito dalla famiglia di suo marito, che l’avrebbe costretta a scappare. Mary, quindi, arrivata da sola con un neonato fra le braccia, sarebbe venuta in Italia per colpa di una witch: una strega. Anche Blasy, 20 anni, spiega di essere fuggita dalla Nigeria per sottrarsi alle violenze domestiche di un marito padrone. Ed è difficile sapere se stia raccontando la verità.
Secondo gli operatori umanitari che le hanno accolte, è improbabile che entrambe vengano rimpatriate. Perché non si può rimandare indietro una giovane donna con un figlio, che ha affrontato il viaggio nel deserto, subito le torture fisiche e psicologiche da parte dei trafficanti in Libia. E sfidato la sorte su un gommone. E forse è anche giusto sia così. Ma è anche giusto dire come stanno le cose: ormai l’esodo che spinge verso le coste siciliane è cambiato. A scendere dai mercantili, dalle navi della Guardia Costiera, sono soprattutto africani subsahariani che vengono dalla Nigeria, dal Gambia, dal Ghana, dal Mali e dal Senegal.
I poliziotti che ogni giorno accolgono centinaia di migranti nei porti stanno raccogliendo testimonianze che negli ultimi mesi riportano più o meno tutti la stessa versione dei fatti. E cioè che hanno lasciato i loro villaggi inariditi dalla siccità e bruciati dalla miseria per andare a lavorare in Libia. E non avevano alcuna intenzione di venire in Europa. Sono arrivati in Italia perché costretti a salire sui barconi dai trafficanti libici oppure perché la guerra fra le milizie, l’instabilità economica e politica ha reso la loro permanenza in Libia troppo pericolosa.
Una volta arrivati qui, per restare in Europa, per essere accolti, si inventano storie di persecuzioni, che non possono essere verificate. E infatti basta andare a Bresso, nell’hub lombardo per profughi gestito dalla Croce Rossa, per rendersene conto. Dopo diverse ore passate all’ingresso della caserma trasformata in un centro di accoglienza, che accoglie e smista ogni giorno centinaia di profughi arrivati in pullman dalla Sicilia, abbiamo trovato solo un profugo che aveva l’aria di esserlo: Mohamed, afghano, arrivato a Venezia, attraverso la Turchia, per sfuggire all’ira dei talebani.
Ad uscire e ad entrare dal centro di Bresso, a cui la stampa non ha accesso, sono soprattutto africani. Del Senegal e del Mali. Sbarcati in Sicilia nell’ultimo mese. Questo è il caso in cui le statistiche, i dati, servono a comprendere parzialmente ciò che accade. Sappiamo che nel 2014 le richieste di asilo in Italia sono state 64mila, di cui sono state esaminate meno della metà. E si è verificato un aumento, in un anno, rispetto al 2013, del 143% delle richieste, alle quali fino ad oggi, nel 2015, se ne sono aggiunte altre 20mila, ma esiste un’anomalia italiana (un'altra?).
Nella classifica delle nazionalità dei richiedenti asilo in Italia, al primo posto si trovano migranti del Gambia, seguiti da quelli del Senegal e della Nigeria, del Mali. Paesi in balia di crisi strutturali economiche e sociali, non dilaniati da guerre civili, persecuzioni religiose o politiche. Perché i profughi veri, quelli che vengono dalla Somalia, dall’Eritrea e dalla Siria, in Italia non ci restano. E proseguono verso Nord, in Germania, in Francia, in Svezia.
E infatti nel primo trimestre del 2015, su 10mila richieste di asilo, in Italia, la metà sono state rifiutate.
E forse non è un caso se un ragazzo del Senegal, uscito dal centro-hub di Bresso - che si toglie gli occhiali per farci vedere una ferita sulla guancia destra dicendo «Nel mio Paese sono perseguitato», ma senza riuscire a spiegare da chi e perché - susciti un sorriso compassionevole, ma al contempo scettico da parte dei volontari che lo hanno accolto. E allora nell’anomalia italiana, è normale che si arrangi come si può.
Il traffico degli esseri umani fa leva sulle speranze di un destino migliore, sulla miseria, sulle povertà. E per non tornare al punto di partenza si è disposti a fare qualsiasi cosa. Anche a vendere storie di persecuzioni mai subite. E allora davanti a questo esodo che spinge migliaia di africani subsahariani sui barconi e gommoni dalla Libia, che provoca stragi nel canale di Sicilia, i casi sono due: o si cerca di fermare il traffico, creando un corridoio umanitario laddove si crea il traffico, per arginarlo e fermare le stragi in mare. O si cambiano i criteri per stabilire chi è profugo e ha diritto a una protezione umanitaria. Anche per ragioni economiche.
Fonte: Linkiesta.it
E se a comandare fossero le donne?
Di Marco Cedolin
Sembra un'opinione comune abbastanza diffusa, quella che se fossero le donne a detenere i posti di potere, attualmente occupati in larga parte dagli uomini, ci ritroveremmo in una società migliore, dove la violenza e le guerre diminuirebbero radicalmente, mentre verrebbero recuperate equità e giustizia sociale. Impossibile non domandarsi se questa opinione corrisponda alla verità e se davvero le donne al potere possano essere garanzia di un "mondo migliore".....
Volgendo lo sguardo verso le donne che detengono o hanno detenuto ruoli di potere, in Italia e nel mondo, in tutta onestà non si potrebbe che essere scettici. Le donne entrate in politica, nel PD come nel PDL, non sono sicuramente state migliori dei loro colleghi uomini ed un personaggio come Elsa Fornero si è distinta senza ombra di dubbio come il peggior ministro dal dopoguerra ad oggi. Parimenti sarebbe davvero difficile ritenere una Hillary Clinton migliore di Obama, una Condoleezza Rice migliore di Bush, una Christine Lagarde più umana di Draghi, una Margareth Thatcher più pacifista di Blair, una Tzipi Livni più attenta ai diritti umani di Netanyahu, una Angela Merkel più buona di Schroder, una Susanna Camusso più vicina ai lavoratori di quanto non lo fosse Epifani, una Boschi migliore (forse più in carne) di Fassino, una Mogherini più valida di Frattini e via discorrendo.
Ciò nonostante non possiamo nasconderci il fatto che in tutti questi casi si tratta di donne inserite al potere all'interno di una società di stampo patriarcale come quella attuale. Se all'interno di una società patriarcale, le donne che salgono al potere non si manifestano assolutamente migliori degli uomini, ciò non significa comunque che una società di tipo matriarcale non possa rivelarsi migliore rispetto a quella attuale.
Gli esempi che c'inducono a fare una riflessione in questo senso sono molti e riguardano sia il passato che il presente. Tanto le varie società matriarcali che si sono succedute nel corso della storia, quanto le poche comunità matriarcali che sopravvivono ancora oggi, praticamente in tutti i continenti tranne l'Europa, mostrano un'organizzazione sociale di tipo mutualistico, attenta al principio di equità, basata sulla reciprocità ed in sintonia con i cicli della natura. In pratica si tratta di comunità, spesso dedite all'autoproduzione, molto più vicine allo spirito di una società della decrescita (così come l'hanno immaginata Pallante o Latouche) piuttosto che non al turbocapitalismo globalizzato che stiamo sperimentando in tutti i suoi effetti nocivi sulla nostra pelle.
Una direzione, quella del matriarcato, nella quale sarebbe dunque bene volgere lo sguardo con interesse e senza preconcetti di sorta, perchè anche se è vero che oggi la donna al potere non è assolutamente migliore dell'uomo, questo non signica che una società "gestita dalle donne" non abbia nulla da insegnarci, anzi al contrario lo spirito che ha permeato molte delle società matriarcali potrebbe sicuramente aiutarci ad uscire dalla gabbia che ci siamo costruiti con le nostre mani.
