martedì 8 settembre 2015

Napoli, la guerra di camorra non si è mai fermata

Tra sabato e domenica altri due morti nel napoletano: i conflitti mafiosi nel capoluogo campano non sono mai finiti, sono solo diventati più cruenti

Gianmaria Tammaro

Christopher Furlong/Getty Images

Il Rione Sanità è uno dei quartieri popolari di Napoli. Si trova al di sotto del manto stradale, città nella città, unito a Capodimonte e a Santa Teresa degli Scalzi da due stradoni ripidi in salita. I palazzi sono tutti uguali: affollatissimi, chiassosi, gialli o bianchi, la vernice scrostata e le ringhiere dei balconi passate a nuovo, un pugno in un occhio quando il sole è già alto. Circondano le piazzette, alti e bassi; sembrano tante facce sdentate, con i panni stesi al vento, una finestra sì l’altra pure, e le imposte spalancate. Sui tetti, una foresta fittissima di antenne e paraboliche, lì dove, riportava la cronaca di qualche mese fa, i baby boss si allenavano a sparare.

C’è piazzetta San Vincenzo, a due passi da San Gennaro dei Poveri. E c’è il Cavone. Alzando la testa, si vede il Ponte della Sanità, che getta la sua ombra fino alla chiesa di San Vincenzo. Qui, si allarga Piazza Sanità: panchine dismesse, scaloni, negozi; ce ne è uno nuovo, ad angolo, l’arancione della vernice appariscente, le saracinesche nuove.

È qui sabato scorso, intorno alle cinque, è morto Gennaro Di Cesaraono. 17 anni, un viso sottile, imberbe, capelli portati in una fila di lato morbida e una pelle scura, di chi sta sempre all’aperto. Gennaro era con gli amici, in compagnia, seduti sulle scale della chiesa. Suo cugino l’ha visto dal balcone di casa. Gli ha detto, «tornatene a casa». Erano passate le 4 di notte. Ma Gennaro è rimasto lì. E mentre è tornato a parlare con i compagni, sono arrivate due moto – c’è chi parla addirittura di tre – che hanno cominciato a sparare all’impazzata.

I lunotti di alcune auto sono esplose, i vetri per terra, i bossoli dorati che si sono raccolti a grappoli. Gennaro e chi era con lui hanno cominciato a correre, spalle ai motociclisti. Ma due proiettili, tra i diciotto sparati, hanno raggiunto Gennaro e l’hanno ucciso. I primi ad arrivare sono stati i vicini, i parenti, i genitori – i giornali hanno cominciato a riportare la notizia, «agguato di camorra».

Ma Gennaro non era un camorrista, aveva sedici anni e mezzo, quasi diciassette. Era un ragazzo. Voleva diplomarsi. Il suo sogno era fare il pizzaiolo. È stata avanzata anche la possibilità droga: erano in piazza per proteggere la loro zona, per imporsi; poi c’è stato l’agguato. Tra i proiettili sono stati rinvenuti due calibri diversi, quindi forse chi era con Gennaro ha risposto al fuoco. Dopo qualche ora, si è diffusa un’altra ipotesi: ucciso per errore. Per errore, sì. A diciassette anni.

Ennesima ipotesi: ritorsione dopo i fatti dei giorni scorsi in curva A, allo Stadio San Paolo. Problemi tra fazioni per lo spaccio. Chi vende a chi, chi ci guadagna. Gennaro avrebbe tenuto l’arma per uno della Sanità, quelli di Forcella l’hanno saputo e avrebbero deciso di rispondere così. Era lui il bersaglio.

Un’altra sparatoria, sempre sabato, c’è stata a Ponticelli, vicino Napoli. E un altro morto ammazzato. Giorni prima, a Santa Teresa degli Scalzi, in una delle curve che portano alla Sanità, è stato rinvenuto un cadavere in un auto, sessantasette anni, precedenti, la sparatoria cominciata intorno alle otto del mattino a due passi da una scuola. Anche qui, ipotesi di agguato di camorra. E ancora prima, a Piazza Bellini, nel centro di Napoli, due uomini in motocicletta hanno tenuto in ostaggio centinaia di ragazzi mentre, armati di pistola, andavano avanti ed indietro. Cercavano qualcuno tra la folla. La polizia è arrivata solo quando i due se ne sono andati.

