Marcello Esposito
Feng Li/Getty Images
Gli economisti minimizzano. Il Fondo Monetario Internazionale giustifica e razionalizza. I gestori dei fondi sono disorientati ma sembrano disponibili a sposare la tesi prevalente di un Paese, la Cina, che forse non cresce al 7 per cento “ufficiale” ma che comunque gira a ritmi del 4-6 per cento. Dove le autorità sono un po’ maldestre quando si tratta di maneggiare i mercati finanziari. Ma perfettamente in grado di controllare la dinamica dell’economia reale e, con qualche colpo di timone, evitare pericolose sbandate.
Eppure c’è qualcosa che non torna in questo quadretto. Il prezzo delle materie prime continua a scendere e mediamente (indice Crb) si è quasi dimezzato rispetto al picco del 2011. Chi lavora in Cina, perché ha stabilimenti o esporta, ha da tempo abbandonato i sogni della crescita continua e infinita. La stagione delle semestrali delle grandi multinazionali europee e americane più legate al Dragone ha evidenziato dati drammatici, compatibili con una recessione in piena regola: Siemens (ingegneria) -8% vendite, Anheuser-Busch (alcolici) -6,5 per cento. In campo automobilistico, Ford prevede il primo calo delle vendite auto dal 1990 e Volkswagen ha visto una riduzione delle consegne pari a -3,9 per cento. Per non parlare dei brand del lusso, dove tuttavia un peso non indifferente lo ha giocato la stretta nella lotta alla corruzione dei funzionari pubblici lanciata dal governo di Pechino.
Il mercato azionario cinese non accenna a stabilizzarsi, nonostante gli interventi massicci delle autorità pubbliche. Martedì mattina ne abbiamo avuto la riprova, con un crollo di Shanghai del 6,5 per cento. Una “correzione” di quasi il 30% nel giro di due mesi, dopo una salita vertiginosa del 150%, non è una “normale” presa di beneficio. È lo scoppio di una bolla. E quando una bolla speculativa scoppia, le conseguenze possono essere devastanti.
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