giovedì 27 agosto 2015

Omicidio in diretta, abbiamo il diritto di vedere senza sentirci colpevoli

Quel che possiamo fare è cercare di essere onesti con noi stessi e con chi ci legge, offrendo ogni strumento possibile per comprendere e interpretare

Francesco Cancellato


La notizia, più o meno, è questa: ieri a Roanoke, in Virginia, sono morti la giornalista Alison Parker e il suo cameraman Adam Ward, per mano di un loro ex collega di nome Vester Lee Flanagan, mentre stavano lavorando. Alison e Adam, sono due delle 8512 persone morte nel solo 2015, nei soli Stati Uniti d'America, per colpi d'arma da fuoco.

Fosse stata questa, la notizia, forse non ci avrebbero aperto giornali e telegiornali in America, figurarsi in Italia. Il problema è che la notizia era un’altra: che a Roanoke, in Virginia, Alison Parker e Adam Ward sono morti durante una diretta televisiva. Che lui stava filmando lei che stava intervistando una persona. Che sentono dei colpi d'arma da fuoco. Che la faccia di Alison diventa una maschera di terrore. Che l'inquadratura si accascia, e con lei Adam. Che quella sequenza sembra un film, o un videogioco.

Nemmeno questo dettaglio - la diretta tv - sarebbe tuttavia bastato a far diventare un piccolo caso di cronaca nera locale in un argomento di discussione su scala globale, se non ci fossero stati i social network. È attraverso Facebook e Twitter che i media americani hanno cominciato a diffondere i video dell'episodio. Ed è attraverso gli stessi canali che Vester Lee Flanagan ha cominciato a postare video in soggettiva del suo gesto. È così, soprattutto, che volenti o nolenti abbiamo finito per occuparcene, come giornalisti e come utenti che bazzicano quello strano ipermondo che si chiama internet.

Partiamo dai media. C'è chi quei video non l'ha mostrato al proprio pubblico, soprattutto grandi e autorevoli media come The New York Times, The Guardian, Le Monde. C'è chi come Vox.com (o anche come Linkiesta, in una breaking news, ndr) ha mostrato solamente il primo dei due video, quello della diretta televisiva, dandogli più o meno risalto nel contesto della notizia. Chi come i più grandi e autorevoli giornali di casa nostra, Corriere della Sera, Repubblica, e la Stampa ha pubblicato tutto.

La discussione sul ruolo dei media nel trattare contenuti scabrosi è nata in funzione di tali scelte divergenti. Corriere, Repubblica e Stampa, come spesso accade, sono stati un ottimo bersaglio. L'accusa principe - riassunta, per semplicità, prendendo a prestito la definizione che ne ha dato il blogger Massimo Mantellini - è quella di “giornalismo degli squali”, «quelli che hanno scelto di frugare dentro il calderone dei contenuti in rete trasformandolo nella propria attività principale». Dall'altra parte, invece, «i guardiani dell’informazione, quelli che credono che sia giusto ed economicamente conveniente offrire ai lettori un punto di vista organico, un filtro, un’interpretazione». E che, quindi, non hanno pubblicato la sparatoria di Roanoke, rinunciando a qualche clic in più.

Da questa vicenda, a uscirne bene, è chi non ha pubblicato il video. Ci ha guadagnato in reputazione, probabilmente anche in clic, e adesso può pontificare su chi invece ha preso la decisione opposta. Cinicamente, si trova anche nella condizione di poter tranquillamente trattare la notizia - lo ripetiamo: che senza video sarebbe stata di rilevanza globale - senza essersi sporcato le mani. Se può farlo - come lo stanno facendo ora il Guardian e il New York Times - è perché altri se le sono sporcate. Perché i loro lettori, quei video, li hanno visti altrove.

Eccoci al punto. Sbaglia chi dice che i due video non aggiungono nulla alla notizia. Quei video sono la notizia. Sono il punto cruciale della sua comprensione. Perché «sono estremamente disturbanti - come dice Vox.com nel suo articolo - ma mostrano anche la realtà della violenza da armi da fuoco». Perché, aggiungiamo noi, senza vederli, non si può cogliere né il potenziale ipnotico della morte in diretta, né tantomeno si può comprendere il potere di amplificazione esponenziale dei social media, la loro capacità di imporre l'agenda, a colpi di clic, like e retweet, a chi dovrebbe avere le mani sul timone dell'informazione.

Non è compito nostro dire se sia bene o male. Non crediamo di essere guardiani dell'informazione, figurarci se pensiamo di esserlo della morale. Quel che possiamo fare è cercare di essere onesti con noi stessi e con chi ci legge, offrendo ogni strumento possibile per comprendere e interpretare la realtà. Anche il più disturbante, se necessario. Con buona pace degli stomachi deboli, delle mani pulite e dei ditini alzati.

Fonte: Linkiesta.it

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