Douma, a est di Damasco, in Siria. (SAMEER AL-DOUMY/AFP/Getty Images)
Negli ultimi due anni in Medio Oriente è successo di tutto: rivoluzioni, guerre, gravi crisi politiche, stati senza governi, divisioni settarie e rafforzamenti di diversi gruppi terroristici. Nonostante sui giornali internazionali se ne parli parecchio, comprendere queste crisi è piuttosto difficile. La politica del Medio Oriente è molto complicata, anche perché spesso le crisi nazionali si trasformano in crisi regionali che arrivano a coinvolgere molti paesi. È successo con la guerra in Siria, dove oltre ai combattimenti tra diversi gruppi rivali siriani si sono aggiunti quelli tra fazioni appoggiate da governi stranieri o da organizzazioni terroristiche internazionali.
Il 14 luglio i paesi del cosiddetto gruppo del 5+1 – ovvero i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza (Stati Uniti, Francia, Cina, Russia e Regno Unito) più la Germania – hanno trovato un accordo sul nucleare iraniano con il governo dell’Iran: l’accordo è stato definito “storico”, è stato accolto da più parti con un certo entusiasmo e molti sostengono che potrà contribuire in futuro alla stabilizzazione del Medio Oriente (l’Iran è nemico dell’Occidente e da anni è accusato, oltre che di sviluppare un’arma nucleare, di sostenere organizzazioni estremiste). Anche se così fosse – e comunque non è scontato, visto che l’Iran potrebbe usare la sua nuova libertà dovuta alla rimozione delle sanzioni per perseguire i propri interessi in maniera ancora più aggressiva – ci sono almeno altre sette crisi che rendono oggi il Medio Oriente la regione più instabile del mondo, oltre che la più pericolosa. Le ha messe insieme il Washington Post, spiegando come, per motivi diversi, saranno difficilmente risolvibili nel breve periodo.
1. La guerra in Siria
Da alcune settimane i principali quotidiani internazionali hanno ricominciato a scrivere con frequenza delle conseguenze della guerra in Siria, soprattutto riguardo alle condizioni dei rifugiati siriani. Decine di migliaia di siriani hanno lasciato il loro paese per raggiungere l’Europa a causa dei combattimenti tra esercito, ISIS e decine di altri gruppi armati. I governi dei paesi dell’Unione europea stanno discutendo e litigando su come distribuire i migranti a cui è stato riconosciuto lo status di rifugiati: proprio oggi il presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, ha proposto un nuovo piano che riguarda 120mila persone che saranno distribuite con quote vincolanti nei vari paesi europei. La guerra in Siria va avanti da oltre quattro anni e finora ha provocato circa 300mila morti e 11 milioni di sfollati. Nessun analista ritiene che la guerra terminerà in breve tempo: tra le altre cose, la situazione è bloccata a causa delle divisioni all’interno del Consiglio di Sicurezza dell’ONU: per esempio la Russia appoggia il regime del presidente Bashar al Assad, mentre gli Stati Uniti appoggiano i ribelli moderati che lo combattono.
2. Le conquiste dell’ISIS
L’espansione dell’ISIS in ampie zone di territorio di Iraq e Siria si è verificata a partire dall’estate del 2014. I miliziani dell’ISIS hanno compiuto diversi massacri soprattutto contro alcune minoranze etniche – per esempio gli yazidi – hanno distrutto importanti reperti e siti archeologici e hanno schiavizzato migliaia di donne. Poco più di un anno fa una coalizione guidata dagli Stati Uniti ha cominciato a bombardare le postazioni dell’ISIS in Iraq e in Siria, con risultati non decisivi: l’ISIS ha dovuto abbandonare alcuni territori, come la città curda di Kobane vicino al confine con la Turchia, ma nel complesso non si è indebolito, scrive il Washington Post. Negli ultimi mesi alcuni gruppi affiliati all’ISIS o terroristi ispirati all’ideologia del gruppo hanno compiuto attentati in Medio Oriente, Nord Africa, Europa e Australia.
3. La guerra in Yemen
È una delle crisi del Medio Oriente di cui si parla meno, anche se sta avendo effetti molto significativi sulla regione del Golfo. È una crisi molto complicata, simile a una guerra civile ma con l’intervento di eserciti stranieri schierati su parti diverse per antiche rivalità regionali: nei combattimenti contro i ribelli houthi – che diversi mesi fa hanno conquistato la capitale San’a’ e diversi territori nell’ovest del paese – sono già morti decine di soldati degli Emirati Arabi Uniti, alleati con l’esercito dell’Arabia Saudita, il principale paese che combatte contro gli houthi. Questa settimana anche il Qatar ha annunciato l’impiego di circa mille soldati in appoggio ai militari sauditi. Da parte loro i ribelli houthi sono appoggiati dall’Iran, anche se non è troppo chiara la dimensione e la tipologia di questi aiuti. Finora la guerra ha costretto circa 1,5 milioni di yemeniti a lasciare le loro case e ha causato una grave crisi umanitaria. Anche qui non sembra esserci una soluzione entro breve tempo, visto anche il forte coinvolgimento di altri stati.
