martedì 4 agosto 2015

La chiusura del Cocoricò non salverà la vita di un solo ragazzino


Di Deborah Dirani

Chiudere per 4 mesi il Cocoricò è un po' come serrare le porte della stalla dopo che i buoi sono andati in gita. Pensare di risolvere, o quanto meno contenere, il problema di quelli che si sfondano di Ketamina o MDMA levandogli una discoteca è davvero come cercare di vincere una guerra armati di piumini da cipria. Eppure questa è l'unica soluzione che è venuta in mente a Roma dopo il clamore mediatico suscitato dalla morte di un ragazzetto che si era calato un pasta.

Come a dire che la colpa è del locale e di chi lo gestisce. Come se i gestori di un locale potessero veramente mettersi di traverso agli spacciatori, ai ragazzini che ti chiedono se vuoi spendere, intendendo se ti vuoi comperare una pillolina della felicità. Come se il problema di quelli che passano i loro week end a smascellare sudandosi l'anima fosse qualcosa di pratico e non di sociologico, o psicologico, se si preferisce. 

Come se non esistessero alternative al sabato sera al Cocco, come se non esistessero altri posti in cui ballare con le sinapsi sconnesse e gli occhi pallati. Come se non esistessero i rave, le tribe, e quelli che la vita se la vogliono vivere col cervello a metà.

La realtà è che per i prossimi 16 week end non si venderà una sola pasta di meno a Riccione e in tutto il resto d'Italia, che il provvedimento applicato con urgenza dal Viminale non salverà neanche una vita. Perché la vita quando ti cali una pasta o ti piombi di Ketamina te la giochi sempre ed è solo questione di fortuna, o di consapevolezza, se all'alba del giorno dopo sei ancora qua a veder sorgere il sole.

La droga, la si metta come si vuole, rientra nelle tappe della ribellione giovanile. Mica tutti possono sentirsi ribelli e rivoluzionari facendo politica e scendendo in corteo a manifestare. Ci sono sempre stati e sempre ci saranno quelli che se ne fregano del mondo o, forse, si preoccupano di qual è il modo migliore per fuggirlo. E questi non smetteranno di ammazzarsi i neuroni saltando sui bassi del D&B. Sarebbe bene che chi ci amministra lo capisse e imparasse a fare i conti con una realtà poco piacevole ma evidente.

Sarebbe bene che oltre che dire ai giovani di non drogarsi si spiegasse loro che se vogliono aumentare le possibilità di sopravvivere all'Ecstasy devono bere litri d'acqua per abbassare la temperatura corporea ed evitare lo shock (che tanti ne ammazza). Sarebbe bene che a questi stessi giovani si spiegasse cosa succederà se frulleranno MDMA e cannabis e alcol.

Sarebbe bene insomma smettere di fare i benpensanti e iniziare a fare i realisti. A Bologna, al tempo delle occupazioni, erano nati dei laboratori sulle droghe: posti un po' così (sono la prima ad ammetterlo) dove un po' di persone (i cosiddetti poliassuntori) testavano su loro stesse gli effetti dei cocktail di roba e si davano da fare per far conoscere e spiegare cosa succedeva quando si andava di là, nel mondo della chimica. Politicamente e socialmente inaccettabili, questi posti, in realtà avevano una funzione sociale importante perché intervenivano in quel vuoto enorme lasciato dalle istituzioni che quando si parla di droga non fanno altro che combattere la battaglia di Don Chisciotte affermando che non si deve prendere. E grazie tante.

Io non mi sono mai fatta nemmeno una canna: fifona, ipocondriaca e ansiosa come sono alla sola idea di perdere il controllo della situazione vado in iperventilazione. Ma questo è un problema mio e non si può contare su un popolo di impanicati per risolvere il problema della droga. Non penso neanche che sia più il caso di piantare il dito nell'occhio dei genitori dei ragazzini che si calano: 9 volte su 10 sono genitori normalissimi che hanno anche spiegato ai loro pargoli che la droga fa male, parecchio male. Penso che non c'entri nemmeno più la solfa del disagio generazionale, che solo una minima parte di chi usa sostanze lo faccia perché patisce una vita che odia.

Penso invece che tre quarti di quelli che trascorrono i loro fine settimana ad alterarsi il cervello lo facciano perché gli va, perché gli piace. Lo trovo assurdo, ma non per questo posso fingere che non sia reale. E se ne prendo atto io potrebbe farlo tranquillamente anche chi amministra me e loro, i tossici del week end. 

Prenderne atto significa imparare che oltre a vietare, proibire e mettere in guardia dai pericoli reali insiti nelle droghe, è importante creare dei luoghi in cui si insegna come contenerne i danni e ridurre così le probabilità di rimanerci sotto. Perché, in effetti, è molto più probabile lasciare il cervello in un viaggio sintetico che lasciare questo mondo a causa dello stesso viaggio colorato.

Perché per un ragazzino che muore avendo sudato ogni singola goccia di sudore e col cuore rinsecchito e il cervello a 45gradi, ce ne sono almeno 10 che avranno per tutta la vita neuroni e sinapsi sfibrati. Perché la verità è che morire per una pasta calata è molto improbabile, soprattutto se sai come ti devi comportare una volta che l'hai presa. La verità è che ognuno nella vita cerca il suo paradiso: c'è chi lo trova al Cocoricò o a un rave o a un after, c'è chi lo trova nel volontariato e nella parrocchia, c'è chi lo trova nelle slot o nello shopping compulsivo. In ogni caso al paradiso aspiriamo tutti, proteggere quelli che lo cercano nella chimica dovrebbe essere una spunta all'ordine del giorno di qualunque governo da cui il "benpensantesimo" è stato finalmente estromesso a favore del realismo.

Fonte: L'Huffington Post

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