sabato 8 agosto 2015

Da-dove-veniamo?

L'Economist racconta una serie di misteri che la scienza non ha ancora risolto, e comincia dalla famigerata origine della vita


Il settimanale britannico Economist ha cominciato a pubblicare una serie di articoli scientifici per spiegare, in termini semplici e comprensibili, alcuni dei principali misteri della scienza moderna. Il primo articolo, pubblicato il 6 agosto, è dedicato al più ovvio tra questi misteri: da dove viene la vita? E la vita esiste soltanto su questo pianeta? I successivi articoli saranno dedicati agli universi paralleli e alla composizione dell’universo in cui viviamo.

Per rispondere alla seconda parte della domanda nel 1961 l’astronomo americano Frank Drake mise appunto la cosiddetta “equazione di Drake”, un formula matematica per calcolare le probabilità che nell’universo ci sia vita oltre la Terra. Drake scrisse che il numero di pianeti abitati è una funzione del numero di stelle che possono avere pianeti in orbita, il numero di pianeti che si sono effettivamente formati intorno a queste stelle, la frazione di quei pianeti che hanno le condizioni necessarie per ospitare la vita, quelli in cui la vita si è effettivamente formata e così via.

Al momento non possediamo abbastanza dati per risolvere l’equazione di Drake. I progressi dell’astronomia negli ultimi decenni ci hanno permesso di stabilire con una certa approssimazione quante stelle esistono nell’universo. Inoltre lo studio degli “esopianeti“, cioè dei pianeti al di fuori del sistema solare (ne abbiamo scoperti circa 2.000, tra cui di recente Kepler-452b), ci permette di stabilire più o meno la percentuale di stelle che hanno almeno un pianeta. È un po’ più complicato stabilire quali pianeti presentino le condizioni giuste per ospitare la vita, visto che ancora non sappiamo quali siano esattamente queste condizioni. Ma anche utilizzando i criteri più restrittivi viene fuori che probabilmente esistono miliardi di pianeti con le giuste caratteristiche. Il resto dell’equazione, al momento, resta un mistero. Possiamo studiare un solo pianeta dove si è sviluppata la vita e quindi è difficile estrapolare una statistica di quanto sia probabile questo evento. Anche perché non sappiamo ancora esattamente come la vita si sia formata sulla Terra.

Per cercare di riempire i buchi nell’equazione di Drake, scrive l’Economist, esistono sostanzialmente due approcci. Il primo è guardare a ciò che abbiamo ora – le attuali forme di vita più primitive, cellule e batteri – e lavorare all’indietro cercando di capire come possano essersi formate. Il problema è che tutti gli organismi viventi, comprese le più semplici creature unicellulari, sono estremamente complesse e con ogni probabilità si sono evolute da organismi molto più semplici oramai estinti da centinaia di milioni di anni. Le moderne cellule utilizzano dei filamenti chiamati DNA come biblioteca di informazioni su cosa deve fare la cellula e come farlo. Utilizzano una specie di DNA semplificato chiamato RNA per portare in giro per la cellula queste informazioni e delle molecole chiamate proteine per svolgere le reazioni chimiche necessarie alla vita della cellula.

L’RNA sembra in qualche modo in grado di svolgere le funzioni delle altre due componenti della cellula anche in autonomia e per questo molti scienziati ritengono che sia in realtà una forma primitiva di DNA che era alla base dei primi organismi comparsi sul nostro pianeta. Piccole creature di RNA sono degli antenati plausibili per i più complessi organismi a base di DNA, ma la loro esistenza ci porta ad un’altra domanda: come sono nate le prime creature a base di RNA? Uno dei modi migliori di rispondere a questa domanda è seguire l’approccio opposto a quello utilizzato fino ad ora. Partire dalla chimica, invece che dagli esseri viventi già formati, e vedere che cosa si riesce a creare.

Il più famoso esperimento di questo tipo venne tentato da Stanley Miller e Harold Urey nel 1952. I due scienziati versarono in un fiala acqua, idrogeno, ammoniaca e metano: una miscela considerata rappresentativa della Terra all’epoca della nascita della vita. Aggiunsero energia, sotto forma di scariche elettriche che rappresentavano i fulmini che attraversavano spesso l’atmosfera terrestre e attesero i risultati. Dopo un po’ di tempo gli elementi chimici all’interno della fiala cominciarono a ricombinarsi in una specie di poltiglia marroncina sul fondo della fiala. In mezzo a quella sostanza i due scienziati trovarono tracce di amminoacidi, i “blocchi da costruzione” con le quali vengono create le proteine.