Fonte: IL CORROSIVO di marco cedolin
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Turchia. Le mire Imperiali di Ankara
Di Daniele Cardetta
A parole la Turchia ha detto di voler colpire lo Stato Islamico dopo l’attentato di Suruc realizzato da un kamikaze ventenne ai danni di un gruppo di giovani socialisti che volevano recarsi a Kobane per aiutare a ricostruire la città devastata dagli attacchi del Califfato. A parole perchè nella realtà ogni azione dei militari turchi è sembrata volta più a colpire il Pkk che lo Stato Islamico, al punto che molti analisti ritengono che siano proprio i curdi il vero obiettivo delle mire di Erdogan, ossessionato che nel nord della Siria possa nascere l’embrione di uno stato curdo. Eppure sono stati proprio i curdi a fare da carne da macello contro l’Isis quando alla fine del 2014 gli uomini del Califfo tentavano di attaccare Kobane, e a fronteggiare sul terreno i miliziani jihadisti c’era in prima fila proprio il Pkk, niente altro che una sigla terroristica secondo Ankara. E ora Erdogan procede speditamente con il suo piano, quello di creare delle zone cuscinetto nel nord della Siria, magari ottenendo persino il via libera da parte della coalizione a guida americana. La Nato infatti potrebbe anche accettare che i turchi entrino in Siria per creare delle “fasce di sicurezza”, ma sembra altrettanto chiaro che i turchi non useranno tali zone per arginare l’Isis quanto piuttosto per colpire il Pkk.
Dopo quattro anni di politiche assenti e di finanziamento acritico a chiunque prendesse le armi contro Assad in Siria, che peraltro prima del 2011 era alleato di Ankara, ecco che la Turchia sta pensando di intervenire direttamente, e a poco servono le parole del segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, che ha precisato come non ci saranno aiuti militari e la Turchia dovrà “esercitare un’auto-difesa proporzionata per non vanificare i colloqui di pace con il Pkk“. Parole vuote dato che Erdogan ha già deciso di utilizzare le maniere forti contro il Pkk, almeno da quando il partito curdo Hdp ha ottenuto ottimi risultati nelle ultime elezioni entrando nel Parlamento turco. Ciò che turba i sonni del Sultano Erdogan è l’esistenza del corridoio curdo, ovvero un territorio che i guerriglieri curdi sono riusciti a conquistare all’Isis a seguito di aspri combattimenti, unificando due dei tre cantoni del Rojava, ovvero quelli di Hasaka e Kobane. I curdi hanno quindi creato i presupposti per unire la parte occidentale di Afrin a quella orientale del Rojava, ponendo quindi le basi per un embrione di futuro stato curdo. Ad Ankara questo rappresenta un incubo, e poco importa se riguarda il territorio siriano e quindi dovrebbe essere al di fuori della giurisdizione della Turchia. La Nato e la comunità internazionale non sembrano interessate a fermare Erdogan, di conseguenza ecco spiegato l’improvviso impegno turco, ancor più che il vero timore è che i curdi siriani possano unificarsi al Kurdistan iracheno di Massud Barzani.
Ma l’altro aspetto che manda in bestia Erdogan è che questi quattro anni di guerra in Siria hanno mostrato il vero volto della Turchia, per nulla ostile o comunque ambiguo nei confronti dei tagliagole dell’Isis, duro nei confronti del Partito Marxista Leninista dei Lavoratori, quel Pkk di Ocalan che ora tutto il mondo conosce come una organizzazione in prima fila contro il terrorismo islamico. Quello che nessuno dice è che Erdogan ha formato una coalizione del “terrore” assieme all’Arabia Saudita, un’alleanza sunnita che continua a seminare morte in Siria e in Iraq e che potrebbe fare gli interessi di Ankara in una futura spartizione della regione. Da qui il vero obiettivo di Erdogan, ovvero quello di ottenere il permesso dalla Nato di entrare in Siria e magari di creare una zona cuscinetto fino ad Aleppo tramite la quale finanziare i ribelli contro Assad e sabotare i territori sotto controllo curdo. Proprio Erdogan aveva detto in passato: “La Turchia è la Siria, la Siria è la Turchia“, lasciando capire come ad Ankara abbiano ambizioni del tutto imperiali e come forse il loro unico obiettivo sia proprio quello di espandersi inseguendo vecchi sogni imperiali.
Se anche Erdogan mostra il suo vero volto, l’Occidente continua a ritenere la Turchia un prezioso alleato mentre il governo siriano sotto attacco da cinque anni da parte dei jihadisti continua a essere ritenuto inaccettabile e impresentabile. Misteri della realpolitik.
Fonte: OltremediaNews
martedì 28 luglio 2015
La guerra confusa della Turchia
Sta combattendo contro l'ISIS ma anche contro i curdi (che intanto combattono l'ISIS), non ha ancora un governo e deve affrontare anche rivolte e proteste: una guida, per capire
di Ishaan Tharoor – Washington Post
Dopo mesi di relativa inattività, l’esercito della Turchia si è messo in moto alla fine della settimana scorsa, bombardando alcune postazioni militari dello Stato Islamico (ISIS) oltre il confine con la Siria. L’ISIS però non era l’unico obiettivo dell’esercito turco: i caccia hanno bombardato anche le basi del PKK, il Partito Dei Lavoratori Curdi, nelle zone montagnose del Kurdistan iracheno. Il PKK è un partito politico e un gruppo armato curdo che per decenni ha combattuto per creare uno stato autonomo per i curdi e che è stato dichiarato fuorilegge in Turchia, nonostante il cessate il fuoco firmato nel 2013.
Quella fragile pace oggi è a tutti gli effetti morta, e i bombardamenti turchi sono l’ultima episodio di violenza nel paese. La polizia turca negli ultimi tempi ha fermato e arrestato più di mille presunti militanti dell’ISIS, del PKK e di movimenti di sinistra: ma soprattutto del PKK e della sinistra, e non dell’ISIS. Nel frattempo il governo turco ha stretto un accordo con gli Stati Uniti per permettere ai caccia e ai droni statunitensi di partire dalla base NATO di Incirlik.
Insomma, la situazione geopolitica si sta complicando, torna utile una guida per capire contro chi sta combattendo la Turchia.
Contro lo Stato Islamico
Per molti mesi i governi occidentali e i gruppi locali di opposizione – soprattutto le fazioni curde nel sudest della Turchia – hanno chiesto al governo turco di affrontare più aggressivamente lo Stato Islamico. L’ISIS negli ultimi mesi ha consolidato la sua posizione in parte della Siria e nell’Iraq grazie ad armi, soldati e denaro passati attraverso il poroso confine che separa la Turchia dalla Siria. Alcuni hanno persino accusato il presidente della Turchia, Recep Tayyip Erdogan, di aver tacitamente ma volutamente permesso all’ISIS di rafforzarsi, pensando che questo avrebbe portato all’indebolimento dei curdi da entrambe le parti del confine. Il governo di Ankara ha smentito queste accuse.
Nelle prime fasi della guerra in Siria, Erdogan era il più esplicito tra i leader mondiali nel volere la deposizione del presidente siriano Bashar al-Assad. La campagna militare della Casa Bianca contro lo Stato Islamico non ha fatto contenti Erdogan e i suoi alleati, che avrebbero voluto un maggiore intervento internazionale contro Assad e il suo regime. Oggi invece la Turchia acconsente a far partire i raid aerei statunitensi dalla base NATO di Incirlik: è una svolta notevole. L’accordo tra Stati Uniti e Turchia per la creazione di quella che di fatto sarebbe una “zona sicura” sul confine tra Siria e Turchia arriva dopo che per molto tempo le richieste turche di istituire una “no-fly zone” nel nord della Siria e fornire sostegno internazionale ai rifugiati non erano finite da nessuna parte.
Le cose sono cambiate dopo che la settimana scorsa un attentatore suicida affiliato all’ISIS ha ucciso decine di giovani attivisti, soprattutto curdi, nella città di Suruc. La Turchia ha bombardato postazioni militari dell’ISIS e ha arrestato diversi presunti militanti dell’ISIS a Istanbul e in altre città turche. Ma tra le persone fermate, molte fanno invece parte del PKK, la fazione curda separatista che sia la Turchia che gli Stati Uniti considerano un gruppo terrorista. Gli aerei da guerra della Turchia hanno bombardato anche le postazioni del PKK in Iraq e la settimana corsa alcuni presunti militanti del PKK sono stati accusati di aver attaccato la polizia turca.
Il PKK è diventato negli anni Ottanta il principale gruppo militare a combattere per la creazione di uno Stato per i curdi, la cui identità è stata brutalmente repressa per decenni dalla Turchia. Si stima che in trent’anni circa 40.000 curdi sono morti nelle ostilità con la Turchia: questo finché nel 2013 Abdullah Ocalan, il capo del PKK attualmente incarcerato, non ha annunciato una tregua. Ma oggi il controllo che Ocalan esercita sul gruppo si è molto ridotto, e una parte più estrema del PKK chiede un confronto più aggressivo con la Turchia, dato che il processo di pace non sta producendo risultati.
