giovedì 23 luglio 2015

Renzi fa la “rivoluzione fiscale”, ma continua a ignorare i poveri

45 miliardi per gli 80 euro, il taglio delle imposte sulla casa, la rimodulazione delle aliquote Irpef. Ma non ci sono soldi per il reddito minimo

Francesco Cancellato


Leon Riskin/Flickr

Un piano contro la povertà, per aiutare le persone più martoriate dalla crisi. Di questo si sarebbe parlato, secondo La Repubblica, in un recente incontro tra il presidente del consiglio Matteo Renzi e il ministro dell'economia Pier Carlo Padoan. I contorni di questo piano non sono ancora stati definiti. E si parla, in ogni caso, di un provvedimento «comunque legato al via libera da Bruxelles».

Se la politica fosse una scienza esatta, ci si aspetterebbe che un governo in carica dal febbraio del 2014 guidato dal segretario del principale partito di centro-sinistra italiano, il Partito Democratico, peraltro aderente al Partito Socialista Europeo, avesse la sensibilità di mettere in cima alla propria agenda politica la questione della povertà sin dal giorno dell'insediamento. O se non in cima, perlomeno nella parte alta della propria agenda politica.

Meno ci si sarebbe aspettati invece, un’indiscrezione generica, uscita dalle segrete stanze dei palazzi romani, a un anno e mezzo dall'insediamento del governo e a meno di una settimana di distanza da un'assemblea del partito in cui, di tale piano, non è stata fatta minimamente menzione. Se non una excusatio non petita, poco ci manca.

Andiamo con ordine, però. E partiamo dai dati. Nel 2014 in Italia si calcola vi siano circa 2,7 milioni di famiglie e 7,8 milioni di persone che vivono in condizioni di povertà relativa, rispetto a un livello medio di reddito identificato dall’Istat. Tra loro, 1,5 milioni di famiglie e 4,1 milioni di individui sono poveri in senso assoluto. Ossia, per essere didascalici, non sono in grado di spendere quanto necessario per comprare i beni e servizi considerati essenziali, dal cibo, al vestiario, alle medicine.

Volete le percentuali? Eccole: dieci famiglie e dodici persone su cento vivono in una condizione di povertà relativa, sei famiglie e sette persone ogni cento sono invece in un contesto di povertà assoluta. Sono numeri molto alti, anche in relazione agli altri stati europei. Solo Lituania, Grecia, Spagna, Romania e Bulgaria hanno una quota di persone a rischio povertà superiore a quella dell'Italia, che lambisce il 20%.

Per loro, finora, il governo non ha fatto nulla, o quasi. Per loro, perché in realtà ha fatto e promesso altro. Ad altri. Gli 80 euro, ad esempio. È una misura di cui hanno beneficiato 11 milioni di italiani circa. Più precisamente quelli con un lavoro, un contratto a tempo indeterminato e uno stipendio superiore a 26 mila euro all'anno. Non ne hanno beneficiato, al contrario, gli incapienti, coloro che hanno un reddito così basso da non pagare l'Irpef. O il Jobs Act, che non si occupa né di ricchi, né di poveri, ma nei cui decreti attuativi ci si è dimenticati di inserire la norma che definisce il salario minimo ai lavoratori non coperti da alcun contratto collettivo.

Torniamo agli 80 euro, però. Che sono costati circa 10 miliardi. Cui Renzi - in barba all'austerità e ai “compiti a casa” - ha aggiunto il carico di un taglio di tasse che lui stesso ha detto che «non ha paragoni nella storia di questo Paese». Oddio, l'aveva già detto lo scorso 15 ottobre parlando del Def - «il più grande taglio di tasse della storia repubblicana», lo definì -, ma probabilmente al premier piace abbattere i suoi record, tanto quanto gli piace autocelebrarsi.

Quest'ultimo taglio è quello che prevederebbe, nel giro di tre anni, l'eliminazione delle imposte sulla prima casa, cioè la Tasi, nel 2016, il taglio di parte dell'Ires e dell'Irap (2017) e gli interventi sugli scaglioni Irpef (2018). Grasso che cola per un corpo sociale che - per quanto in crisi, per quanto depresso, per quanto siano giuste le misure a loro favore - povero non è.

Forse è il caso di dircelo chiaramente: il ceto medio si sta impoverendo, e come abbiamo raccontato negli ultimi otto anni, sette milioni di persone non ne fanno più parte. Ma non è consolidando la ricchezza di quel che rimane del ceto medio che si combatte la povertà. Povero è chi non ha una casa, magari uno dei 77mila che nel 2014 ha ricevuto un'ingiunzione di sfratto, non i 19 milioni di individui che una casa ce l'hanno.

Ancora: povero è chi usufruisce dei servizi sociali erogati grazie a quel che i comuni raccolgono con la Tasi, non chi paga un'aliquota salata. Povero è l'incapiente che non paga l'Irpef perché prende troppi pochi soldi, non il lavoratore dipendente che dopo gli 80 euro in busta paga si ritroverà a pagare ancora meno se e quando saranno rimodellati gli scaglioni. E sebbene da queste parti si provi tutta la solidarietà e l'empatia del mondo per le piccole imprese strozzate dall'Ires e dall'Irap, se ne prova ancor di più per quelle partite Iva che pagano salatissima la loro iscrizione alla gestione separata dell'Inps e che, anche a questo giro, non riescono a raccogliere nemmeno le briciole di quei 45 miliardi in tre anni.

Fa specie soprattutto questo: che a garanzie e contributi per i free lance o a forme di welfare universalistico non si sia nemmeno lontanamente pensato. Vale la pena di ricordare che siamo insieme alla Grecia l'unico paese che non ha il reddito minimo garantito, o comunque uno strumento per garantire «il diritto fondamentale della persona a risorse e a prestazioni sufficienti per vivere conformemente alla dignità umana», cosa che l'Europa ci chiede dal 1992, con la Direttiva 441.

Il governo rivolge le sue attenzioni altrove è tempo di pensare alla crescita, non alla redistribuzione, diranno gli esegeti del pensiero renziano. Errore: perché un sostegno alle fasce di reddito più basse avrebbe un effetto leva più consistente sui consumi. Del resto, chi non ha accesso ai beni essenziali, se riceve dei soldi li compra. Gli 80 euro hanno dimostrato che non funziona allo stesso modo con chi invece ha un reddito sopra la soglia di sussistenza. Particolare non del tutto irrilevante: il reddito minimo garantito costa 10 miliardi circa all'anno, contro i 35 l'anno della rivoluzione copernicana di Renzi - 80 euro inclusi - una volta a regime. Un paese che ha votato e sottoscritto trattati che impongono la riduzione progressiva del deficit e del debito pubblico nei prossimi anni dovrebbe tenere a mente pure questo.

Fonte: Linkiesta.it

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