Stefano Grazioli
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Non è ancora chiaro ciò che accadrà sul tavolo siriano e su quello ucraino, ma dopo l’incontro tra Vladimir Putin e Barack Obama a New York è evidente che le carte in mano al presidente russo non sono quelle peggiori. Il Cremlino e la Casa Bianca viaggiano su binari diversi che difficilmente potranno convergere, ma se qualcosa si muoverà (in positivo) tra Damasco e Kiev è solo perché la Russia è tornata ad avere un ruolo sulla scacchiera internazionale. Non è quella potenza regionale che gli Stati Uniti avevano degradato con la fine della Guerra Fredda.
Dopo il disastroso decennio in cui Boris Eltsin aveva faticato a tenere insieme il paese più vasto del mondo, tra due colpi di stato (1991 e 1993), due guerre in Cecenia (1994-96 e 1999-200) e il default economico (1998) che aveva sancito il fallimento della transizione post-comunista pilotata in maniera disastrosa, Vladimir Putin ha ricondotto Mosca al ruolo di global player.
In quindici anni la Russia è passata dai saccheggi degli oligarchi e dal rischio disintegrazione a quello di attore indispensabile nel quadro geopolitico per la sicurezza tra Europa, Asia e Medio Oriente. Se il Cremlino è, come gli altri, parte delle crisi, è chiaro che un compromesso senza la Russia non è possibile. Siria e Ucraina sono l’esempio.
In ultima analisi, sono due i fattori cui si deve il ritorno in grande stile della Russia: da un lato la strategia poco soft adottata da Putin per affrontare i duelli che, di volta in volta, si è trovato di fronte negli ultimi 15 anni, sia in casa propria e fuori. Dall’altro lato, la strategia degli Stati Uniti, che ha lasciato poca scelta all’avversario: da una parte è stata diretta a ridimensionare ulteriormente l’area di influenza russa nel giardino di casa di Mosca, e dall’altra parte si è rivelata foriera di guai ad ampio raggio, perché fallimentare di per sé. In Ucraina, per capirsi, il cambio di regime supportato da Usa ed Europa ha scatenato la prevedibile reazione di Mosca. E in Siria l’Occidente che in quasi cinque anni non ha cavato un ragno dal buco si trova ora a dover dialogare con Russia, Iran (che sostengono a spada tratta Bashar al Assad), e perfino con il presidente siriano, almeno sul breve periodo.
Il discorso di Putin alle Nazioni Unite è stato, da questo punto di vista, simbolico. Ha ricordato che, in questi anni, chi non ha imparato le lezioni del passato è destinato inevitabilmente a combinare danni peggiori. Affermando come l’Unione Sovietica avesse sbagliato, ai suoi tempi, a tentare di spingere su base ideologica altri Paesi su strade sulle quali il mito del comunismo si è poi schiantato, ha fatto notare che, in seguito, anche altri hanno commesso lo stesso errore, stavolta però tentando di esportare modelli che si sono rivelati inadatti. Ad esempio, le ultime cosiddette rivoluzioni democratiche dal Medio Oriente all’Africa.
L’esportazione della democrazia secondo George W. Bush non è mai andata giù alla Russia che, dopo aver teso la mano all’America post-11 settembre nella lotta al terrorismo internazionale, ha subito sia l’allargamento della Nato ad est sia le rivoluzioni colorate in Georgia (2003), Ucraina (2004) e Kirghizistan (2005). In più ha assistito alle guerre in Afghanistan, Iraq e Libia: tutti confltti che, più che rinnovare in maniera costruttiva hanno frantumato e destabilizzato le aree interessate.
Anche le risposte di Putin non sono mai state ortodosse (guerra in Georgia nel 2008 e in Ucraina nel 2014), ma, in fondo, non c’era altro da aspettarsi. La sua Russia – in realtà molto meno di quel rebus avvolto in un mistero che sta dentro a un enigma, come fu definita da Winston Churchill – è stata ed è, da questo punto di vista, molto prevedibile. Il pragmatismo del Cremlino, soprattutto di fronte alla confusione occidentale, costringe ora l’Occidente a una riformulazione di piani in parte comunque già falliti.
Emblematico il caso dell’Afghanistan, la prima puntata della guerra al terrore lanciata dagli Usa. Mentre a New York si sono incontrati Putin e Obama, a Kunduz sono rientrati in pompa magna i Talebani, due anni dopo che il capoluogo del nord era stato abbandonato dal contingente di pace tedesco della Bundeswehr. Lo Stato Islamico, poi, non sarebbe nato né cresciuto a dismisura senza la guerra in Iraq e il caos sorto di conseguenza, e lo stesso dicasi per gli effetti collaterali in Libia.
In tutti i casi (in qualcuno di questi era in buona compagnia, come la Germania nell’intervento in Iraq del 2003), la Russia aveva avvertito in anticipo quali conseguenze catastrofiche avrebbero potuto avere azioni unilaterali di quel genere. E adesso Putin fa un figurone: ha il gioco facile, dopo che, ancora una volta, si è dimostrato che qualcuno ha fatto i calcoli sbagliati. La forza dell’uno sta anche sempre nella debolezza e negli errori dell’altro.
Fonte: Linkiesta.it
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