Il governo americano dice che i bombardamenti turchi sul PKK non hanno niente a che fare con loro e con la guerra contro lo Stato Islamico. Ma nella retorica del governo turco la guerra contro l’ISIS e quella contro il PKK sono parte della stessa lotta contro i terroristi. Dal punto di vista ideologico, il PKK non potrebbe essere più distante dall’ISIS: è un partito marxista-leninista con una leadership secolarizzata. Le foto delle donne combattenti con il PKK e altre fazioni curde sono uno dei tanti simboli di affinità dei curdi con i valori liberali occidentali, piuttosto che con quelli dell’ISIS. Inoltre il PKK e le altre fazioni curde hanno perso centinaia di militanti proprio negli scontri con l’ISIS.
Contro i curdi siriani
Le milizie curde siriane oltre il confine che separa Siria e Turchia dicono che anche loro sono state bombardate dalla Turchia: sostengono che un carroarmato turco abbia colpito un paese siriano – sostenuto dai ribelli del Free Syria Army e protetto dalle milizie curde – ferendo quattro persone. Un funzionario del governo turco ha detto ad AFP che il governo non intende attaccare il YPG, l’esercito nazionale del Kurdistan siriano.
Il YPG, che ha legami diretti con il PKK, è un problema per il governo turco. Nell’ultimo anno ha respinto l’ISIS e ha guadagnato molto terreno in Siria: una buona notizia dal punto di vista dell’indebolimento dello Stato Islamico ma anche per le rivendicazioni dei curdi che vogliono ottenere un loro Stato. A Diyarbakir, la più importante città turca a maggioranza curda nel sudest del paese, i muri del centro storico sono pieni di scritti e murales che inneggiano ai curdi siriani. Centinaia di giovani curdi hanno lasciato le loro case da Diyarbakir e dai paesi vicini per unirsi ai combattimenti contro l’ISIS in Siria.
Il mese scorso un portavoce del partito dei curdi siriani ha detto che qualsiasi intervento militare della Turchia in Siria sarebbe considerato un atto di «aggressione» perpetrato da «invasori». Dall’altro lato, invece, il governo turco ha detto più volte che i curdi siriani sono alleati del regime di Assad, solo perché entrambi combattono l’ISIS: e infatti questa definizione è trattata con molto scetticismo dagli osservatori internazionali e negata dai curdi.
Un altro gruppo che ha un ruolo in questa faccenda è il DHKP-C, un gruppo marxista estremista che in passato ha condotto attacchi violenti contro politici e poliziotti turchi, compreso un attentato suicida lo scorso gennaio. Un membro del DHKP-C è morto durante le operazioni di polizia turche dello scorso venerdì. La sua morte ha generato due giorni di rivolte e violenze nel quartiere Gazi di Istanbul, dove gli abitanti sono in maggioranza contrari al governo di Erdogan. Domenica durante le rivolte un agente di polizia è stato colpito al petto da un colpo di pistola ed è morto.
Questa situazione caotica arriva in un momento delicato anche dal punto di vista politico: in Turchia si sta ancora tentando di mettere insieme un governo dopo le elezioni dello scorso giugno, che hanno visto il partito di Erdogan perdere la maggioranza parlamentare per la prima volta in dieci anni. Il partito di Erdogan ha perso seggi soprattutto nei confronti dell’HDP, una coalizione di sinistra che comprende anche movimenti curdi, alcuni direttamente collegati al PKK. Il leader dell’HDP, Selahattin Demirtas, lunedì ha accusato Erdogan e i suoi alleati di giocare col fuoco e di voler provocare un collasso dell’intera regione pur di sollevare un clima anti-curdi in vista di prossime eventuali nuove elezioni. «Un governo temporaneo con un primo ministro temporaneo stanno trascinando passo dopo passo il paese in una guerra civile», ha detto Demirtas.
Fonte: Il Post
Un manifestante davanti a una barricata durante le rivolte del 26 luglio a Istanbul. (OZAN KOSE/AFP/Getty Images)
di Ishaan Tharoor – Washington Post
Dopo mesi di relativa inattività, l’esercito della Turchia si è messo in moto alla fine della settimana scorsa, bombardando alcune postazioni militari dello Stato Islamico (ISIS) oltre il confine con la Siria. L’ISIS però non era l’unico obiettivo dell’esercito turco: i caccia hanno bombardato anche le basi del PKK, il Partito Dei Lavoratori Curdi, nelle zone montagnose del Kurdistan iracheno. Il PKK è un partito politico e un gruppo armato curdo che per decenni ha combattuto per creare uno stato autonomo per i curdi e che è stato dichiarato fuorilegge in Turchia, nonostante il cessate il fuoco firmato nel 2013.
Quella fragile pace oggi è a tutti gli effetti morta, e i bombardamenti turchi sono l’ultima episodio di violenza nel paese. La polizia turca negli ultimi tempi ha fermato e arrestato più di mille presunti militanti dell’ISIS, del PKK e di movimenti di sinistra: ma soprattutto del PKK e della sinistra, e non dell’ISIS. Nel frattempo il governo turco ha stretto un accordo con gli Stati Uniti per permettere ai caccia e ai droni statunitensi di partire dalla base NATO di Incirlik.
Insomma, la situazione geopolitica si sta complicando, torna utile una guida per capire contro chi sta combattendo la Turchia.
Contro lo Stato Islamico
Per molti mesi i governi occidentali e i gruppi locali di opposizione – soprattutto le fazioni curde nel sudest della Turchia – hanno chiesto al governo turco di affrontare più aggressivamente lo Stato Islamico. L’ISIS negli ultimi mesi ha consolidato la sua posizione in parte della Siria e nell’Iraq grazie ad armi, soldati e denaro passati attraverso il poroso confine che separa la Turchia dalla Siria. Alcuni hanno persino accusato il presidente della Turchia, Recep Tayyip Erdogan, di aver tacitamente ma volutamente permesso all’ISIS di rafforzarsi, pensando che questo avrebbe portato all’indebolimento dei curdi da entrambe le parti del confine. Il governo di Ankara ha smentito queste accuse.
Nelle prime fasi della guerra in Siria, Erdogan era il più esplicito tra i leader mondiali nel volere la deposizione del presidente siriano Bashar al-Assad. La campagna militare della Casa Bianca contro lo Stato Islamico non ha fatto contenti Erdogan e i suoi alleati, che avrebbero voluto un maggiore intervento internazionale contro Assad e il suo regime. Oggi invece la Turchia acconsente a far partire i raid aerei statunitensi dalla base NATO di Incirlik: è una svolta notevole. L’accordo tra Stati Uniti e Turchia per la creazione di quella che di fatto sarebbe una “zona sicura” sul confine tra Siria e Turchia arriva dopo che per molto tempo le richieste turche di istituire una “no-fly zone” nel nord della Siria e fornire sostegno internazionale ai rifugiati non erano finite da nessuna parte.
Le cose sono cambiate dopo che la settimana scorsa un attentatore suicida affiliato all’ISIS ha ucciso decine di giovani attivisti, soprattutto curdi, nella città di Suruc. La Turchia ha bombardato postazioni militari dell’ISIS e ha arrestato diversi presunti militanti dell’ISIS a Istanbul e in altre città turche. Ma tra le persone fermate, molte fanno invece parte del PKK, la fazione curda separatista che sia la Turchia che gli Stati Uniti considerano un gruppo terrorista. Gli aerei da guerra della Turchia hanno bombardato anche le postazioni del PKK in Iraq e la settimana corsa alcuni presunti militanti del PKK sono stati accusati di aver attaccato la polizia turca.
Il PKK è diventato negli anni Ottanta il principale gruppo militare a combattere per la creazione di uno Stato per i curdi, la cui identità è stata brutalmente repressa per decenni dalla Turchia. Si stima che in trent’anni circa 40.000 curdi sono morti nelle ostilità con la Turchia: questo finché nel 2013 Abdullah Ocalan, il capo del PKK attualmente incarcerato, non ha annunciato una tregua. Ma oggi il controllo che Ocalan esercita sul gruppo si è molto ridotto, e una parte più estrema del PKK chiede un confronto più aggressivo con la Turchia, dato che il processo di pace non sta producendo risultati.
