martedì 1 settembre 2015

Destra in rivolta e ancora sangue a Kiev: l’Ucraina a un passo dal baratro

Gli alleati che diventano nemici, la destra ultranazionalista provoca scontri: per il governo di Poroshenko e Yatseniuk è notte fonda

Stefano Grazioli

Kiev, 1 settembre 2015. (SERGEI SUPINSKY/AFP/Getty Images)

La chiave per capire ciò che è successo a Kiev l’ha data paradossalmente lo stesso premier ucraino Arseni Yatseniuk, dicendo che gli estremisti della destra ultranazionalista che hanno provocato gli scontri nella capitale con morti e feriti sono peggio dei separatisti filorussi del Donbass, perché stanno distruggendo il Paese nel nome del patriottismo.

L’analisi calza, anche se ovviamente arriva dal pulpito sbagliato. Se responsabili dei disordini di piazza sono infatti i radicali di Svoboda, guidati da Oleg Tiahnybok, e il gruppo paramilitare Pravy Sektor con alla testa Dmitri Yarosh, bisogna ricordare che il primo è stato il vero motore della rivoluzione del 2014, quando guidava la troika dell’opposizione infiammando Maidan più di quando non facessero lo stesso Yatseniuk e Vitaly Klitschko.

Il secondo è il leader che ha sempre rifiutato il compromesso con Victor Yanukovich e ha contribuito sostanzialmente a trasformare la pacifica protesta europeista in uno scontro armato, sino alla vittoria finale con bagno di sangue compreso.

Tiahnybok è stato alleato di Yatseniuk nel primo governo dopo Maidan e Yarosh, ora più meno integrato nell’architettura governativa come consigliere del Ministero della Difesa, coordina i battaglioni di volontari che combattono nel sudest.

Insomma, gli alleati si sono trasformati in nemici e il caos di Kiev non è che l’ennesima tappa di un pericoloso processo che rischia di portare alla disintegrazione dell’Ucraina. Se l’ex repubblica sovietica ha già perso la Crimea, annessa senza troppi complimenti dopo quello che a Mosca è stato considerato un vero e proprio colpo di stato, e la questione del Donbass rimane lontana da una soluzione che vedrebbe i territori occupati tornare sotto il controllo del potere centrale, è evidente che i problemi interni hanno un peso non secondario per la stabilità.

L’esistenza dell’Ucraina come stato unitario non dipende solo dai voleri di Vladimir Putin, ma dalle dinamiche di un Paese che da failing state corre il pericolo di diventare davvero uno stato fallito ai confini dell’Unione Europea.

Non bisognava essere dei raffinati analisti né possedere una sfera di cristallo per prevedere uno sviluppo del genere. Il primo governo Yatseniuk era collassato già la scorsa estate, dopo che i moderati di Vitaly Klitschko, alleati di Poroshenko, e quelli riunitisi intorno a Yulia Tymoshenko avevano rotto l’alleanza parlamentare; il secondo, nato dopo le elezioni di ottobre, era ed è formato da cinque partiti che poco hanno a che spartire e va dagli ultranazionalisti di Oleg Lyashko all’eroina della rivoluzione arancione del 2004 passando per i centristi dell’ex sindaco di Leopoli Andrei Sadovy.

Poroshenko e Yatseniuk sono in picchiata nei sondaggi, il premier viaggia addirittura sotto il 2%: un disastro annunciato. Non c’è da stupirsi dunque davanti alla fiammata nazionalista, in vista anche delle elezioni amministrative di ottobre.

E che lo scontro sia arrivato sul tema delle riforme costituzionali e del decentramento non è una sorpresa, visto che nei mesi scorsi le spaccature si erano aperte su ogni fronte: Poroshenko contro Yatseniuk, Lyashko contro presidente e premier, Tymoshenko e Sadovy contro tutti, alla stessa stregua dell’estrema destra dentro e fuori il parlamento.

In fondo nulla di nuovo, in un Paese che in poco più di un decennio ha sopportato due rivoluzioni, alleanze intercambiabili gestite dagli oligarchi, tracolli economici e pure una guerra ancora in corso. L’Ucraina post-Yanukovich è in pratica uguale a quella pre-rivoluzionaria, corrotta sino al midollo e priva di una classe politica in grado di gestire il timone della nave che sta affondando. Il Paese è spaccato, al di là del Donbass, e le fratture possono allargarsi drammaticamente visto che il quadro generale è traballante.

Riforme costituzionali e decentramento, previsti dagli accordi di Minsk, sono un passo per la stabilizzazione e necessitano sia di accordi interni sia del dialogo nazionale tra centro e periferia rimasto anch’esso sulla carta. L’alternativa è che i primi morti di piazza a Kiev dopo quelli del bagno di sangue del febbraio 2014 non siano solo un caso, ma i prodromi di una terza rivoluzione che precipiterà l’Ucraina nel baratro, sotto l’occhio cinico di Vladimir Putin e quello miope di un Occidente non certo esente da responsabilità.

Fonte: Linkiesta.it

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