di Francesco Costa
I candidati alle primarie di Roma. (Roberto Monaldo / LaPresse)
C’è stato un momento, non molti anni fa, in cui Roma era Milano e Milano era Roma. Nel senso che Roma era la città accogliente, vivace, vivibile, funzionante, di moda; mentre Milano era la città in declino, impaurita, corrotta. Si leggeva su Repubblica nel 2002: «La città, finita la sua grande stagione industriale, sembra vivere in una sorta di eterna ordinaria amministrazione, in cui un giorno si insegue il problema delle periferie, il giorno dopo quello del traffico nel centro storico, e il giorno dopo ancora quello dei cartelli stradali. Ma si continua a rifiutare lo sforzo per definire la città, per definire il suo futuro. E quindi per fare gli investimenti necessari. E quindi, nonostante l’orgoglio e il talento dei suoi abitanti, Milano continua a essere la capitale di niente. La capitale di se stessa, cioè di un insieme di persone che non riescono a dare una definizione del luogo in cui vivono». Se oggi sostituite “Roma” a “Milano”, funziona lo stesso.
Questo ribaltamento ha molte ragioni, dal logoramento della qualità dell’amministrazione che si verifica spesso quando una sola parte politica si trova a governare una città per molti anni – il centrosinistra ha espresso il sindaco di Roma dal 1993 al 2015, con una sola pausa – alla disastrosa gestione della città proprio durante quella pausa, l’amministrazione di Gianni Alemanno e del centrodestra dal 2008 al 2013.
Oggi il comune di Roma ha una situazione economica particolarmente complicata – un debito da 14 miliardi di euro, quanto quello di una piccola nazione – che si è unita alle storiche e naturali difficoltà di amministrazione di una città estesa il doppio di Milano, Napoli, Torino e Palermo messe insieme. La sua decadenza negli ultimi anni è diventata praticamente parte del paesaggio: sono fioriti visitatissimi siti internet dedicati al cosiddetto “degrado” – il più letto, famoso e controverso è Romafaschifo – e gli episodi di disorganizzazione e malgoverno hanno riempito con straordinaria frequenza le pagine dei giornali, diventando a loro volta una specie di genere letterario. Da “affittopoli” a “parentopoli”, dalle assenze di massa dei vigili urbani la notte di Capodanno a Mafia Capitale, dalla sporcizia delle strade agli innumerevoli scioperi dei mezzi pubblici, Roma è diventata il simbolo di tutto quello che può andare storto in una città.
L’ultimo sindaco di Roma, Ignazio Marino, aveva scommesso le sue fortune politiche proprio sul suo essere meno romano degli altri: un ex chirurgo, peraltro nato a Genova e con proficue esperienze di studio e lavoro all’estero, è stato descritto per mesi dalla stampa come un alieno, un “marziano”, cosa che avrebbe dovuto permettergli di risolvere i problemi della città con un’efficacia che gli altri non avrebbero avuto. Non è andata così, e anzi la sua amministrazione si è conclusa in un modo traumatico che ancora divide la città e il centrosinistra che lo aveva sostenuto: alcuni giurano che Marino sia stato “fatto fuori” dal suo stesso partito proprio perché aveva provato a mettere le mani con radicalità nei molti problemi irrisolti di Roma, altri pensano che Marino sia finito incolpevolmente masticato dalle campagne di stampa organizzate contro di lui dall’opposizione (per esempio l’assurda storia delle multe), altri ancora sostengono che Marino si sia “fatto fuori” da solo per l’improvvisazione di molte sue azioni e l’inadeguatezza ad affrontare con le sole buone intenzioni i problemi di una città come Roma.
Ignazio Marino durante la campagna elettorale del 2013. (Roberto Monaldo/LaPresse)
Chi vive in città e frequenta un minimo la sua politica racconta di un clima particolarmente cupo e incattivito, dove i problemi sono aggravati dall’assenza di una vera classe dirigente cittadina. Il centrodestra, che pure a Roma ha un certo radicamento e che dopo la tormentata fine della giunta Marino dovrebbe essere in teoria il vincitore naturale delle elezioni amministrative della prossima primavera, non ha ancora trovato un candidato a sindaco: ed è indicativo che il nome di Guido Bertolaso – la cui candidatura era stata annunciata come ufficiale qualche settimana fa – sia stato scartato dalla Lega Nord, che un tempo non avrebbe avuto alcuna voce in capitolo sulle cose politiche romane. Il Movimento 5 Stelle per sua natura in una situazione del genere dovrebbe prosperare, ma in questi anni non ha saputo davvero costruire una visibile leadership cittadina: e i suoi candidati a sindaco e a consiglieri comunali devono firmare un contratto che li impegna a consultare Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio prima di prendere qualsiasi importante decisione amministrativa, salvo non voler pagare una grossa penale – non proprio il massimo della trasparenza.
Il centrosinistra, nel frattempo, formalmente non esiste più o quasi. I partiti di sinistra che sono stati storici alleati del PD e dei partiti suoi predecessori nelle giunte romane degli anni Novanta e Duemila, infatti, sono parzialmente riuniti sotto l’ombrello di Sinistra Italiana – che comprende Sinistra Ecologia Libertà – e hanno presentato un loro candidato autonomo, Stefano Fassina. I sostenitori di Ignazio Marino – riuniti in un attivissimo gruppo Facebook che ha oltre 13.000 iscritti – sono ancora infuriati col PD e non escludono di presentare una loro candidatura autonoma alle amministrative: candidatura che potrebbe essere proprio quella di Ignazio Marino, che viene descritto da chi gli è vicino come molto indeciso.
Per quanto possa apparire paradossale, quindi, in un contesto del genere nessuno esclude davvero che le prossime elezioni amministrative possano essere vinte di nuovo dal PD: e domenica 6 marzo il PD sceglierà il suo candidato sindaco con le primarie, e senza che ci sia un grande favorito. I candidati sono sei.
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Fonte: Il Post
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