(AP Photo/Richard Drew)
Tutte le principali Borse del mondo sono andate male mercoledì 20 gennaio, alcuni mercati finanziari – come quello brasiliano e giapponese – sono entrati nel cosiddetto “bear market”, un’espressione usata per indicare una perdita superiore al 20 per cento in un dato periodo. In Russia, Argentina e Cina i principali indici di Borsa hanno perso più del 15 per cento solo dall’inizio del 2016. La Borsa di Milano, che è stata tra le migliori nel mondo durante lo scorso anno, sta andando molto male negli ultimi giorni, soprattutto a causa dei problemi di alcuni istituti bancari. Cosa sta succedendo?
Il petrolio, anzitutto
Il prezzo del petrolio continua a scendere velocemente da novembre, fino a qualche mese si riteneva che si sarebbe aggiustato attorno a 40 dollari al barile, ma ora diversi analisti ritengono che potrebbe arrivare anche a 25 se non a 20 dollari al barile. La causa di un prezzo così basso è principalmente nell’offerta, che è aumentata moltissimo anche a causa di una accresciuta produzione interna degli Stati Uniti e, negli ultimissimi giorni, dall’annullamento delle sanzioni imposte all’Iran che gli impedivano di esportare oltre una certa quantità di barili ogni giorno. In breve, la questione è la seguente: i produttori di petrolio ne producono di più ma le persone che lo comprano non ne hanno più bisogno di prima, anzi, e quindi il prezzo di mercato (dettato dall’incontro tra domanda e offerta) si abbassa. Mentre è aumentata l’offerta di petrolio, la domanda è invece diminuita: principalmente per un aumento di efficienza delle industrie che lo utilizzano, che quindi hanno bisogno di minori quantità per produrre le stesse cose di prima, e per la situazione economica della Cina, il cui rallentamento ha causato una diminuzione dei consumi.
La Cina che rallenta
La Cina è la seconda maggiore economia mondiale, ma i suoi ritmi di crescita sono diminuiti molto negli ultimi 6-7 anni. Si tratta comunque di tassi di crescita del PIL molto più alti di quelli di cui sentiamo parlare per i paesi europei o gli Stati Uniti, ma molto più bassi di quelli che possono attirare gli investitori: mentre portare i propri capitali in Cina poteva avere senso per un’economia che cresceva sopra il 10 per cento, potrebbe non averlo per una che cresce al 7. Il rallentamento dell’economia cinese ha molti effetti, anzitutto sulla domanda di petrolio come abbiamo detto, e poi in generale sulle economie con i quali intrattiene rapporti commerciali di grandi dimensioni: si tratta perlopiù di economie emergenti dell’Asia, la crescita delle quali rallenta come quella cinese, riducendo ulteriormente la domanda di petrolio, tra le altre cose.
Il Giappone e la Russia
Entrambi questi paesi se la passano piuttosto male, più degli altri. L’economia russa è fortemente legata alla sua produzione di energia, un più basso prezzo del petrolio quindi la danneggia più di altri. Mercoledì il rublo, la moneta nazionale della Russia, ha raggiunto il valore più basso di sempre nei confronti del dollaro. Anche il Giappone è influenzato dal petrolio, ma con il recente crollo del suo mercato azionario c’entrano molto le esportazioni. Buona parte dell’economia giapponese si basa sulla vendita dei propri prodotti all’estero: quando si compra una cosa prodotta in un altro paese si cambia la propria moneta con quella di quel paese, dell’operazione generalmente se ne occupa la banca che compie la transazione, quindi non ve ne accorgete; questo vuol dire che in realtà quando comprate una cosa dal Giappone, la comprate in yen; se lo yen è caro, sarà più costosa la cosa che volete comprare e magari ci ripenserete o proverete a comprare da qualche altro paese. Questo è un serio problema per il Giappone, poiché lo yen – così come l’oro – è considerato un bene “di rifugio”, cioè uno strumento dove tenere i propri soldi quando le cose nel resto del mercato vanno male: quanta più gente compra yen come bene di rifugio però, tanto più sale il valore dello yen e tanto meno vendono i produttori giapponesi, per il meccanismo spiegato prima.
L’Italia e le banche
Come detto, non c’è praticamente nessuno dei principali mercati azionari che non venga influenzato dalla situazione del petrolio. In Italia però a preoccupare gli investitori c’è anche un problema ulteriore, che riguarda le banche. Alla Borsa di Milano le principali banche italiane pesano molto sul FTSE MIB, l’indice principale, e anche nell’economia reale il settore bancario ha un ruolo particolarmente importante poiché le aziende che hanno bisogno di soldi spesso si rivolgono ai prestiti in banca anziché a finanziamenti sul mercato, tramite obbligazioni. Le banche italiane però non sono messe benissimo a causa di un’ingente presenza nei loro bilanci dei cosiddetti “non performing loans”, crediti per i quali è difficile che i pagamenti vengano effettuati come previsto o che non vengano effettuati affatto. In Italia questi particolari tipi di credito sono il 16,7 per cento (350 miliardi di euro) degli impieghi totali delle banche, cioè di tutte le risorse che le banche possiedono sotto forma di investimento o comunque non in forma “liquida”. In Spagna quella percentuale è il 7 per cento del totale, in Francia il 4 per cento. Ciò che spaventa principalmente gli investitori è il ritardo con cui si sta provvedendo a risolvere questo problema, si parla da tempo dell’istituzione di “bad banks”, scatole vuote che esistono soltanto per tenere in pancia le perdite e vendere i crediti inesigibili a società specializzate nel recuperarne almeno una parte. C’era ancora molta confusione al riguardo nei giorni scorsi e questo ha fatto crollare i titoli di molte banche, soprattutto dell’istituto messo peggio, Monte dei Paschi di Siena. Giovedì le cose stanno andando molto meglio grazie alla notizia che l’Unione Europea sta accelerando le procedure per la creazione di una “bad bank”.
Fonte: Il Post
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