di Davide Maria De Luca
Il ministro delle Riforme e Rapporti con il parlamento Maria Elena Boschi in aula alla Camera durante il voto di sfiducia, Roma, 18 dicembre 2015. ANSA/ANGELO CARCONI
Negli ultimi giorni diversi giornali, commentatori e politici hanno detto che il governo ha approvato una norma per proteggere Pier Luigi Boschi, padre del ministro Maria Elena Boschi ed ex amministratore di Banca Etruria, uno dei quattro istituti su cui il governo è intervenuto negli ultimi mesi. La norma discussa è molto complicata e diversi commentatori ne hanno dato interpretazioni diverse. Alcuni hanno sostenuto ad esempio che la norma impedisce qualunque tipo di azione penale e civile contro gli ex amministratori della banca: in altre parole che il governo ha “scudato” il padre della Boschi, come si dice in gergo giornalistico.
Dello “scudo” si è cominciato a parlare questa settimana, quando alcuni giornalisti hanno notato il contenuto di uno degli articoli del cosiddetto “decreto salva banche”, quello che ha messo in moto la procedura che ha portato al “salvataggio” dei quattro istituti finanziari: si tratta di un elemento nuovo nel dibattito sull’eventuale conflitto di interessi del ministro Boschi, che non era ancora emerso quando il dibattito è cominciato, due settimane fa. Chiariamo subito che il governo non ha approvato alcun tipo di scudo “totale” contro azioni penali o civili. Alcuni degli ex amministratori di Banca Etruria sono già indagati, secondo il Corriere della Sera, e nulla toglie che in futuro potrebbe esserlo anche Pier Luigi Boschi. Non c’è alcuno scudo nemmeno contro le singole cause civili che potrebbero essere intentate contro Boschi e gli altri ex amministratori della banca, come ha ricordato un comunicato stampa del ministero dell’Economia.
In altre parole, i magistrati possono indagare gli amministratori della banca ed eventualmente processarli se dovessero scoprire che loro hanno commesso qualche reato. Soci e creditori della banca possono inoltre intentare una causa civile contro di loro se ritengono di aver subito un “danno diretto”, ad esempio perché sono stati spinti con l’inganno ad acquistare prodotti finanziari molto rischiosi.
Perché allora si parla di “scudo”? La questione è molto sottile e complicata. L’articolo del decreto salva banche chiamato in causa è il 35, comma 3, in cui viene stabilito che l’azione sociale di responsabilità e quella dei creditori potrà essere esercitata solo dai commissari straordinari che amministrano le società. Il sito Altalex spiega che queste “azioni di responsabilità” sono gli strumenti con cui soci e creditori della società possono rivalersi sugli amministratori di quella stessa società per averla gestita senza “diligenza” e non adempiendo ai loro doveri. In altre parole, amministratori che fanno colpevolmente male il proprio lavoro potrebbero essere costretti a rifondere alla società i soldi che le hanno fatto perdere.
Normalmente la decisione di iniziare un’azione di responsabilità è presa dall’assemblea degli azionisti o dal collegio sindacale, che è un organo nominato dall’assemblea degli azionisti. Si tratta di una decisione che è nelle mani di chi controlla la società, cioè spesso le stesse persone che hanno nominato gli amministratori a cui viene chiesto di rifondere i danni che hanno causato. È possibile immaginare diverse situazioni in cui il gruppo di maggioranza dell’assemblea degli azionisti, dopo aver nominato degli amministratori incapaci, decida di non rivalersi su di loro.
Come ha notato Piero Cecchinato su Linkiesta, le disposizioni sull’azione di responsabilità del decreto salva banche non sono una novità. Per proteggere gli azionisti di minoranza da questo rischio, la legge stabilisce da anni che quando la società si trova in difficoltà (per la precisione: quando si trova in amministrazione straordinaria oppure quando è in liquidazione), l’azione sociale di responsabilità passa dalle mani dell’assemblea degli azionisti a quelle dei commissari straordinari, gli amministratori nominati dal tribunale quando una società è in difficoltà. L’idea è che in questo modo a decidere se chiedere o meno i “danni” agli amministratori non sia la maggioranza degli azionisti, cioè probabilmente le stesse persone che hanno nominato gli amministratori incapaci, ma delle figure terze e indipendenti chiamate a gestire la società in crisi.
È esattamente la situazione che prevede il decreto approvato lo scorso novembre per le quattro banche salvate. Il problema è che il “salvataggio” non corrisponde perfettamente a nessuna delle fattispecie previste precedentemente dalla legge: non è né un caso di “amministrazione straordinaria” né di “liquidazione coatta”. Si tratta invece di una “risoluzione”, un nuovo tipo di intervento introdotto dal governo proprio con il decreto salva banche per adeguarsi alle regole europee.
Riccardo Puglisi, professore associato di Economia all’Università di Pavia e responsabile economico del partito Italia Unica, ha riassunto così la situazione:
Tabella su azione responsabilità vs. vecchi amministratori #BanchePopolari. Il governo Renzi aveva scelta?
#boschi pic.twitter.com/bzmjOQMGYj
— Riccardo Puglisi (@ricpuglisi) 14 Dicembre 2015
La terza e la quarta colonna mostrano cosa dice la legge italiana a proposito della responsabilità degli amministratori in caso la società si trovi in amministrazione straordinaria, oppure in liquidazione. Nella seconda colonna si vede il testo del decreto salva banche. Lo schema mostra chiaramente qual è l’unico vero punto in cui sembra che il governo abbia usato un certo grado di discrezionalità. Adottando per la prima volta un provvedimento sulla “risoluzione”, il governo poteva decidere a quale delle due fattispecie ispirarsi. Come mostra la sottolineatura in rosso, il governo ha preferito assimilare la risoluzione alla liquidazione, attribuendo ai commissari non solo l’azione di responsabilità da parte degli soci, come nella disciplina dell’amministrazione straordinaria, ma anche quella dei creditori.
Riassumendo: gli ex amministratori delle quattro banche possono essere perseguiti penalmente, mentre creditori e azionisti possono rivalersi su di loro in un tribunale civile. Azioni collettive contro di loro, in nome di azionisti e creditori, potranno comunque essere intraprese, ma solo se lo decideranno i commissari straordinari, che hanno cinque anni di tempo per decidere se farlo.
Fonte: Il Post
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