martedì 18 agosto 2015

Con questa politica economica, la crescita è impossibile

Incentivi alle imprese senza pretendere impegni, manovre elettoralistiche, attenzione solo per grandi imprese e banche: così l’economia non riparte

Marcello Esposito

Il premier Matteo Renzi e il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan (FILIPPO MONTEFORTE/AFP/Getty Images)

Abbiamo finalmente il quadro del Pil dell’Eurozona nel secondo trimestre del 2015. E purtroppo non è molto confortante per l’Italia. La crescita è pari all’1,2% su base annua (0,3% su base trimestrale) per l’Eurozona, mentre è pari allo 0,5% su base annua (0,2% trimestrale) per l’Italia. Peggio di noi (su base annuale) non c’è nessuno, tranne la Finlandia con -1% che però è giustificata dal fatto di essere alle prese con la doppia crisi, della Russia e della Nokia. Anche la Grecia fa sorprendentemente meglio di noi, mettendo a segno un +0,8% su base annuale.

Però, il confronto che brucia di più è quello con la Spagna di Mariano Rajoy. Anche perché la Spagna è schierata nel campo dei paesi filo-austerity, con la Germania. Il campo contro cui Matteo Renzi vorrebbe andare “a far casino” questo autunno, imbracciando il gonfalone della “crescita”. Ebbene, in silenzio e senza sollevare troppi polveroni mediatici, la Spagna cresce del 3,1% annuale e dell’1% su base trimestrale ed è in continua accelerazione: nel primo trimestre cresceva infatti del 2,7% su base annuale e dello 0,9% trimestrale.

Il dato è particolarmente deludente perché ci si sarebbe aspettato molto di più dal combinato disposto di euro debole, prezzo dell’energia e delle materie prime in picchiata, tassi a zero e liquidità abbondante grazie al Qe di Draghi. Gli obiettivi del Governo di una crescita dello 0,7% per il 2015 e del 1,4% per il 2016 non sono affatto compromessi, però è chiaro che quello che poteva apparire come un risultato modesto diventa adesso un obiettivo sfidante.

Ma il dato evidenzia anche che c’è qualcosa che non funziona nella strategia economica del governo Renzi. Se infatti la situazione esterna è la più favorevole che si possa immaginare e non c’è nessun altro Paese nella recente storia europea che possa vantare un track-record di riforme strutturali come il nostro (così perlomeno sostiene Renzi), allora c’è qualcosa che non va nelle scelte e nelle priorità che il Governo si è dato.

Ci si aspettava forse un colpo di reni da parte degli imprenditori italiani, dopo tutto quello che il governo ha fatto per loro? Il Premier col tempo capirà che la storia del “non hanno più alibi” in Italia non ha mai funzionato. Non basta accontentare le élite imprenditoriali e finanziarie con leggi pro-business, incentivi pro-investimenti, posti nei CdA delle aziende a partecipazione pubblica, cooptazione nei ministeri, etc etc. Bisogna che gli interventi siano teutonicamente “condizionali”. Magari, dall’anno prossimo gli sgravi contributivi saranno condizionali all’aumento netto dell’occupazione e non alla semplice rotazione contrattuale. Seguendo la proposta di un economista come Luca Ricolfi, che non può essere certo tacciato di simpatie per l’estrema sinistra. Magari, al posto dell’ennesima incentivazione agli investimenti in non si sa bene quale tipo di macchinari, si procederà ad un disboscamento della giungla di agevolazioni e trasferimenti alle imprese per finanziare una riduzione generalizzata della tassazione sul reddito d’impresa. Seguendo la proposta di un economista come Francesco Giavazzi che se ne era occupato circa due anni fa in occasione di uno dei tanti tentativi di spending review poi abbandonati per l’opposizione delle lobby, quelle vere.

La politica economica del governo Renzi è stata indubbiamente sbilanciata a favore delle grandi imprese e delle banche. La delega fiscale si è concentrata nelle sue parti più innovative sulle esigenze delle grandi imprese, ma ha completamente trascurato i piccoli imprenditori e il lavoro autonomo, con scivoloni clamorosi come quello sul regime dei minimi. Al momento la partita più importante che il governo sta negoziando con Bruxelles riguarda la bad bank, cioè il permesso di traferire sul bilancio pubblico i crediti in sofferenza del sistema bancario. Nella illusione che questo tolga, un’altra volta, tutti gli alibi alle banche e consenta di riaprire i rubinetti del credito. Come se al momento il problema del credito fosse l’assenza di liquidità sul mercato.

Quello che appare sempre più evidente è che le riforme “strutturali” devono essere adesso bilanciate a favore della “domanda”, che è stata quasi totalmente trascurata. Il governo non ha fatto praticamente nulla per la protezione del consumatore, per la liberalizzazione dei mercati dei beni e dei servizi, per dare certezze e garanzie sulla tenuta del Welfare State.

Guardiamo al Welfare State. Prima della pausa estiva, il Governo, al posto di promuovere una riforma del modo in cui si finanzia la sanità pubblica, è intervenuto a gamba tesa con tagli lineari da 2,5 miliardi che finiranno per colpire, forse più nella percezione che nella sostanza, uno dei capisaldi delle famiglie italiane. Quello a cui gli italiani tengono maggiormente e la cui assenza genera le maggiori ansie, in base a recenti sondaggi. A settembre si rischia di replicare con le pensioni. Non si è fatto in tempo a digerire l’allungamento obbligatorio dell’età minima di pensionamento, che già si inizia a parlare di flessibilità in uscita. È troppo pessimistico aspettarsi, nel clima politico attuale, una serie abborracciata di annunci e smentite su un tema così delicato e sensibile?

E non serve a nulla corteggiare i consumatori con manovre dal sapore “elettoralistico”, come gli 80 euro. Perché le manovre elettoralistiche non sono credibili e puzzano di “deficit spending”. Le famiglie italiane sono vaccinate e, a fronte di un aumento del deficit, rispondono risparmiando. Come è giusto e razionale che avvenga.

Renzi e Padoan hanno imparato la lezione degli 80 euro? Difficile crederlo se è vero che la prossima Finanziaria prevede l’abolizione della tassazione (Imu/Tasi) sulla prima casa. Se l’obiettivo è fare ripartire il mercato edilizio, allora bisogna agire sulla tassazione delle “seconde” case, che ha raggiunto livelli abnormi e incompatibili con la natura illiquida di questa tipologia di investimento. Se l’obiettivo è invece elettoralistico, allora il discorso è diverso. Ma non aspettiamoci grandi risultati “economici”, né sul fronte edilizio e nemmeno su quello dei consumi. Perché le famiglie, dopo 10 anni di continui interventi anche lessicali (Ici, Imu, Tsi, … e in futuro Local Tax), la prima cosa che si chiederanno è: da dove i Comuni potranno prendere le risorse che verranno così a mancare?

Fonte: Linkiesta.it

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