Il governo americano dice che i bombardamenti turchi sul PKK non hanno niente a che fare con loro e con la guerra contro lo Stato Islamico. Ma nella retorica del governo turco la guerra contro l’ISIS e quella contro il PKK sono parte della stessa lotta contro i terroristi. Dal punto di vista ideologico, il PKK non potrebbe essere più distante dall’ISIS: è un partito marxista-leninista con una leadership secolarizzata. Le foto delle donne combattenti con il PKK e altre fazioni curde sono uno dei tanti simboli di affinità dei curdi con i valori liberali occidentali, piuttosto che con quelli dell’ISIS. Inoltre il PKK e le altre fazioni curde hanno perso centinaia di militanti proprio negli scontri con l’ISIS.
Contro i curdi siriani
Le milizie curde siriane oltre il confine che separa Siria e Turchia dicono che anche loro sono state bombardate dalla Turchia: sostengono che un carroarmato turco abbia colpito un paese siriano – sostenuto dai ribelli del Free Syria Army e protetto dalle milizie curde – ferendo quattro persone. Un funzionario del governo turco ha detto ad AFP che il governo non intende attaccare il YPG, l’esercito nazionale del Kurdistan siriano.
Il YPG, che ha legami diretti con il PKK, è un problema per il governo turco. Nell’ultimo anno ha respinto l’ISIS e ha guadagnato molto terreno in Siria: una buona notizia dal punto di vista dell’indebolimento dello Stato Islamico ma anche per le rivendicazioni dei curdi che vogliono ottenere un loro Stato. A Diyarbakir, la più importante città turca a maggioranza curda nel sudest del paese, i muri del centro storico sono pieni di scritti e murales che inneggiano ai curdi siriani. Centinaia di giovani curdi hanno lasciato le loro case da Diyarbakir e dai paesi vicini per unirsi ai combattimenti contro l’ISIS in Siria.
Il mese scorso un portavoce del partito dei curdi siriani ha detto che qualsiasi intervento militare della Turchia in Siria sarebbe considerato un atto di «aggressione» perpetrato da «invasori». Dall’altro lato, invece, il governo turco ha detto più volte che i curdi siriani sono alleati del regime di Assad, solo perché entrambi combattono l’ISIS: e infatti questa definizione è trattata con molto scetticismo dagli osservatori internazionali e negata dai curdi.
Un altro gruppo che ha un ruolo in questa faccenda è il DHKP-C, un gruppo marxista estremista che in passato ha condotto attacchi violenti contro politici e poliziotti turchi, compreso un attentato suicida lo scorso gennaio. Un membro del DHKP-C è morto durante le operazioni di polizia turche dello scorso venerdì. La sua morte ha generato due giorni di rivolte e violenze nel quartiere Gazi di Istanbul, dove gli abitanti sono in maggioranza contrari al governo di Erdogan. Domenica durante le rivolte un agente di polizia è stato colpito al petto da un colpo di pistola ed è morto.
Questa situazione caotica arriva in un momento delicato anche dal punto di vista politico: in Turchia si sta ancora tentando di mettere insieme un governo dopo le elezioni dello scorso giugno, che hanno visto il partito di Erdogan perdere la maggioranza parlamentare per la prima volta in dieci anni. Il partito di Erdogan ha perso seggi soprattutto nei confronti dell’HDP, una coalizione di sinistra che comprende anche movimenti curdi, alcuni direttamente collegati al PKK. Il leader dell’HDP, Selahattin Demirtas, lunedì ha accusato Erdogan e i suoi alleati di giocare col fuoco e di voler provocare un collasso dell’intera regione pur di sollevare un clima anti-curdi in vista di prossime eventuali nuove elezioni. «Un governo temporaneo con un primo ministro temporaneo stanno trascinando passo dopo passo il paese in una guerra civile», ha detto Demirtas.
Fonte: Il Post
Due incognite sul futuro dell’Ilva
Lo stabilimento dell’Ilva a Taranto, il 18 marzo 2015. (Alfonso Di Vincenzo, Afp)
Alessandro Leogrande, giornalista e scrittore
Il 20 ottobre prossimo comincerà a Taranto il processo Ambiente svenduto, in cui sono imputati non solo i Riva e i massimi dirigenti del più grande stabilimento siderurgico italiano, l’Ilva, ma anche i rappresentanti politici e istituzionali che negli ultimi anni, secondo la procura, non si sono opposti al disastro ambientale.
Tra questi, è stato rinviato a giudizio anche l’ex presidente della regione Puglia Nichi Vendola. Secondo la procura, avrebbe fatto pressioni su Giorgio Assennato, direttore dell’Arpa (Agenzia regionale per la protezione ambientale), affinché ammorbidisse la sua linea di intervento contro il colosso industriale.
Respingendo tale accusa Vendola ha sempre sostenuto di essere stato invece il presidente della prima giunta regionale che ha varato delle leggi ambientali innovative e ha provato a porre dei paletti alla produzione inquinante, nonostante sia stato eretto intorno all’Ilva un muro di gomma da parte dei governi nazionali.
Sarà un processo presumibilmente molto lungo, come già molto lunga è stata la fase preliminare che si è conclusa con le richieste di rinvio a giudizio.
"L’inquinamento è l’altra faccia della medaglia della distorsione delle relazioni di lavoro sotto gli altiforni"
Al di là dei risvolti politici, il filone centrale del processo riguarderà però un modo di produrre acciaio che si è fatto sistema impenetrabile, accettando come conseguenze il disastro ambientale, l’aumento netto dei tumori in tutta la città, l’avvelenamento del cibo, della terra, delle falde acquifere.
Spirito coloniale
E riguarderà anche i cosiddetti fiduciari, cioè i massimi dirigenti di una “struttura ombra” messa in piedi dai Riva con il compito di controllare dall’interno i dipendenti e l’intero stabilimento. I “fiduciari”, vero anello di congiunzione tra i Riva e la fabbrica, non figuravano nell’elenco ufficiale dei dirigenti, benché il loro potere fosse di fatto molto maggiore di quello di qualsiasi quadro.
E ciò dimostra con quale miscuglio di spirito coloniale e senso di extraterritorialità sia stato edificato il sistema Riva a partire dalla metà degli anni novanta. L’inquinamento all’esterno è stato da sempre l’altra faccia della medaglia della distorsione delle relazioni di lavoro sotto gli altiforni.
Parallelamente al maxiprocesso, la vicenda Ilva sembra comunque essere giunta a un bivio decisivo: o si completano tutte le misure di ammodernamento degli impianti, annunciate dal governo e dalla struttura commissariale creata appositamente per dirigere questa fase, o l’intreccio tra non interventi, perdita di quote di mercato, assenza di una reale bonifica, incertezze lavorative diventerà nuovamente esplosiva.
Un enorme grattacapo
Due sembrano essere però le principali incognite sull’attuazione del piano del governo. La prima riguarda il reperimento dei fondi necessari per attuare i lavori di “ambientalizzazione”. Il governo dispone di 400 milioni di euro, ma mancano ancora 1,2 miliardi di euro necessari per avviare i lavori più importanti, come la copertura dei parchi minerali (finora il minerale, a Taranto, è sempre stato tenuto per ettari e ettari all’area aperta, a ridosso del quartiere Tamburi).
Gli 1,2 miliardi su cui conta il governo sono quelli sequestrati ai Riva dal tribunale di Milano in un processo per truffa ai danni dello stato. Quei soldi risultano però ancora bloccati in un conto in Svizzera; su di essi pende un ricorso della famiglia che ha sospeso le procedure di trasferimento, e pertanto non si sa ancora quando potranno essere utilizzabili.
Dovrebbero allora intervenire i nuovi colossi mondiali dell’acciaio, come gli indiano-lussemburghesi dell’ArcelorMittal. Ma questi, dopo aver mostrato un interesse iniziale, si sono dimostrati ultimamente molto più freddi. Dal momento che vorrebbero intervenire solo dopo che il governo italiano avrà già ultimato tutti i lavori di trasformazione degli impianti, giudicano ancora il caso Ilva un enorme grattacapo.
Fonte: Internazionale
Intercettazione Crocetta: indagati i giornalisti de L’Espresso
Messina risulta indagato per calunnia e pubblicazione di notizie false, Zoppi soltanto per il secondo reato
Piero Messina e Maurizio Zoppi, giornalisti de L’Espresso autori dell’articolo sulla presunta intercettazione tra il governatore Rosario Crocetta e il medico Matteo Tutino, sono stati iscritti nel registro degli indagati dalla Procura di Palermo.