L’ipotesi di Mille e Urey, nota come “brodo primordiale”, è scesa di popolarità negli ultimi anni. Secondo alcuni calcoli non ci sarebbe abbastanza tempo nella storia della Terra perché negli oceani primitivi venisse prodotta una quantità di poltiglia sufficiente a rendere probabile la nascita di una vera e propria forma di vita. Negli anni successivi i ricercatori hanno formulato altre ipotesi: ad esempio che le prime forme di vita a base di RNA siano nate intorno ai vulcani sottomarini. Altri scienziati continuano invece a lavorare a esperimenti per ricreare in provetta forme di vita primordiali (e alcuni ci sono arrivati piuttosto vicino).

Ma esiste anche un terzo approccio, piuttosto radicale, per cercare di scoprire quanto sia probabile la formazione della vita: andarla a cercare fuori dal nostro pianeta. Acqua e composti chimici instabili nell’atmosfera sono i primi indizi che un pianeta potrebbe ospitare la vita. Marte, ad esempio, è oggi un pianeta desertico e freddissimo, ma in passato si ritiene che sia stato attraversato da fiumi ed oceani e forse, in qualche sacca sotterranea dove dell’acqua è rimasta intrappolata, vivono ancora dei minuscoli microrganismi marziani. Altri due possibili candidati vicino a noi sono Europa e Enceladus, due enormi satelliti che orbitano intorno a Giove e Saturno. Sotto la loro superficie ghiacciata si ritiene esistano immensi oceani.

Fuori dal sistema solare è al momento impossibile inviare sonde come abbiamo fatto su Marte e i satelliti dei giganti gassosi, ma possiamo comunque farci un’idea della composizione dell’atmosfera sugli esopianeti e possiamo farlo nello stesso modo in cui abbiamo scoperto la loro esistenza. L’esoplaneta più vicino è comunque troppo lontano per essere visto con un telescopio. Questi remoti corpi celesti possono essere visti soltanto quando la loro orbita li fa passare tra la stella più vicina e noi. Quando succede i nostri telescopi sono in grado di vedere “l’ombra” del pianeta passare sopra la stella e possono raccogliere anche altre utili informazioni.

Durante il passaggio, la luce della stella attraversa l’atmosfera del pianeta prima di arrivare a noi e i gas che la compongono bloccano alcune parti della luce a seconda della loro composizione. Esaminando quali parti dello “spettro” della luce sono state bloccate, possiamo desumere la composizione dell’atmosfera di un esopianeta. L’indiziato principale per trovare la vita è l’ossigeno, il gas necessario alla vita di quasi tutti gli esseri viventi che conosciamo. L’ossigeno è uno di quei composti instabili di cui parlavamo prima e in tutto il sistema solare ne esistono grandi quantità soltanto sulla Terra: soltanto qui batteri e piante che compiono la fotosintesi ne producono quantità sufficienti a sostituire quello che si trasforma nel corso delle interazioni con gli altri gas.

Se dovessimo trovare un pianeta con un’atmosfera ricca di ossigeno e altri gas con cui l’ossigeno produce reazioni chimiche, allora avremmo davanti un buon candidato ad ospitare la vita. In un simile ambiente è difficile pensare a un modo per mantenere un alto livello di ossigeno senza la presenza di creature impegnate nella fotosintesi. E per fare fotosintesi bisogna essere vivi. Ovviamente, sottolinea l’Economist, anche in questo caso l’unico modo di accertarsi della correttezza dell’ipotesi sarebbe raggiungere il pianeta e guardare di persona, un compito attualmente impossibile con la nostra tecnologia. L’unico altro modo per scoprire con certezza se c’è altra vita nell’universo è attendere che i nostri radiotelescopi intercettino una comunicazione radio deliberata compiuta da un’altra forma di vita intelligente. Sarebbe anche più facile stimare almeno la probabilità dell’esistenza di altra vita se un giorno uno degli scienziati al lavoro sull’origine della vita tornasse nel suo laboratorio e, sul fondo della provetta lasciata vuota la sera prima, trovasse qualcosa che si muove.

Fonte: Il Post

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