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L’FBI è riuscita senza l’aiuto di Apple a ottenere i dati criptati dell’iPhone di Syed Rizwan Farook, l’attentatore che lo scorso 2 dicembre ha ucciso 14 persone in una clinica di San Bernardino, in California. Di conseguenza il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti (DOJ), l’equivalente americano del ministero della Giustizia, ha deciso di chiudere l’azione legale contro Apple di cui si è molto parlato nelle ultime settimane. La notizia circolava già dalla scorsa settimana quando l’udienza era stata posticipata proprio perché il Dipartimento di Giustizia aveva detto di avere trovato una possibile soluzione per lo sblocco del telefonino grazie all’aiuto di un «soggetto terzo» che resta tutt’ora sconosciuto. Lunedì 28 marzo il Dipartimento stesso ha comunicato che quella soluzione ha funzionato rendendo inutile un’udienza futura. L’FBI voleva obbligare Apple a recuperare i dati dall’iPhone in questione superando i sistemi di sicurezza presenti sul telefono.
Quello tra Apple e l’FBI è un confronto che ha aperto un esteso dibattito sui confini entro i quali aziende e istituzioni devono muoversi per tutelare la privacy degli individui. E ora, dopo l’ultimo sviluppo, la questione principale è capire se il Dipartimento di Giustizia sceglierà di rendere tutti gli iPhone più sicuri comunicando ad Apple come sono stati superati i sistemi di sicurezza dell’iPhone (per cui Apple riteneva necessario progettare una versione modificata del suo sistema operativo) o di conservare per sé la tecnica di indagine. Non è infatti chiaro quale sia stato il metodo usato dall’FBI e se funzioni solo sul modello di iPhone 5C appartenuto all’attentatore di San Bernardino o anche sugli altri modelli che usano lo stesso sistema operativo.
Da settimane l’FBI chiedeva a Apple di collaborare per recuperare dei dati criptati nello smartphone di Farook, che era stato trovato durante le indagini e dal quale sperava di ottenere informazioni sulle attività dei terroristi nelle settimane precedenti all’attacco. Finora l’FBI aveva sostenuto che i dati sarebbero stati accessibili solo con la collaborazione di Apple dopo che erano falliti i primi tentativi di recuperarli. Alcuni dati archiviati online tramite il servizio iCloud erano già stati recuperati grazie all’aiuto di Apple, ma l’FBI aveva scoperto che non erano i più recenti e quelli più importanti per le indagini. L’FBI aveva quindi chiesto a Apple, tramite un’ordinanza di un giudice, di sviluppare un’apposita versione del suo sistema operativo iOS da installare su quel telefono, così da fornire un accesso secondario agli investigatori e permettere loro di ottenere i dati più recenti dall’iPhone di Farook, che sono criptati. Apple si era opposta, dicendo che una soluzione di questo tipo avrebbe creato un precedente molto pericoloso, perché l’FBI avrebbe potuto accedere a qualsiasi altro iPhone in suo possesso e che una modifica di questo tipo a iOS sarebbe stata tecnicamente molto difficile da realizzare.
Dopo la notizia dello sblocco riuscito senza l’aiuto di Apple, l’azienda ha pubblicato un comunicato in cui dice: «Fin dall’inizio abbiamo contestato la richiesta dell’FBI di costruire una backdoor (cioè una porta di accesso che consentisse di superare le procedure di sicurezza, ndr) nell’iPhone credendo fosse sbagliato e un precedente pericoloso». Apple ha anche fatto sapere di credere «profondamente che le persone negli USA e in tutto il mondo abbiano il diritto alla protezione di dati, alla sicurezza e alla privacy. Sacrificare un principio in nome di un altro pone le persone e i paesi in una posizione di maggiore rischio. Noi continueremo ad aiutare le forze dell’ordine nelle indagini, come abbiamo sempre fatto, e continueremo ad aumentare la sicurezza dei nostri prodotti mentre le minacce e gli attacchi contro i nostri dati diventano più frequenti e più sofisticati».
Fonte: Il Post
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