CASO CROCETTA: MESSINA INDAGATO PER CALUNNIA - Messina risulta indagato per calunnia e pubblicazione di notizie false, Zoppi soltanto per il secondo reato indicato a collega. Entrambi, sentiti dai pm con l’avvocato Fabio Bognanni, si sono avvalsi della facoltà di non rispondere. Nella presunta intercettazione, la cui esistenza è stata smentita più volte dal procuratore di Palermo, Francesco Lo Voi, Tutino, ai domiciliari per truffa, avrebbe detto che l’ex assessore alla Sanità, Lucia Borsellino, doveva saltare in aria come il padre. L’Espresso ha sempre ribadito l’esistenza della conversazione sostenendo la correttezza del lavoro dei due cronisti. Entrambi i cronisti, ora, sono indagati per diffusione di notizia falsa, mentre Messina risponde del reato più grave di calunnia perché avrebbe indicato come fonte della notizia un investigatore che ha negato ogni relazione.
(In copertina ANSA/ANGELO CARCONI)
Fonte: Giornalettismo
Piero Messina e Maurizio Zoppi, giornalisti de L’Espresso autori dell’articolo sulla presunta intercettazione tra il governatore Rosario Crocetta e il medico Matteo Tutino, sono stati iscritti nel registro degli indagati dalla Procura di Palermo.
CASO CROCETTA: MESSINA INDAGATO PER CALUNNIA - Messina risulta indagato per calunnia e pubblicazione di notizie false, Zoppi soltanto per il secondo reato indicato a collega. Entrambi, sentiti dai pm con l’avvocato Fabio Bognanni, si sono avvalsi della facoltà di non rispondere. Nella presunta intercettazione, la cui esistenza è stata smentita più volte dal procuratore di Palermo, Francesco Lo Voi, Tutino, ai domiciliari per truffa, avrebbe detto che l’ex assessore alla Sanità, Lucia Borsellino, doveva saltare in aria come il padre. L’Espresso ha sempre ribadito l’esistenza della conversazione sostenendo la correttezza del lavoro dei due cronisti. Entrambi i cronisti, ora, sono indagati per diffusione di notizia falsa, mentre Messina risponde del reato più grave di calunnia perché avrebbe indicato come fonte della notizia un investigatore che ha negato ogni relazione.
(In copertina ANSA/ANGELO CARCONI)
Fonte: Giornalettismo
Atac, i numeri di un fallimento
Di Paolo Ribichini
Tra il funzionare male e il non funzionare proprio c’è una bella differenza. È quello che sta succedendo all’Atac di Roma, municipalizzata per il trasporto pubblico, nell’ultimo mese. L’organizzazione non è mai stata il suo forte. Corse di bus saltate, manutenzione approssimativa, controllori inesistenti, qualche metropolitana senza l’aria condizionata. Ma la vita a Roma è sempre andata avanti. Quello che però è successo dal 1° luglio ad oggi poco c’entra con le inefficienze di sempre.
Numeri di uno sfascio. L’Atac ha un numero di dipendenti pari a quello di Alitalia. Non ha aerei, ma talvolta carri bestiame. Rimane, però, il fatto che alla fine del mese vanno pagati gli stipendi. Così, anche a causa del fatto che solo il 60% degli utenti paga il biglietto – secondo le stime della Stampa –, l’azienda si ritrova con un passivo di 141 milioni. La situazione dei mezzi è disastrosa anche se negli ultimi due anni sono state acquistate nuove e moderne vetture. Circolano ancora vecchi tram e treni (Roma-Lido, Metro B e Laziali-Giardinetti e la linea urbana della Roma-Viterbo) senza aria condizionata, spesso guasti e sempre e costantemente in ritardo, il 40% degli autobus è fermo ai depositi poiché non sono riparabili (spesso mancano i pezzi di ricambio). Inoltre, gli autisti e i conducenti lavorano circa 700 ore l’anno (i rispettivi colleghi milanesi 1.200 ore) e, sempre secondo le stime della Stampa, il 70% dei giorni di malattia si verificano a ridosso dei turni di riposo. Ma quale privato investirebbe in una situazione del genere?
Ripartire dai controlli. Insomma, la responsabilità dello sfascio di Atac è di tutti: azienda, autisti e anche utenti che non pagano il biglietto. Da dove ripartire? Innanzitutto dai controlli. È inaccettabile che il numero dei controllori su un territorio enorme come il comune di Roma siano solo 300. L’azienda ha circa metà del personale in uffici (a ricoprire quali mansioni, poi, è un mistero) e parte di questo potrebbe essere impiegato sotto le metropolitane e sugli autobus per i dovuti controlli. In una città dove il senso civico appartiene solo alla metà dei cittadini, l’unica strada per contrastare i “portoghesi” è lo “stato di polizia”. Poi, però, servono controlli interni, magari demandati a personale esterno (funzionari e dirigenti comunali, per esempio), che deve verificare il livello di produttività di ogni singolo dipendente di Atac. Non basta il badge. Chi non lavora va a casa. Si può iniziare dal personale di controllo nelle stazioni della metro, troppo spesso impegnato con cruciverba, telefonate e test per concorsi. La sua presenza nelle stazioni della metro è del tutto superflua.
Il problema dei sindacati. Ma tutto questo sarà possibile solo con il via libera dei sindacati. È chiaro a tutti – dopo questo mese di luglio – che hanno il potere di mettere in ginocchio una città. Per questo si può aprire un tavolo di concertazione dove il sindaco deve fare un discorso chiaro: “O accettate i cambiamenti proposti o portiamo i libri in tribunale e tutti a casa”. E si riparte dai privati. Un ricatto? In parte sì. Ma nulla di scandaloso. Michele Emiliano a Bari ha detto più o meno le stesse parole. Il risultato? L’azienda pubblica ha iniziato a funzionare.
Fonte: Diritto di critica
Come sta Roma
Mafia Capitale, i trasporti nel caos totale, la stampa estera che ne descrive il degrado: come si è arrivati a questa profonda crisi di Roma, senza giri di parole
Nel marzo del 2014 la bellezza di Roma veniva celebrata in tutto il mondo dopo che il film La grande bellezza di Paolo Sorrentino, ambientato nella capitale italiana, aveva vinto l'Oscar come miglior film straniero.
Nonostante sia passato solo un anno, quel momento sembra molto più lontano. Cosa è successo nel frattempo?
Nel dicembre del 2014 Roma è stata colpita dallo scandalo Mafia capitale, l'organizzazione a delinquere individuata dagli inquirenti che avrebbe affondato profonde radici nel mondo della politica locale, inchiesta che ha visto una seconda ondata di arresti nel giugno del 2015.
Oggi, nel luglio del 2015, la discussione con i lavoratori riguardo il nuovo assetto di Atac, l'azienda municipalizzata dei trasporti pubblici di Roma che da anni lotta contro la possibilità di un fallimento, è sfociata in un duro scontro con i macchinisti della metropolitana.
Questi ultimi hanno iniziato uno "sciopero bianco" - uno sciopero non dichiarato ufficialmente e messo in pratica attraverso escamotage legali, come i permessi per malattia - che ha rallentato notevolmente le corse della già insufficiente rete dei trasporti pubblici di Roma.
Sempre nel luglio 2015, un articolo del quotidiano statunitense New York Times ha dipinto un duro ritratto della città di Roma, afflitta da un degrado sempre più evidente e governata da un sindaco cui manca il polso per risolvere i problemi.
Nell'ambito della polemica sul degrado di Roma scaturita dall'articolo del New York Times, l'attore Alessandro Gassman ha invitato i romani a non lamentarsi ma ad armarsi di scopa, munirsi di una maglietta con scritto "#Romasonoio" e darsi da fare per tenere pulita la città, iniziando così una campagna che ha già visto sulla rete numerose adesioni.
In tutto ciò, la giunta comunale guidata dal 2013 dal sindaco Ignazio Marino risulta più debole ogni giorno che passa, non solo per i problemi che deve affrontare, ma anche per le numerose dimissioni di assessori e consiglieri comunali che ha subìto, talvolta perché coinvolti in vicende giudiziarie, altre per ragioni politiche.
Per questo motivo, entro il 28 luglio ci si aspetta un rimpasto della giunta comunale, il secondo in poco più di due anni di governo cittadino.
MAFIA CAPITALE
Il 2 dicembre del 2014 Roma e la sua classe politica sono state sconvolte da un'ondata di arresti e di avvisi di garanzia svolti a distruggere Mafia Capitale, nome convenzionale con cui è stata identificata dagli inquirenti una presunta associazione a delinquere di stampo mafioso.
