martedì 22 settembre 2015

Erri De Luca e la libertà di espressione

Viviamo in un paese dove lo Stato preferisce tutelare il razzismo di chi ricopre cariche istituzionali mentre serra l’altra mano a pugno contro il dissenso degli intellettuali.

Di Matteo Pascoletti

Ci sono momenti in cui bisogna sedersi a contemplare l’orizzonte, guardare cosa si muove al limite del nostro sguardo e chiedersi se sia il caso di andare o meno in quella direzione, e perché. E magari confrontare ciò che sta sul limite con ciò che sta attorno o che abbiamo lasciato alle spalle.

La richiesta della procura di Torino nel processo a Erri De Luca – 8 mesi per istigazione a delinquere, dopo l’intervista in cui lo scrittore ha dichiarato che la Tav «va sabotata» – è uno di quei momenti. La stessa giornalista che ha realizzato l’intervista, Laura Eduati, ha commentato la richiesta con un articolo dal titolo inequivocabile, Ho intervistato Erri De Luca, mi dichiaro colpevole:

"Come giornalista sono stata megafono di quella istigazione a delinquere, e dunque non capisco perché la Procura di Torino non abbia mai pensato di inserire nell’elenco degli indagati anche me, il mio telefono, il mio computer e le persone della redazione di turno quella domenica.

Il fatto è che se l’avessero fatto, molti sarebbero inorriditi per quello che sicuramente sarebbe stato definito un brutto colpo alla libertà di espressione. Tuttavia se la logica non fa difetto, De Luca non avrebbe potuto compiere quel reato senza l’attiva partecipazione di una giornalista e di un giornale. Perciò mi dichiaro colpevole."

La domanda centrale allora diviene: se anche l’idea di De Luca fosse sbagliata, gli è consentito una spazio pubblico in cui esprimerla e porne la legittimità? In attesa della sentenza, prevista per il 19 ottobre, la procura di Torino è convinta di no, e l’essere De Luca un personaggio pubblico aggraverebbe la sua posizione.

Secondo quanto riportato dal giornalista de Il Fatto Quotidiano Andrea Giambartolomei, presente all’udienza, il procuratore Antonio Rinaudo ha citato infatti Primo Levi circa il principio di responsabilità della parola. «Abbiamo una responsabilità, finché viviamo. Dobbiamo rispondere di quanto scriviamo, parola per parola, e far sì che ogni parola vada a segno» (parole tratte da Il mestiere altrui).

Ma come spiegato nel libro La parola contraria e durante il suo intervento all’ultimo Festival Internazionale del Giornalismo, De Luca rivendica sia l’opinione espressa sia il diritto di esprimerla, sia l’idea che ha destato scandalo. In ciò porta avanti e testimonia due principi: il primo è per l’appunto reclamare uno spazio pubblico per affermare il sabotaggio come idea di lotta politica. Il secondo è il riconoscere, pur nel conflitto, gli interlocutori che vorrebbero censurare quell’idea, poiché altrimenti avrebbe cercato o di sottrarsi al processo, o di imbastire la difesa secondo stratagemmi da Azzeccagarbugli; la correttezza della condotta con cui ha affrontato finora l’accusa gli è stata riconosciuta proprio in sede processuale.



Quindi Erri De Luca è ben consapevole delle parole di Primo Levi, solo che la traiettoria con cui scaglia le proprie è invisa agli occhi della procura di Torino. Tanto più che Primo Levi usa quelle parole in un saggio che al capitolo da cui è tratta la citazione (Dello scrivere oscuro) inizia con «Non si dovrebbe mai imporre limiti o regole allo scrivere creativo»: se si estende la citazione al parlare, come fa il procuratore, l’utilizzo di Primo Levi appare un autogol. Soprattutto quando Levi afferma: «uno scritto ha tanto più valore, e tanta più speranza di diffusione e di perennità, quanto meglio viene compreso e quanto meno si presta ad interpretazioni equivoche». Fosse stato criptico, De Luca forse non sarebbe oggi a processo: invece è sul banco degli imputati, mi pare, proprio per aver espresso in modo chiaro, e pubblicamente, ciò che pensa, e avendolo ribadito su pagina e poi in altre occasioni pubbliche per essere meglio inteso.

Si fa un gran parlare di libertà di espressione in casi del genere, e ogni volta che viene tirata in ballo proliferano in rete i #jesuisqualcosa: il rumore attorno alle vicende processuali, in particolare, prolifera di «e perché si difende Tizio e non Caio?», deviando dal cuore della questione. Ed entro questo orizzonte si muovono le istituzioni, nelle varie forme in cui si incarnano, e concorrono a plasmare la possibilità di esprimersi su ciò che si vede, nonché il modo in cui farlo. Ciò che è lecito dire, come è lecito dirlo e, ancora prima, se sia conveniente o meno pensarlo in virtù delle possibili conseguenze.

