Dopo l’attentato nel quartiere sciita di Borj el Barajneh a Beirut, in Libano, il 12 novembre 2015. (Khalil Hassan, Reuters/Contrasto)
Pierre Haski, Rue89, Francia
Ventiquattr’ore prima di Parigi, il gruppo Stato islamico colpiva Beirut senza suscitare altrettanta solidarietà internazionale con le vittime. C’è di che interrogarsi sui motivi di questa differenza nella percezione dei due eventi.
Nei giornali c’è una nota legge secondo la quale due morti in un incidente nella metro a Parigi o a Londra pesano più di cento morti in un incidente ferroviario all’altro capo del mondo, per esempio in India o in Bolivia.
È una legge cinica, ma che il direttore del Tg delle otto conosce perfettamente: il telespettatore europeo s’identificherà di più con l’europeo che ha il suo stesso stile di vita che con l’abitante di Bombay, benché anche quest’ultimo prenda i mezzi per andare al lavoro.
Applicata al terrorismo, questa legge conosce qualche variante che dimostra come quelle che da noi sono considerate “emozioni collettive a livello planetario” siano in realtà emozioni a geometria variabile. Alla borsa delle emozioni non tutte le vittime del terrorismo si equivalgono, e i terroristi l’avevano capito perfettamente quando hanno preso di mira Parigi e i suoi abitanti.
A proposito di questa diversità di percezione, ecco due esempi che illustrano bene le linee di frattura e i fossati che queste producono.
Beirut-Parigi, lo stesso dolore?
Il giorno prima di Parigi, lo Stato islamico colpiva a Beirut, e più precisamente il quartiere sciita di Borj el Barajneh, facendo 43 morti e 239 feriti. Si è trattato dell’attentato più cruento, commesso nella capitale libanese da oltre vent’anni. Eppure non ha suscitato la stessa emozione degli attentati messi a segno dagli stessi autori a Parigi ventiquattr’ore ore più tardi. Niente monumenti illuminati con l’effigie di un cedro, niente foto listate a lutto sui profili dei social network, niente veglie a lume di candela ai quattro angoli della Terra. Anzi, l’attentato di Beirut è stato rapidissimamente oscurato da quelli di Parigi, senza precedenti per portata e per modus operandi, e terrificanti per la freddezza con cui sono stati condotti.
"Tutti s’identificano con un giovane parigino che assiste a un concerto rock, ma non s’identificano con l’abitante dei quartieri sciiti di Beirut
È stato necessario che qualcuno esprimesse commozione perché cominciasse a venire alla luce il legame fra le due capitali in lutto (Parigi-Beirut, stesso dolore): inizialmente sono stati dei libanesi, ma poi anche da altre parti del mondo sono apparsi appelli per non dimenticare il Libano.
Perché questa differenza di trattamento? Perché si applica lo stesso principio d’identificazione sociale che funziona negli incidenti ferroviari.
Tutti, da San Francisco a Sydney, passando per Varsavia, possono identificarsi con un giovane parigino che assisteva a un concerto rock, ricordarsi che anche loro sono andati o sognano di andare in vacanza a Parigi, mentre nessuno s’identificherà con l’abitante di un quartiere sciita (quindi filo-Hezbollah) di Beirut, anche se si tratta di un giovane della stessa età e non molto diverso dalla vittima parigina.
Simmetrie vere e false
Se la relativa assenza di compassione per le vittime dell’attentato di Beirut deriva dalle rappresentazioni che si sono formate nel corso del tempo, c’è poi un altro dibattito, più inquietante, ed è quello sulla differenza di trattamento delle vittime.
È il dibattito alimentato sui social network dai simpatizzanti dei jihadisti. Site (Search for international terrorist entities), il sito che monitora le organizzazioni jihadiste online, ha raccolto degli estratti delle discussioni sulla questione.
Un utente chiede a Israfil Yilmaz, un olandese che si definisce combattente dello Stato islamico, se sia a favore degli attentati di Parigi. Risposta: “Sono favorevole agli attentati di Parigi tanto quanto il governo francese è favorevole a bombardare e terrorizzare musulmani innocenti in Siria, in Iraq e altrove. A te sta bene? Ti sembra coerente che il sangue dei musulmani scorra da decenni senza suscitare alcuna indignazione? Eppure, quando noi rispondiamo, e gli togliamo ciò che loro tolgono a noi, servendoci dei loro stessi mezzi, la fanno tanto lunga”.
Il sito raccoglie molte altre opinioni dello stesso tenore, apparse sulle piattaforme e sui social network jihadisti: tutte pongono sullo stesso piano le vittime di attentati come quelli appena avvenuti a Parigi e le vittime delle guerre “imperialiste” nel mondo musulmano.
Questa simmetria sarà giudicata insopportabile da ogni lettore occidentale che rifiuti di porre sullo stesso piano un atto di terrore assoluto come l’attentato in una sala da concerto o in un ristorante, e operazioni militari condotte da un esercito regolare contro obiettivi teoricamente mirati e legittimi.
Tuttavia è evidente che le avventure militari occidentali di quest’ultimo decennio – quella in Afghanistan, dove, agli occhi di parte della popolazione, i “liberatori” del 2001 si sono trasformati in “occupanti”, e soprattutto quelle del 2003 in Iraq e del 2011 in Libia, che hanno provocato la dissoluzione di stati e un caos senza fine – hanno screditato i nobili discorsi delle grandi democrazie.
La pur legittima compassione degli occidentali per le “loro” vittime del terrorismo non dovrebbe indurli a dimenticare le altre vittime del terrorismo, né a rinunciare a farsi un esame di coscienza sul modo in cui loro stessi si comportano, soprattutto nei paesi arabi o musulmani.
Questo messaggio di compassione e di solidarietà non soltanto è “normale”, diciamo pure umano, ma è anche il solo mezzo per decostruire il discorso degli estremisti, che denunciano le nostre ipocrisie per meglio coprire i loro crimini.
(Traduzione di Marina Astrologo)
Questo articolo è uscito su Rue89. Per leggere l’originale clicca qui.
Fonte: Internazionale
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