Abbracci e saluti nell'Aula del Senato, Roma, 22 dicembre 2015. (ANSA/GIUSEPPE LAMI)
Durante la tradizionale conferenza stampa di fine anno, il presidente del Consiglio Matteo Renzi ha detto, tra le altre cose, che si aspetta che la riforma della Costituzione promossa dal suo governo venga sottoposta a referendum confermativo a metà del prossimo ottobre. Renzi ha aggiunto che, qualora la riforma dovesse essere bocciata dagli elettori, prenderebbe atto del «fallimento del mio impegno politico». L’iter per approvare la riforma costituzionale – della cui necessità si parla da decenni – è iniziato più di un anno fa e sembra aver superato la sua fase più complicata, anche se ci sono ancora diversi passaggi.
Come si fa
L’iter legislativo per cambiare la Costituzione – ovvero per approvare le leggi costituzionali – è abbastanza complesso: la stessa Costituzione prevede che il suo testo si possa cambiare solo con un ampio consenso parlamentare e con tempi che permettano di analizzare le conseguenze del cambiamento.
Per ogni legge costituzionale è prevista prima un’approvazione in “prima lettura” da entrambe le camere del Parlamento. Il testo approvato dalle due camere deve essere identico: quindi se un testo viene approvato dalla Camera dei Deputati e poi il Senato lo approva ma con delle modifiche, allora deve tornare alla Camera dei Deputati per un’altra approvazione. Dopo la “prima lettura” devono trascorrere tre mesi prima che il testo torni a tutte e due le camere per essere nuovamente approvato, sempre nella stessa forma e con una maggioranza di due terzi dei componenti di ciascuna camera. Se viene approvato con una maggioranza inferiore può comunque entrare in vigore, ma deve prima essere confermato con un referendum – chiamato referendum confermativo – senza quorum, cioè senza un numero minimo di votanti che debba partecipare alla votazione.
Cosa prevede la riforma
La riforma promossa dal governo Renzi – il cosiddetto “ddl Boschi”, dal cognome del ministro Maria Elena Boschi – prevede innanzitutto la fine del cosiddetto “bicameralismo perfetto”, espressione con cui si definisce un sistema parlamentare le cui camere svolgono più o meno le stesse funzioni.
Con la riforma il Senato perderebbe molti dei suoi poteri: il grosso del potere legislativo finirebbe in mano alla sola Camera dei Deputati. Il Senato cambierebbe anche composizione: sarebbe formato da 74 consiglieri regionali nominati dai rispettivi consigli regionali, più 21 sindaci e 5 membri nominati dal presidente della Repubblica. Le modalità esatte di elezione dei nuovi senatori/consiglieri saranno definite in seguito attraverso delle leggi ordinarie: nel “ddl Boschi” è scritto solo che i senatori saranno eletti «in conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri in occasione del rinnovo dei medesimi organi». Il Senato quindi avrebbe 100 senatori, 215 in meno rispetto a oggi.
La riforma prevede che il governo abbia bisogno solo della fiducia della Camera dei Deputati. Chi è contrario alla riforma teme che in questo modo i futuri governi abbiano troppo potere e l’equilibrio tra governo e Parlamento ne uscirebbe sbilanciato. Chi è a favore della riforma usa più o meno gli stessi argomenti, ma sostenendo che invece è necessario snellire il processo legislativo, evitando che le leggi debbano fare continui passaggi da una camera all’altra – la cosiddetta “navetta” – prima di entrare in vigore.
Oltre alla riforma del Senato, di cui si è molto discusso, il “ddl Boschi” modifica anche altre parti della Costituzione, in particolare per quanto riguarda il titolo V, cioè la parte del testo costituzionale che tratta il rapporto tra Stato e Regioni.
A che punto siamo
Martedì 13 ottobre 2015 il Senato ha approvato la riforma, dopo averla modificata. La riforma era stata già approvata una volta dalla Camera e un’altra volta dal Senato, ma era stata emendata tutte le volte, quindi servirà almeno un altro passaggio alla Camera prima di poter dichiarare conclusa la prima lettura. Renzi ha detto che l’11 gennaio inizierà alla Camera la nuova discussione sulla riforma.
Come hanno spiegato molti analisti politici negli ultimi mesi, ci sono ragioni per sostenere che il governo si sia messo alle spalle la parte più difficile dell’iter parlamentare: un po’ perché l’ultimo voto al Senato è arrivato dopo un accordo trovato con la minoranza del Partito Democratico, che aveva chiesto a lungo di modificare la riforma, e un po’ perché le parti della riforma che sono già state approvate nella stessa forma da Camera e Senato non possono più essere modificate, ma solo approvate o rigettate in blocco. La stessa cosa vale per la seconda lettura, che comincerà non meno di tre mesi dopo l’approvazione in prima lettura: Camera e Senato potranno solo approvare o rigettare in blocco l’intera riforma e non più modificarla.
Dal punto di vista dei numeri parlamentari, il governo non dovrebbe avere troppi problemi: alla Camera gode del sostegno di una maggioranza larghissima, per effetto del premio attribuito al partito più votato previsto dalla vecchia legge elettorale; al Senato la situazione è più equilibrata ma lo scorso ottobre la riforma è stata approvata con 171 voti favorevoli (la maggioranza è 158) e il governo è più solido che in passato grazie al sostegno di un gruppo parlamentare fondato da Denis Verdini e nel quale si sono spostati alcuni senatori eletti con Forza Italia. La stessa riforma, nelle sue fasi iniziali, era stata scritta insieme a Forza Italia e votata dai suoi parlamentari: era un pezzo del cosiddetto “patto del Nazareno”, l’accordo politico trovato da Renzi e Berlusconi per approvare le riforme costituzionali e la legge elettorale. Dopo qualche mese di faticosa collaborazione – e decine di teorie del complotto sul contenuto del “patto” – l’accordo era stato fatto saltare da Berlusconi per protesta contro la scelta del PD di candidare Sergio Mattarella alla presidenza della Repubblica, senza consultare Forza Italia.
E il referendum?
Come prevede l’articolo 138 della Costituzione, la riforma approvata senza la maggioranza dei due terzi in seconda lettura va sottoposta a un referendum entro tre mesi dalla pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. Non c’è quorum: la legge viene promulgata se i voti favorevoli superano quelli sfavorevoli.
Ci sono stati solo due referendum costituzionali nella storia della Repubblica italiana. Il primo, tenuto il 7 ottobre 2001, portò all’approvazione della riforma del Titolo V della Costituzione con il 64,2 per cento di favorevoli; il secondo, tenuto il 25 e 26 giugno 2006, bocciò la riforma della Costituzione promossa dal governo Berlusconi con il 61,3 per cento dei voti.ù
Fonte: Il Post
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