A Napoli – questa sembra la notizia - si torna a sparare. Ma la verità è che non si è mai smesso. Negli ultimi mesi i colpi sono stati trattenuti; i baby boss si sono fatti più spavaldi, hanno attaccato piazze di spaccio e spacciatori, hanno dato l’assalto alle roccaforti, oramai cadenti, della “vecchia” camorra. E la guerra, che prima era solo un brutto, bruttissimo ricordo – è tornata. È diventata più violenta e sanguinosa; senza i “boss”, ora quasi tutti in carcere, c’è un vuoto di potere e tanti vogliono colmarlo. I giovani e i meno giovani, i vecchi e i meno vecchi. C’è un ricambio generazionale ai vertici del Sistema, un ricambio faticoso, pelle squamosa che scivola via e che lascia il segno. Sangue, sparatorie e paura. E di nuovo sangue, di nuovo sparatorie e ancora paura. Una ricetta amara che funziona.

Luigi De Magistris , il sindaco di Napoli, dice che non c’è nessuna differenza tra il capoluogo partenopeo e – per esempio – Roma; che qui non siamo a Baghdad, che certe cose succedono ovunque. La verità, però, è un’altra. E cioè che si tendono a confondere microcriminalità, quasi fisiologica nelle grandi metropoli, e criminalità organizzata. Gli scippi in sella ai motorini senza targa e gli agguati di camorra: uccidere per uccidere contro toccata-e-fuga.

Il centro è militarizzato , una civetta ad ogni incrocio, volanti che vanno avanti ed indietro, ambulanze che si sentono costantemente, mattina pomeriggio e notte. E nonostante questo si spara: non prendi nemmeno la mira, il braccio teso, la faccia coperta dal casco integrale; pigli e spari. E magari muore un innocente. Uno di diciassette anni: “per errore”.

Si spara e nessuno sa niente, si spara e si torna a morire – non s’è mai smesso. È come se accanto al “grande male”, così lo chiamano i napoletani il cancro, ci fosse un’altra malattia – una più cattiva e ancora più silenziosa, infame, cazzimmosa, che miete vittime quando meno te l’aspetti: una malattia che si chiama camorra e che non ha niente di diverso rispetto al tumore.

La storia di Gennaro è solo l’ultima di una lunghissima serie. Il silenzio che è seguito, il giorno dopo, è stato un silenzio assordante, che fa più male dei proiettili stessi. Poi si sono ripresi: prima i giornalisti, poi anche i politici. È stato convocato un vertice provinciale di sicurezza, Alfano, convinto che il problema stia nella presenza di uomini, ha inviato altri cinquanta agenti – cinquanta contro migliaia e migliaia di affiliati, silenziosi e invisibili, armati pesantemente e pronti a tutto.

Si ha come l’impressione di essere stati lasciati indietro, da soli – leggere padre Zanotelli, attivista e parroco, sui giornali, fa male. «Lo Stato non c’è», ha detto al Mattino di Napoli.

Il problema, però, è ancora più profondo, storico, radicato. Questa è (anche, pure, forse soprattutto) la “questione meridionale”. Che non inizia, né tantomeno finisce, coi posti di lavoro, la disoccupazione, i disservizi. La questione di meridionale sta in una sostanziale quanto evidente differenza di “trattamento” tra nord e sud. Quando a un’emergenza - e quella a Napoli, in Campania lo è - si risponde che è normale, quando l’intervento dello Stato e delle istituzioni ritardano; quando un ragazzo a 17 anni finisce morto ammazzato e non si sa perché, non si sa chi, non si sa come, quello è il problema. Il problema cruciale, secolare – che ci trasciniamo dietro da quando questo paese s’è unito.

Fonte: Linkiesta.it

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