Il 4 giugno 2015 si sono aggiunti altri arresti che hanno colpito ancora di più la classe politica e l'amministrazione di Roma.
Diversi consiglieri comunali del Partito Democratico e di Forza Italia, un consigliere regionale, ex assessori e un ex presidente di Municipio sono stati arrestati, mostrando la manifesta possibilità di un coinvolgimento diretto nell'associazione a delinquere Mafia Capitale che, secondo gli inquirenti, sarebbe stata guidata dall'ex membro dei Nuclei Armati Rivoluzionari (Nar) Massimo Carminati e dal leader della cooperativa sociale 29 giugno Salvatore Buzzi.
La crisi politica derivata dalle indagini ha portato alle dimissioni anche di numerosi esponenti politici non direttamente indagati, come il vicesindaco Luigi Nieri, esponente di Sinistra Ecologia e Libertà (SeL), dimessosi il 14 luglio 2015 dopo che un rapporto dei commissari della prefettura aveva definito il rapporto tra lui e Salvatore Buzzi come "fiduciario".
Conseguentemente, questa crisi ha indebolito pesantemente la giunta comunale guidata da Ignazio Marino e la fiducia in essa riposta dai cittadini.
L'ATAC
L'azienda municipalizzata dei trasporti pubblici del comune di Roma sta lottando da diversi anni contro il fallimento. L'Atac, che conta circa 12mila dipendenti, dal 2003 a oggi non ha prodotto nessun bilancio in utile, tanto da aver accumulato un debito intorno agli 1,5 miliardi di euro, come riportato dal quotidiano economico Il Sole 24 ore.
La situazione dell'Atac è quindi al centro dell'attenzione dall'inizio del mandato del sindaco Ignazio Marino, il quale ha negli scorsi mesi proposto un "piano di produttività" per cui i macchinisti avrebbero dovuto, a partire dal prossimo primo agosto, aumentare le ore annuali di lavoro da 700 a 950, e da settembre l'introduzione del controllo delle ore di lavoro svolte attraverso badge elettronici.
I macchinisti, a partire dal primo luglio, hanno dato inizio a uno sciopero bianco per contrastare la proposta del comune. Con sciopero bianco si intende uno sciopero non dichiarato ufficialmente e attuato attraverso diversi escamotage, come i permessi per malattia e il mancato svolgimento di ore di straordinari.
In questa maniera, tutto il mese di luglio è stato caratterizzato da forti disagi per la metropolitana di Roma: una struttura che, nonostante abbia visto tra l'autunno 2014 e il giugno 2015 l'apertura di 22 nuove stazioni della linea C e del nuovo capolinea della linea B1, rimane considerata ancora abbondantemente insufficiente per una città di quasi 3 milioni di abitanti e in cui transitano ogni giorno numerosi pendolari e turisti.
I romani hanno dovuto affrontare il mese di luglio con attese della metropolitana che hanno toccato fino a 20 minuti per una corsa, treni privi di aria condizionata e viaggi ben più lunghi del previsto a causa dei tempi di percorrenza aumentati.
Il 24 luglio, inoltre, il sindaco Ignazio Marino ha annunciato la rimozione del consiglio d'amministrazione di Atac in seguito ai forti disagi che hanno colpito il trasporto pubblico di Roma.
Marino ha poi chiesto ufficialmente all'assessore alla mobilità Guido Improta di formalizzare definitivamente le proprie dimissioni, annunciate lo scorso 22 giugno ma mai rese effettive su richiesta dello stesso Marino.
Il sindaco di Roma ha poi annunciato l'apertura di Atac ai privati per salvarla dal fallimento. Attualmente, infatti, la società che gestisce i trasporti pubblici a Roma è controllata al 100 per cento dal comune.
L'intenzione di Marino è quella di cedere a società esterne il 49 per cento del capitale, facendo mantenere dunque al comune di Roma la maggioranza.
Questa possibilità, tuttavia, espone il comune e la sua giunta a diversi problemi che vanno ad aggiungersi al proseguire delle proteste del personale, tendenzialmente contrario alla privatizzazione.
Intanto un problema politico: SeL, partito di sinistra che fino al 14 luglio scorso era rappresentato dal vicesindaco della capitale, è contraria alla proposta, fatto che sta portando a discutere riguardo la possibilità di un'uscita di SeL dalla maggioranza al comune di Roma.
Un'uscita che non sarebbe determinante - il partito controlla 4 consiglieri dei 29 che compongono la maggioranza al comune - ma che darebbe al sindaco ulteriore filo da torcere.
C'è poi un problema di natura economica: trovare un acquirente in grado di acquistare il 49 per cento di un'azienda indebitata come Atac non è una cosa semplice.
L'ex sindaco di Roma, Francesco Rutelli, ha risposto a Rai News 24 con una battuta che dà l'idea della situazione: "Ci vorrebbe un emiro sotto stupefacenti per prendere delle quote dell'Atac", ha detto.
L'ARTICOLO DEL NEW YORK TIMES
Lo scorso 23 luglio il quotidiano statunitense New York Times ha pubblicato un articolo in cui denuncia il degrado di Roma. L'immagine di copertina è una strada del centro di Roma con una pila di rifiuti appoggiata a un muro.
Nelle prime righe si denunciano immediatamente l'erba dei parchi pubblici non tagliata che spesso arriva all'altezza delle ginocchia e l'incendio avvenuto lo scorso maggio nel terminal 3 dell'aeroporto di Fiumicino, lasciando a terra numerosi voli nel principale scalo di Roma e d'Italia.
Nell'articolo poi si tratta di Ignazio Marino, ritratto come un sindaco onesto ma la cui onestà non è sufficiente per affrontare i difficili e da tempo radicati problemi che colpiscono Roma.
"La sua principale virtù è anche il suo peggiore difetto: non è legato alle relazioni corrotte di Roma. Conosce troppo poco il mondo in cui opera", ha riferito al New York Times il giornalista de la Repubblica Carlo Bonini.
Un sindaco, Marino, ritratto come circondato da esponenti locali finiti in manette nell'inchiesta su Mafia Capitale che tuttavia non è stato in grado di rispondere adeguatamente al problema.
Un sindaco ritratto come un marziano, una persona onesta ma molto debole per affrontare il degrado e il malaffare tristemente diffusisi a Roma.
Un ulteriore elemento, quindi, che ha portato problemi alla giunta comunale di Roma.
L'APPELLO DI ALESSANDRO GASSMAN
Nei giorni immediatamente successivi all'articolo del New York Times e nella piena discussione sul degrado a Roma, il 25 luglio l'attore Alessandro Gassman - che vive a Roma - ha pubblicato sul proprio account Twitter un appello in cui ha invitato i romani a non lamentarsi per le condizioni igieniche della città, ma piuttosto a prendere una scopa e pulire la strada di fronte a casa propria, munendosi, perché no, anche di una maglietta con scritto "#Romasonoio".
L'appello di Gassman, in un momento in cui Roma era particolarmente abbrutita dai numerosi problemi finora elencati, ha rappresentato per molti cittadini, in qualche modo, uno scatto d'orgoglio che attendevano da tempo.
La volontà di qualcuno che scuotesse le cose nella speranza di ridare ai romani e a Roma una dignità sempre più messa alla prova. A dimostrazione di questo, l'incredibile risalto dato sui social alla proposta di Gassman è stato notevole.
Alcuni commentatori, tuttavia, hanno notato che Alessandro Gassman, nel 2013, aveva sostenuto Ignazio Marino come sindaco di Roma. Ma per quanto Marino si sia affrettato a ringraziare l'attore e i volontari che hanno aderito alla campagna, l'immagine del sindaco non ne esce comunque benissimo.
Sostanzialmente, Gassman ha invitato i romani a svolgere un compito che spetta al comune di Roma ma che in questo momento, evidentemente, non è in grado di portare avanti.
LA CRISI POLITICA DI ROMA
La causa e, al tempo stesso, la conseguenza di tutti i problemi finora elencati è una forte crisi politica che da anni ha colpito Roma e i suoi partiti.
Una crisi non solo legata a quanto già detto sui rapporti che numerosi politici avrebbero avuto con l'organizzazione criminale Mafia Capitale che avrebbe fatto capo a Carminati e Buzzi, ma una più prettamente politica.
