Morire di overdose a 46 anni, lasciando compagna e tre figli, e non ventenne, star maledetta piena di party, di donne, di eccessi. Philip Seymour Hoffman rifugge anche questo stereotipo, e perde la battaglia con l’eroina in silenzio, facendo un gran male. Timido e riservato, provava fatica e imbarazzo anche a ritirare i numerosi premi vinti in carriera, proprio come i grandi attori che una volta usciti dal personaggio si sentono come pesci fuor d’acqua.
Interprete-feticcio del talentuoso regista Paul Thomas Anderson, con il quale ha girato ben cinque film e cui era legato da amicizia ventennale, è stato candidato all’Oscar come attore non protagonista nel 2008 per “La guerra di Charlie Wilson”, l’anno seguente per “Il dubbio” e nel 2013 per il controverso “The master”, nei panni di un ipnotico santone moderno a capo di una setta che ricorda Scientology. Ma la celebre statuetta, da protagonista, l’ha già portata a casa nel 2006 per il suo magistrale Truman Capote in “A sangue freddo”: «Una tragedia classica – aveva detto parlando del film – una vicenda che ha una forza in sé e ti trascina verso qualcosa di inevitabile, che non puoi fermare. Io stesso mi sentivo trasportato su un treno, senza sapere dove sarei finito». È nel ruolo del geniale e sensibile scrittore del secolo scorso che l’attore si fa conoscere ed amare definitivamente dal grande pubblico, mentre Hollywood lo aveva valorizzato alla stregua di spalla, versatile e sempre diverso, in pellicole come “Il grande Lebowski”, “Magnolia”, “Il talento di Mr Ripley”, “La 25esima ora”, “Mission Impossible 3”. Anche George Clooney lo ha fortemente voluto nelle sue “Idi di marzo” (2011): qui Philip incarnava alla perfezione lo stratega politico responsabile di una campagna elettorale.
Hoffman era uno di quegli interpreti dei quali, all’inizio, prima del nome ricordi la faccia. Una faccia impegnativa, la sua. Normale ma unica nel suo genere, intensa, tormentata, sopra un fisico non leggero ma capace di trasformarsi e sparire a favore dell’interpretazione. «Nel mio lavoro ho cercato di capire perché la gente fa certe cose, che tipo di vita conduce, che cosa la porta a prendere certe decisioni». Immaginiamo quindi i tormenti nel prepararsi allo spietato e disperato fratello di “Onora il padre e la madre”, lo scioccante capolavoro di Sidney Lumet del 2007. «Sapeva interpretare il pericolo e la vulnerabilità – ha dichiarato il collega Gary Oldman – Tutte quelle qualità che rendono un attore molto speciale».
Uscito lo scorso anno da un centro riabilitativo per le tossicodipendenze, Hoffman ha ceduto ed è ricaduto nella droga. Stava lavorando ad una regia, un film ambientato durante la Grande Depressione dal titolo “Ezekiel Moss”. Usciranno a breve nelle sale il thriller “A Most Wanted Man” di Anton Corbijn e il dramma “God’s Pocket” di John Slattery, girati nel 2013. Lascia in sospeso invece il terzo capitolo della saga “Hunger Games”. Ed è brutto poter solo immaginare quanto ancora ci avrebbe potuto deliziare con il suo lavoro.
Fonte: Diritto di critica
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