Maria Elena Boschi e Matteo Renzi. (ANSA)
La Camera dei Deputati ha approvato la riforma della Costituzione – il cosiddetto ddl Boschi – con 367 voti a favore e 7 contrari; l’opposizione è rimasta fuori dall’aula per protesta. Era la sesta e ultima lettura, ma dato che la riforma è stata approvata senza la maggioranza di due terzi dei componenti di ciascuna camera, sarà sottoposta a un referendum confermativo, che sarà probabilmente organizzato nell’autunno di quest’anno.
Se vinceranno i “sì”, sparirà il Senato per come lo conosciamo oggi, trasformato in un “Senato delle autonomie” formato da 74 consiglieri regionali, 21 sindaci e 5 senatori di nomina presidenziale (che durano in carica 7 anni e non potranno essere rinominati) che avranno per lo più un ruolo consultivo. Diverse competenze affidate alle regioni dalla precedente riforma saranno nuovamente attribuite allo stato, nell’ottica di ottimizzare e coordinare meglio le risorse affidate agli enti locali. Se vinceranno i “no”, resterà tutto come oggi. Durante la tradizionale conferenza stampa di fine anno, il presidente del Consiglio Matteo Renzi aveva detto, tra le altre cose, che qualora la riforma dovesse essere bocciata dagli elettori, prenderebbe atto del «fallimento del mio impegno politico».
Dal punto di vista dei numeri il governo non ha avuto problemi alla Camera, dove gode del sostegno di una maggioranza larghissima per effetto del premio attribuito al partito più votato previsto dalla vecchia legge elettorale. Al Senato la situazione era più equilibrata, ma lo scorso ottobre la riforma era già stata approvata con 171 voti favorevoli (la maggioranza è 158) e il governo è più solido che in passato grazie al sostegno di un gruppo parlamentare fondato da Denis Verdini e nel quale si sono spostati alcuni senatori eletti con Forza Italia. La stessa riforma, nelle sue fasi iniziali, era stata scritta insieme al centrodestra e votata dai suoi parlamentari: era un pezzo del cosiddetto “patto del Nazareno”, l’accordo politico trovato da Renzi e Berlusconi per approvare le riforme costituzionali e la legge elettorale. Dopo qualche mese di faticosa collaborazione – e decine di teorie del complotto sul contenuto del “patto” – l’accordo era stato fatto saltare da Berlusconi per protesta contro la scelta del PD di candidare Sergio Mattarella alla presidenza della Repubblica, senza consultare Forza Italia.
Cosa prevede la riforma
La riforma promossa dal governo Renzi – il cosiddetto “ddl Boschi”, dal cognome del ministro Maria Elena Boschi – prevede innanzitutto la fine del cosiddetto “bicameralismo perfetto”, espressione con cui si definisce un sistema parlamentare le cui camere svolgono più o meno le stesse funzioni.
Con la riforma il Senato perderebbe molti dei suoi poteri: il grosso del potere legislativo finirebbe in mano alla sola Camera dei Deputati. Il Senato cambierebbe anche composizione: sarebbe formato da 74 consiglieri regionali nominati dai rispettivi consigli regionali, più 21 sindaci e 5 membri nominati dal presidente della Repubblica. Le modalità esatte di elezione dei nuovi senatori/consiglieri saranno definite in seguito attraverso delle leggi ordinarie: nel “ddl Boschi” è scritto solo che i senatori saranno eletti «in conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri in occasione del rinnovo dei medesimi organi». Il Senato quindi avrebbe 100 senatori, 215 in meno rispetto a oggi.
La riforma prevede che il governo abbia bisogno solo della fiducia della Camera dei Deputati. Chi è contrario alla riforma teme che in questo modo i futuri governi abbiano troppo potere e l’equilibrio tra governo e Parlamento ne uscirebbe sbilanciato. Chi è a favore della riforma usa più o meno gli stessi argomenti, ma sostenendo che invece è necessario snellire il processo legislativo, evitando che le leggi debbano fare continui passaggi da una camera all’altra – la cosiddetta “navetta” – prima di entrare in vigore.
Oltre alla riforma del Senato, di cui si è molto discusso, il “ddl Boschi” modifica anche altre parti della Costituzione, in particolare per quanto riguarda il titolo V, cioè la parte del testo costituzionale che tratta il rapporto tra Stato e Regioni.
Il referendum
Come prevede l’articolo 138 della Costituzione, la riforma approvata senza la maggioranza dei due terzi in seconda lettura può essere sottoposta a un referendum se lo chiedono almeno un quinto dei membri di ogni camera o almeno cinque regioni o almeno 500.000 cittadini. Non c’è quorum: la legge viene promulgata se i voti favorevoli superano quelli sfavorevoli. Ci sono stati solo due referendum costituzionali nella storia della Repubblica italiana. Il primo, tenuto il 7 ottobre 2001, portò all’approvazione della riforma del Titolo V della Costituzione con il 64,2 per cento di favorevoli; il secondo, tenuto il 25 e 26 giugno 2006, bocciò la riforma della Costituzione promossa dal governo Berlusconi con il 61,3 per cento dei voti.
Fonte: Il Post
Nessun commento:
Posta un commento