4. Una guerra civile in Turchia?
In Turchia a luglio si è interrotta una fragile tregua che era stata raggiunta due anni fa tra il governo turco e i curdi del PKK, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan. La crisi è cominciata il 20 luglio con l’attentato nella città turca di Suruc, in cui sono rimaste uccise 28 persone: l’attentato è stato rivendicato dall’ISIS ma i curdi del PKK hanno dato la colpa al governo turco, accusandolo di non avere fatto abbastanza per combattere e fermare l’ISIS. In risposta la Turchia ha cominciato a bombardare il PKK nel nord dell’Iraq e ad arrestare centinaia di persone ritenute in qualche modo legate al partito dei curdi. Circa 100 funzionari della sicurezza turchi sono rimasti uccisi in diversi attacchi e centinaia di combattenti del PKK (2.000, secondo l’esercito turco) sono morti nei bombardamenti e nelle operazioni della polizia turca. Martedì notte decine di uffici del HDP – partito filo-curdo che alle ultime elezioni di giugno ha preso uno storico 14 per cento entrando per la prima volta nella sua storia in parlamento – sono stati attaccati e danneggiati da gruppi nazionalisti anti-curdi e ci sono stati diversi altri casi di attacchi contro la minoranza curda che vive in Turchia (sono circa 20 milioni, in tutto). La presenza dei curdi anche in Siria e in Iraq, scrive il Washington Post, potrebbe causare in futuro un conflitto più esteso.
5. Governi corrotti e stati falliti
Durante l’estate decine di migliaia di libanesi e iracheni hanno organizzato delle manifestazioni per contestare i rispettivi governi in carica. Come scrive il Washington Post, non sono state proteste legate a divisioni settarie, molto forti sia in Libano che in Iraq, ma qualcosa di diverso: cittadini ordinari hanno espresso frustrazione nei confronti dell’estesissima corruzione della loro classe politica. Si è manifestato contro la mancanza di responsabilità delle classi dirigenti.
6. La “tragedia politica” dell’Egitto
Negli ultimi quattro anni in Egitto è successo un po’ di tutto. La cosiddetta “Primavera araba” – ovvero quel movimento rivoluzionario che ha causato la caduta di regimi nordafricani e mediorientali al potere da decenni – aveva portato alla fine della presidenza di Hosni Mubarak e alle prime elezioni democratiche del paese, vinte da Muhammed Morsi, esponente del movimento politico-religioso dei Fratelli Musulmani. Le vicende dell’Egitto, raccontate in tutto il mondo arabo dalla televisione al Jazeera, erano diventate un modello di ispirazione per molti altri movimenti anti-governativi nella regione. Poi, nell’estate del 2013, un colpo di stato guidato dall’esercito e dall’attuale presidente Abdel Fattah al Sisi aveva portato all’arresto di Morsi e all’imposizione di una giunta militare. Alcuni hanno sostenuto che la presenza di un regime dittatoriale è il prezzo da pagare per garantire la stabilità nel mondo arabo: chi sostiene questa teoria dice che il governo di Morsi, eletto democraticamente, ha provocato molta instabilità e ha favorito il rafforzamento di movimenti islamisti estremisti in altri paesi del Medio Oriente. Secondo il Washington Post, comunque, la situazione non è migliorata con l’arrivo della giunta militare di al Sisi, anzi. In alcune zone dell’Egitto, come nella penisola del Sinai, la sicurezza è diminuita: «Il paese è di fronte a una grave crisi di sicurezza, soprattutto nella Penisola del Sinai, dove elementi dello Stato Islamico hanno guadagnato terreno».
7. Il fallimento della soluzione dei due stati
Dopo anni di conflitto tra Israele e Palestina, la cosiddetta “soluzione dei due stati per due popoli” sembra essere definitivamente fallita. Gli ultimi sforzi del segretario di Stato statunitense John Kerry hanno perso slancio con il fallimento dei nuovi colloqui di pace nella primavera del 2014. Il governo israeliano guidato ancora da Benjamin Netanyahu si è mostrato molto intransigente sulla questione della cessione di sovranità ai palestinesi e le politiche nei confronti degli insediamenti in Cisgiordania sono rimaste quasi invariate: anche se le colonie sono considerate illegali dalla comunità internazionale, il loro numero è continuato a crescere. Allo stesso tempo, anche i palestinesi stanno faticando a trovare l’unità necessaria per portare avanti un percorso di pace. Da una parte lo stato palestinese guidato da Mahmoud Abbas non si è dimostrato in grado di un’azione di governo efficace e ha perso molti consensi. Dall’altra parte la Striscia di Gaza rimane di fatto governata dai miliziani di Hamas, gruppo ostile ai negoziati di pace con Israele.
Fonte: Il Post
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