Da quando Ignazio Marino è diventato sindaco, ha dovuto fronteggiare un rimpasto e le dimissioni di numerosi assessori, tra cui le ultime del responsabile della mobilità Guido Improta e di quella del bilancio Silvia Scozzese.
Il sindaco di Roma si è trovato sempre più isolato dal suo stesso partito, il Partito Democratico, all'interno del quale sono diversi gli esponenti che non lo vedono più di buon occhio.
Prima dello scoppio di Mafia Capitale, a Marino si chiedeva di cambiare giunta inserendo un maggior numero di esponenti del Pd al fine di rafforzare la giunta, composta in gran parte da tecnici, dal momento che non conosceva a fondo Roma e i suoi problemi, come riferito nel novembre 2014 a La Repubblica dal capogruppo al senato del Pd Luigi Zanda.
Ma perché quel partito che oggi lo isola e lo abbandona ha fatto diventare sindaco quel marziano, quell'uomo cui manca la conoscenza di Roma, come gli stessi esponenti del Pd hanno riferito?
Marino è di Genova, ed era di Genova anche quando nel 2013 sconfisse David Sassoli, Paolo Gentiloni, Patrizia Prestipino, Maria Gemma Azuni e Mattia Di Tommaso nelle primarie per decidere il candidato del centrosinistra al comune di Roma.
Se il centrosinistra - che era favorito in tutti i sondaggi vista la scarsa popolarità dell'allora sindaco Gianni Alemanno - ha dovuto pescare dall'esterno il proprio candidato, vuol dire che c'era qualcosa che non andava.
Il centrosinistra, evidentemente, nei cinque anni precedenti non era stato in grado di proporre un'idea di città alternativa a quella di Gianni Alemanno, limitandosi a cavalcare il malcontento nei confronti della sua amministrazione.
Stabilmente avanti nei sondaggi, dopo la caduta anticipata del governo regionale del Lazio, il centrosinistra candidò alla regione proprio Nicola Zingaretti, l'unico candidato su cui aveva fatto un investimento politico fino a quel momento e che - nell'estate 2012 - aveva annunciato la propria candidatura a sindaco di Roma.
Rimasto senza candidato, il Pd - che rischiava a quel punto una guerra intestina, cessata l'unità d'intenti intorno a Zingaretti - aveva bisogno di un nuovo nome che non creasse troppi problemi.
In quest'ottica, il centrosinistra di Roma decise di candidare Ignazio Marino, un nome estraneo al contesto romano, prima candidandolo alle primarie - alle quali fu sostenuto da gran parte del partito - e poi, vinte le primarie, al comune.
Tuttavia, il partito che lo aveva sostenuto lo ha in breve tempo lasciato isolato, complice anche un atteggiamento di Marino non sempre costruttivo verso il resto del partito e verso l'esterno che ha contribuito ad ampliare il clima di crisi politica e ha fatto, sempre di più, venire meno la fiducia reciproca tra il Pd di Roma e il sindaco.
Fonte: The Post Internazionale
L’arco di Costantino, vicino al Colosseo, a Roma, il 12 luglio del 2015. Credit: Tony Gentile
Nel marzo del 2014 la bellezza di Roma veniva celebrata in tutto il mondo dopo che il film La grande bellezza di Paolo Sorrentino, ambientato nella capitale italiana, aveva vinto l'Oscar come miglior film straniero.
Nonostante sia passato solo un anno, quel momento sembra molto più lontano. Cosa è successo nel frattempo?
Nel dicembre del 2014 Roma è stata colpita dallo scandalo Mafia capitale, l'organizzazione a delinquere individuata dagli inquirenti che avrebbe affondato profonde radici nel mondo della politica locale, inchiesta che ha visto una seconda ondata di arresti nel giugno del 2015.
Oggi, nel luglio del 2015, la discussione con i lavoratori riguardo il nuovo assetto di Atac, l'azienda municipalizzata dei trasporti pubblici di Roma che da anni lotta contro la possibilità di un fallimento, è sfociata in un duro scontro con i macchinisti della metropolitana.
Questi ultimi hanno iniziato uno "sciopero bianco" - uno sciopero non dichiarato ufficialmente e messo in pratica attraverso escamotage legali, come i permessi per malattia - che ha rallentato notevolmente le corse della già insufficiente rete dei trasporti pubblici di Roma.
Sempre nel luglio 2015, un articolo del quotidiano statunitense New York Times ha dipinto un duro ritratto della città di Roma, afflitta da un degrado sempre più evidente e governata da un sindaco cui manca il polso per risolvere i problemi.
Nell'ambito della polemica sul degrado di Roma scaturita dall'articolo del New York Times, l'attore Alessandro Gassman ha invitato i romani a non lamentarsi ma ad armarsi di scopa, munirsi di una maglietta con scritto "#Romasonoio" e darsi da fare per tenere pulita la città, iniziando così una campagna che ha già visto sulla rete numerose adesioni.
In tutto ciò, la giunta comunale guidata dal 2013 dal sindaco Ignazio Marino risulta più debole ogni giorno che passa, non solo per i problemi che deve affrontare, ma anche per le numerose dimissioni di assessori e consiglieri comunali che ha subìto, talvolta perché coinvolti in vicende giudiziarie, altre per ragioni politiche.
Per questo motivo, entro il 28 luglio ci si aspetta un rimpasto della giunta comunale, il secondo in poco più di due anni di governo cittadino.
MAFIA CAPITALE
Il 2 dicembre del 2014 Roma e la sua classe politica sono state sconvolte da un'ondata di arresti e di avvisi di garanzia svolti a distruggere Mafia Capitale, nome convenzionale con cui è stata identificata dagli inquirenti una presunta associazione a delinquere di stampo mafioso.
Il 4 giugno 2015 si sono aggiunti altri arresti che hanno colpito ancora di più la classe politica e l'amministrazione di Roma.
Diversi consiglieri comunali del Partito Democratico e di Forza Italia, un consigliere regionale, ex assessori e un ex presidente di Municipio sono stati arrestati, mostrando la manifesta possibilità di un coinvolgimento diretto nell'associazione a delinquere Mafia Capitale che, secondo gli inquirenti, sarebbe stata guidata dall'ex membro dei Nuclei Armati Rivoluzionari (Nar) Massimo Carminati e dal leader della cooperativa sociale 29 giugno Salvatore Buzzi.
La crisi politica derivata dalle indagini ha portato alle dimissioni anche di numerosi esponenti politici non direttamente indagati, come il vicesindaco Luigi Nieri, esponente di Sinistra Ecologia e Libertà (SeL), dimessosi il 14 luglio 2015 dopo che un rapporto dei commissari della prefettura aveva definito il rapporto tra lui e Salvatore Buzzi come "fiduciario".
Conseguentemente, questa crisi ha indebolito pesantemente la giunta comunale guidata da Ignazio Marino e la fiducia in essa riposta dai cittadini.
L'ATAC
L'azienda municipalizzata dei trasporti pubblici del comune di Roma sta lottando da diversi anni contro il fallimento. L'Atac, che conta circa 12mila dipendenti, dal 2003 a oggi non ha prodotto nessun bilancio in utile, tanto da aver accumulato un debito intorno agli 1,5 miliardi di euro, come riportato dal quotidiano economico Il Sole 24 ore.
La situazione dell'Atac è quindi al centro dell'attenzione dall'inizio del mandato del sindaco Ignazio Marino, il quale ha negli scorsi mesi proposto un "piano di produttività" per cui i macchinisti avrebbero dovuto, a partire dal prossimo primo agosto, aumentare le ore annuali di lavoro da 700 a 950, e da settembre l'introduzione del controllo delle ore di lavoro svolte attraverso badge elettronici.
I macchinisti, a partire dal primo luglio, hanno dato inizio a uno sciopero bianco per contrastare la proposta del comune. Con sciopero bianco si intende uno sciopero non dichiarato ufficialmente e attuato attraverso diversi escamotage, come i permessi per malattia e il mancato svolgimento di ore di straordinari.
In questa maniera, tutto il mese di luglio è stato caratterizzato da forti disagi per la metropolitana di Roma: una struttura che, nonostante abbia visto tra l'autunno 2014 e il giugno 2015 l'apertura di 22 nuove stazioni della linea C e del nuovo capolinea della linea B1, rimane considerata ancora abbondantemente insufficiente per una città di quasi 3 milioni di abitanti e in cui transitano ogni giorno numerosi pendolari e turisti.