È interessante notare a riguardo come la richiesta di 8 mesi per De Luca arrivi a pochi giorni dal mezzo salvataggio istituzionale, a opera del Senato, di Roberto Calderoli. Per aver definito «orango» l’allora ministro per le Pari Opportunità e le integrazioni Cécile Kyenge, degradandola pubblicamente come persona e come figura istituzionale, sarà processato per diffamazione, ma non per istigazione all’odio razziale. Al tempo Calderoli era Vicepresidente del Senato, e la degradazione era nella cornice di frasi xenofobe contro l’immigrazione.

È come se il Senato avesse detto: «sì, Calderoli è processabile, ma solo perché ha esagerato nel dare al Ministro Kyenge della negra inferiore». E, stando alla concomitanza tra il ritiro di mezzo milione di emendamenti al disegno di riforma del Senato stesso e il mezzo salvataggio, è come se il Senato avesse aggiunto: «sennò ci blocca la riforma». Abbiamo così un rappresentante delle istituzioni che dapprima degrada una collega, poi rifugge dalle responsabilità per le proprie opinioni usando il più classico degli «era una battuta […] se Kyenge si è offesa me ne scuso» (come a dire che Kyenge non ha capito la battuta ed è permalosa, ma Calderoli è comprensivo), e infine forza gli iter parlamentari per evitare il più possibile di mostrare in sede processuale le proprie ragioni. Se De Luca sta vivendo con estrema coerenza la risposta a un’intervista, facendone testimonianza di un’idea professata, dall’altra parte abbiamo un Senatore che fa di tutto per sottrarsi alla responsabilità della propria, sia nel contenuto espresso, sia nelle possibili ricadute sociali: sono due modi di intendere la libertà di espressione radicalmente opposti.

Lo stesso senatore Luigi Manconi, che ha votato a favore di entrambe le autorizzazioni, specificando di essere solitamente per principio contrario all’«insindacabilità delle dichiarazioni dei parlamentari», ha così motivato la decisione sull’Huffington Post:

"Il tratto qualificante delle parole di Calderoli è, infatti, il loro indirizzarsi contro l’elemento costitutivo della persona. Ovvero la sua dignità e immagine pubblica. Ecco, la dignità è il limite – a mio avviso l’unico – che deve essere posto alla più piena e illimitata libertà di parola. Perché, attraverso quella comparazione tra una donna di origine africana e un orango si attua una vera e propria procedura di degradazione della persona e della sua identità, che esula inevitabilmente dalla critica politica (presupposto dell’insindacabilità), per degenerare in scherno, denigrazione personale, con un effetto oltretutto discriminatorio per ragioni di appartenenza etnica. […] il limite che il mandato parlamentare, pur nel suo più ampio e pieno esercizio, non può superare è quello della dignità umana. La cui violazione degrada – come in questo caso – quell’essenziale prerogativa democratica in un inaccettabile strumento di prevaricazione e umiliazione dell’altro."

Ancora prima del salvataggio di Calderoli, Giorgia Meloni, deputata di Fratelli d’Italia e presidente del Partito, ha iniziato una curiosa battaglia a inizio settembre contro una lettera dell’Ufficio Nazionale Contro le Discriminazioni Razziali, in cui era invitata a evitare una «comunicazione basata su stereotipi e generalizzazione». L’Unar, che non ha poteri sanzionatori, appariva dunque nel pieno esercizio delle proprie funzioni. Su Facebook la Presidente di FdI ha pubblicato sia la lettera dell’Unar che la propria risposta, rivolgendosi poi alle cariche istituzionali (Presidente della Repubblica, Presidente del Consiglio, Presidente della Camera). Le lettere sono state accompagnate da una vibrante protesta contro il «bavaglio» (e contro l’immigrazione).


Alle lettere è seguita, tra le varie reazioni politiche, la richiesta di chiarimenti al segretario dell’Unar da parte del Segretario di Palazzo Chigi, Paolo Aquilanti, in virtù degli articoli 21 e 68 della Costituzione, nonostante la stessa lettera dell’Unar richiamasse esplicitamente il primo come principio intangibile.

Che cosa si muove dunque all’orizzonte, ed è in gran parte già attorno a noi e alle nostre spalle? Un paese in cui lo Stato, per mezzo dei suoi rappresentanti, preferisce tutelare il razzismo di chi ricopre cariche istituzionali – anche contro le stesse istituzioni che sollevano il problema – mentre serra l’altra mano a pugno contro il dissenso degli intellettuali. Ciò condiziona il dibattito fondamentale sulla libertà di espressione, che è per l’appunto una questione in primo luogo culturale. Come visto nei casi di Calderoli e Meloni, si arriva persino a impugnare la libertà di espressione per deviare dal merito dei contenuti diffusi, occultando il senso profondo e le implicazioni di quelle idee di cui il diritto dovrebbe garantire l’espressione.

Fonte: Valigia Blu

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