sabato 5 settembre 2015

La marcia dei profughi ci dice che servono gli Stati Uniti d’Europa

I rifugiati si dirigono a piedi verso Vienna: un pasticcio combinato dagli Stati nazione. Mai come oggi è necessaria un’Unione politica

Francesco Cancellato

Matt Cardy/Getty Images

La Storia, con la S maiuscola, ci sta passando accanto e, come al solito, è una somma di eventi casuali, imprevedibili, incontrollabili. Di tutte le nuove frontiere, fino a pochi mesi fa, quella issata dal premier ungherese Orbàn, con il suo muro e il suo filo spinato, sembrava la più alta e invalicabile. Così non è stato. Lo stesso sembrava valere per il blocco dei treni verso la Germania, figlio della volontà di identificare chiunque fosse entrato in Ungheria. Niente da fare. Mentre scriviamo, diverse migliaia di profughi - uomini e donne, vecchi e bambini, sani e disabili - stanno marciando da Budapest a Vienna, 240 chilometri, in un esodo che ha qualcosa di biblico, di millenario.

La retorica è un pericoloso nemico, ma è evidente la sensazione che sia saltato un tappo. Che l’Occidente e l’Europa se mai sono state una fortezza, hanno brecce da tutte le parti. Che questa gigantesca migrazione dai luoghi della follia islamista e di una guerra brutale - che noi occidentali abbiamo contribuito a far nascere e rinfocolare - cambierà per sempre i connotati demografici, sociali, culturali, politici del Vecchio Continente.

Al centro di tutto c'è Angela Merkel. Colei cui i profughi inneggiano. Colei che, con la mossa di offrire accoglienza ai siriani in fuga dalla guerra ha generato l'insostenibile pressione al confine ungherese e la lunga marcia di queste ore. Colei che ora dovrà necessariamente prendersi in carico la trattativa più difficile della sua vita. Non tanto quella di conciliare il trattato di Schengen con quello di Dublino, o le istanze italiane con quelle polacche. La marcia dei profughi le impone - ci impone - di adattare l’Europa a questa realtà.

Se l’Europa fosse davvero unita la crisi, forse, nemmeno sarebbe iniziata. Ci sarebbe un corridoio umanitario. Ci sarebbero flussi molto più fluidi, rapidi, parcellizzati. Ci sarebbe un capo di governo eletto che parla per tutti. Ci sarebbe probabilmente un potere diverso per imporre a paesi come la Libia o la Turchia una più seria caccia allo scafista. Soprattutto, non si perderebbe buona parte del tempo a disposizione a polemizzare, ad accusarsi reciprocamente di opportunismo, a piangere miseria, a sperare che altri paesi europei facciano il lavoro sporco e si tengano i guai. Perché almeno una cosa c'è da sperare sia chiara a tutti: che il pasticcio di questi giorni non l'ha provocato l'Europa, ma l'incapacità degli Stati nazionali di guardare oltre il loro orticello. Che gli Stati Uniti d’Europa non sarebbero mai stati così utili, mai così necessari.

Non è detto che accadrà, purtroppo. Le elezioni del 2017 in Francia, in Germania e (forse) in Italia finiranno per essere una straordinaria occasione per i nazionalisti e i populisti di destra e di sinistra che attaccheranno l’Europa proprio su questo terreno, proponendo di erigere confini anziché abbatterli definitivamente. O, ancora peggio, di tornare indietro agli anni '80, alle lirette e alle pesetas, alle dogane e ai passaporti. Il tutto, proprio quando la realtà dimostra che erigere un muro di fronte a questa immensa fuga non serve a nulla. Il nodo, in ogni caso è al pettine e l'alternativa è una sola: salutarci tutti e far detonare, in un cumulo di scartoffie, il sogno novecentesco di Schumann, Adenauer, De Gasperi, Spinelli. Molti di noi non lo capirebbero, così come i profughi del resto. E se il futuro non capisce il presente, a essere sbagliato è il presente.

Fonte: Linkiesta.it

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