I romani hanno dovuto affrontare il mese di luglio con attese della metropolitana che hanno toccato fino a 20 minuti per una corsa, treni privi di aria condizionata e viaggi ben più lunghi del previsto a causa dei tempi di percorrenza aumentati.
Il 24 luglio, inoltre, il sindaco Ignazio Marino ha annunciato la rimozione del consiglio d'amministrazione di Atac in seguito ai forti disagi che hanno colpito il trasporto pubblico di Roma.
Marino ha poi chiesto ufficialmente all'assessore alla mobilità Guido Improta di formalizzare definitivamente le proprie dimissioni, annunciate lo scorso 22 giugno ma mai rese effettive su richiesta dello stesso Marino.
Il sindaco di Roma ha poi annunciato l'apertura di Atac ai privati per salvarla dal fallimento. Attualmente, infatti, la società che gestisce i trasporti pubblici a Roma è controllata al 100 per cento dal comune.
L'intenzione di Marino è quella di cedere a società esterne il 49 per cento del capitale, facendo mantenere dunque al comune di Roma la maggioranza.
Questa possibilità, tuttavia, espone il comune e la sua giunta a diversi problemi che vanno ad aggiungersi al proseguire delle proteste del personale, tendenzialmente contrario alla privatizzazione.
Intanto un problema politico: SeL, partito di sinistra che fino al 14 luglio scorso era rappresentato dal vicesindaco della capitale, è contraria alla proposta, fatto che sta portando a discutere riguardo la possibilità di un'uscita di SeL dalla maggioranza al comune di Roma.
Un'uscita che non sarebbe determinante - il partito controlla 4 consiglieri dei 29 che compongono la maggioranza al comune - ma che darebbe al sindaco ulteriore filo da torcere.
C'è poi un problema di natura economica: trovare un acquirente in grado di acquistare il 49 per cento di un'azienda indebitata come Atac non è una cosa semplice.
L'ex sindaco di Roma, Francesco Rutelli, ha risposto a Rai News 24 con una battuta che dà l'idea della situazione: "Ci vorrebbe un emiro sotto stupefacenti per prendere delle quote dell'Atac", ha detto.
L'ARTICOLO DEL NEW YORK TIMES
Lo scorso 23 luglio il quotidiano statunitense New York Times ha pubblicato un articolo in cui denuncia il degrado di Roma. L'immagine di copertina è una strada del centro di Roma con una pila di rifiuti appoggiata a un muro.
Nelle prime righe si denunciano immediatamente l'erba dei parchi pubblici non tagliata che spesso arriva all'altezza delle ginocchia e l'incendio avvenuto lo scorso maggio nel terminal 3 dell'aeroporto di Fiumicino, lasciando a terra numerosi voli nel principale scalo di Roma e d'Italia.
Nell'articolo poi si tratta di Ignazio Marino, ritratto come un sindaco onesto ma la cui onestà non è sufficiente per affrontare i difficili e da tempo radicati problemi che colpiscono Roma.
"La sua principale virtù è anche il suo peggiore difetto: non è legato alle relazioni corrotte di Roma. Conosce troppo poco il mondo in cui opera", ha riferito al New York Times il giornalista de la Repubblica Carlo Bonini.
Un sindaco, Marino, ritratto come circondato da esponenti locali finiti in manette nell'inchiesta su Mafia Capitale che tuttavia non è stato in grado di rispondere adeguatamente al problema.
Un sindaco ritratto come un marziano, una persona onesta ma molto debole per affrontare il degrado e il malaffare tristemente diffusisi a Roma.
Un ulteriore elemento, quindi, che ha portato problemi alla giunta comunale di Roma.
L'APPELLO DI ALESSANDRO GASSMAN
Nei giorni immediatamente successivi all'articolo del New York Times e nella piena discussione sul degrado a Roma, il 25 luglio l'attore Alessandro Gassman - che vive a Roma - ha pubblicato sul proprio account Twitter un appello in cui ha invitato i romani a non lamentarsi per le condizioni igieniche della città, ma piuttosto a prendere una scopa e pulire la strada di fronte a casa propria, munendosi, perché no, anche di una maglietta con scritto "#Romasonoio".
L'appello di Gassman, in un momento in cui Roma era particolarmente abbrutita dai numerosi problemi finora elencati, ha rappresentato per molti cittadini, in qualche modo, uno scatto d'orgoglio che attendevano da tempo.
La volontà di qualcuno che scuotesse le cose nella speranza di ridare ai romani e a Roma una dignità sempre più messa alla prova. A dimostrazione di questo, l'incredibile risalto dato sui social alla proposta di Gassman è stato notevole.
Alcuni commentatori, tuttavia, hanno notato che Alessandro Gassman, nel 2013, aveva sostenuto Ignazio Marino come sindaco di Roma. Ma per quanto Marino si sia affrettato a ringraziare l'attore e i volontari che hanno aderito alla campagna, l'immagine del sindaco non ne esce comunque benissimo.
Sostanzialmente, Gassman ha invitato i romani a svolgere un compito che spetta al comune di Roma ma che in questo momento, evidentemente, non è in grado di portare avanti.
LA CRISI POLITICA DI ROMA
La causa e, al tempo stesso, la conseguenza di tutti i problemi finora elencati è una forte crisi politica che da anni ha colpito Roma e i suoi partiti.
Una crisi non solo legata a quanto già detto sui rapporti che numerosi politici avrebbero avuto con l'organizzazione criminale Mafia Capitale che avrebbe fatto capo a Carminati e Buzzi, ma una più prettamente politica.
Da quando Ignazio Marino è diventato sindaco, ha dovuto fronteggiare un rimpasto e le dimissioni di numerosi assessori, tra cui le ultime del responsabile della mobilità Guido Improta e di quella del bilancio Silvia Scozzese.
Il sindaco di Roma si è trovato sempre più isolato dal suo stesso partito, il Partito Democratico, all'interno del quale sono diversi gli esponenti che non lo vedono più di buon occhio.
Prima dello scoppio di Mafia Capitale, a Marino si chiedeva di cambiare giunta inserendo un maggior numero di esponenti del Pd al fine di rafforzare la giunta, composta in gran parte da tecnici, dal momento che non conosceva a fondo Roma e i suoi problemi, come riferito nel novembre 2014 a La Repubblica dal capogruppo al senato del Pd Luigi Zanda.
Ma perché quel partito che oggi lo isola e lo abbandona ha fatto diventare sindaco quel marziano, quell'uomo cui manca la conoscenza di Roma, come gli stessi esponenti del Pd hanno riferito?
Marino è di Genova, ed era di Genova anche quando nel 2013 sconfisse David Sassoli, Paolo Gentiloni, Patrizia Prestipino, Maria Gemma Azuni e Mattia Di Tommaso nelle primarie per decidere il candidato del centrosinistra al comune di Roma.
Se il centrosinistra - che era favorito in tutti i sondaggi vista la scarsa popolarità dell'allora sindaco Gianni Alemanno - ha dovuto pescare dall'esterno il proprio candidato, vuol dire che c'era qualcosa che non andava.
Il centrosinistra, evidentemente, nei cinque anni precedenti non era stato in grado di proporre un'idea di città alternativa a quella di Gianni Alemanno, limitandosi a cavalcare il malcontento nei confronti della sua amministrazione.
Stabilmente avanti nei sondaggi, dopo la caduta anticipata del governo regionale del Lazio, il centrosinistra candidò alla regione proprio Nicola Zingaretti, l'unico candidato su cui aveva fatto un investimento politico fino a quel momento e che - nell'estate 2012 - aveva annunciato la propria candidatura a sindaco di Roma.
Rimasto senza candidato, il Pd - che rischiava a quel punto una guerra intestina, cessata l'unità d'intenti intorno a Zingaretti - aveva bisogno di un nuovo nome che non creasse troppi problemi.
In quest'ottica, il centrosinistra di Roma decise di candidare Ignazio Marino, un nome estraneo al contesto romano, prima candidandolo alle primarie - alle quali fu sostenuto da gran parte del partito - e poi, vinte le primarie, al comune.
Tuttavia, il partito che lo aveva sostenuto lo ha in breve tempo lasciato isolato, complice anche un atteggiamento di Marino non sempre costruttivo verso il resto del partito e verso l'esterno che ha contribuito ad ampliare il clima di crisi politica e ha fatto, sempre di più, venire meno la fiducia reciproca tra il Pd di Roma e il sindaco.
Fonte: The Post Internazionale
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