lunedì 3 ottobre 2016

Il Nobel per la medicina a Yoshinori Ohsumi

Per "le sue scoperte sui meccanismi di autofagia", con cui le cellule possono distruggere e riciclare parte del loro stesso materiale

Yoshinori Ohsumi (Akiko Matsushita/Kyodo News via AP)

Il premio Nobel per la Medicina o la Fisiologia 2016 è stato assegnato a Yoshinori Ohsumi per “le sue scoperte sui meccanismi di autofagia”, con cui le cellule possono riciclare parte del loro stesso contenuto. Ohsumi ha 71 anni, è giapponese e ha dedicato buona parte della sua vita alla ricerca sulle caratteristiche delle cellule. Le sue scoperte hanno aperto nuove opportunità per studiare l’importanza dell’autofagia in numerosi processi fisiologici, dalla capacità di adattamento degli organismi al loro modo di rispondere alle infezioni. Mutazioni nei geni che regolano l’autofagia possono portare a malattie di vario tipo, compresi tumori e disturbi neurologici: dalla loro comprensione dipende lo sviluppo di nuove terapie per trattare queste patologie.

Organelli e riciclo
Le ricerche sull’autofagia di Ohsumi hanno alle spalle decenni di studi sul funzionamento delle cellule. Intorno alla metà degli anni Cinquanta furono osservati i “lisosomi”, vescicole (organelli) che contengono enzimi con la funzione di digerire le proteine, i carboidrati e i grassi, nell’ambito dei processi per tenere in ordine la cellula e smaltirne parte del contenuto. Negli anni seguenti furono scoperti altri dettagli sul funzionamento dei lisosomi e sui sistemi usati dalla cellula per trasportare verso questi organelli il materiale da distruggere. Complice il miglioramento dei microscopi e delle altre tecniche di osservazione, fu scoperto un ulteriore tipo di vescicola che fu chiamata “autofagosoma”: questa ha il compito di inglobare il materiale cellulare da distruggere – come proteine e organelli danneggiati – e di trasportarlo verso il lisosoma, dove viene riciclato e utilizzato per rinnovare altre strutture della cellula.

Negli anni Settanta e Ottanta, i ricercatori si concentrarono su un altro sistema usato dalle cellule per smaltire le proteine, chiamato “proteasoma”. Si scoprì che questo meccanismo degrada in modo molto efficiente le proteine una a una, ma all’epoca i ricercatori non furono in grado di spiegare come facesse la cellula a distruggere complessi proteici più grandi e organelli ormai inutilizzabili. Il meccanismo dell’autofagia non era stato ancora spiegato completamente, e qui entra in gioco Yoshinori Ohsumi.


Gli studi sui lieviti di Yoshinori Ohsumi
Alla fine degli anni Ottanta, Ohsumi iniziò a lavorare sui vacuoli nei lieviti, organelli che corrispondono più o meno ai lisosomi nelle cellule umane. I ricercatori utilizzano spesso i lieviti come basi per i loro studi, perché le loro cellule sono più semplici da analizzare e si moltiplicano velocemente. Le cellule dei lieviti hanno però il problema di essere molto piccole e quindi difficili da osservare al loro interno al microscopio. Non potendo avere conferma diretta dei meccanismi di autofagia in questo tipo di cellule, Ohsumi prese una strada alternativa: pensò che se fosse riuscito a interrompere l’attività dei vacuoli, avrebbe dovuto notare un aumento degli autofagosomi, perché questi si sarebbero ammassati nella cellula senza avere possibilità di essere smaltiti. Per farlo, coltivò lieviti selezionati in modo che non avessero gli enzimi che nei vacuoli degradano il materiale cellulare, e al tempo stesso indusse i meccanismi di autofagia lasciando la cellula senza possibilità di ottenere nuove risorse dall’esterno (cosa che quindi spinge a un riciclo dei suoi materiali per ottimizzare i consumi). I risultati furono oltre le sue aspettative: in poche ore le cellule del lievito si erano riempite di vescicole che non potevano essere smaltite.

Con questo esperimento, Ohsumi non solo dimostrò che l’autofagia si verifica anche nelle cellule del lievito, ma ottenne soprattutto un sistema per identificare i geni con le istruzioni per far funzionare questo processo. I risultati della sua ricerca furono pubblicati nel 1992 e ottennero grande risalto nella comunità scientifica, alla ricerca di nuovi sistemi per analizzare e modificare i comportamenti cellulari. Ad appena un anno dalla scoperta dell’autofagia nei lieviti, Ohsumi isolò i primi geni responsabili del meccanismo e negli studi seguenti descrisse nel dettaglio come si formano gli autofagosomi, come inglobano il materiale da riciclare e come interagiscono con i vacuoli per il loro smaltimento.


Perché è importante l’autofagia
Grazie al lavoro di Ohsumi e ai ricercatori che sono partiti dai risultati dei suoi esperimenti, oggi sappiamo che l’autofagia è alla base di funzioni fisiologiche fondamentali per le cellule. L’autofagia consente a una cellula di avere rapidamente a disposizione nuova energia, proteine da riciclare per ristrutturare i suoi contenuti e risorse per affrontare altri tipi di stress e di attacchi dall’esterno. L’autofagia è essenziale nel rimuovere e distruggere virus e batteri che si sono intrufolati nel materiale cellulare, per esempio, ma è anche alla base dei meccanismi che portano allo sviluppo e alla differenziazione delle cellule negli embrioni. Eliminando organelli e proteine danneggiati, le cellule contrastano inoltre il loro invecchiamento, riducendo il rischio di pericolose mutazioni.

Negli ultimi anni alcune ricerche hanno messo in relazione i malfunzionamenti nell’autofagia con alcune malattie come il Parkinson, il diabete di tipo 2 e altre patologie tipiche dell’invecchiamento. Ci sono anche studi che mettono in relazione un’autofagia difettosa con lo sviluppo di alcune forme tumorali.

Yoshinori Ohsumi è nato nel 1945 a Fukuoka in Giappone, ha conseguito un dottorato di ricerca nel 1974 presso l’Università di Tokyo dove nel 1988 ha aperto il suo laboratorio di ricerca; dal 2009 insegna presso il Tokyo Institute of Technology. L’autofagia è un fenomeno noto da almeno 50 anni, ma la sua importanza fondamentale nella fisiologia e nella medicina è stata messa in evidenza solo grazie agli studi senza precedenti di Ohsumi, che oggi gli sono valsi il premio Nobel.

Fonte: Il Post

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