Minuto 56, finale di Coppa Campioni 1985 Juventus-Liverpool. Lancio lungo di Platini in profondità per Boniek che si invola tutto solo verso la porta avversaria, dietro di lui lo rincorrono Hansen e Johnston, quest’ultimo lo sgambetta fallosamente al limite dell’area: l’arbitro svizzero André Daina vede male, giudica dentro il fallo e indica il dischetto. È calcio di rigore. Dal dischetto va Platini: rincorsa e tiro, Grobbelaar si butta a sinistra, la palla va a destra, pugno destro al cielo di Le Roi e 1-0 per la formazione allenata da Trapattoni. Il risultato resiste fino al novantesimo e oltre, la coppa che va a Torino. Una partita e una finale come tante, una svista arbitrale e un’esultanza come altre. Alt.
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Alt perché la Storia il 29 maggio 1985, trent’anni oggi, ha raccontato altro: da parte il pallone, spazio all’incubo. Da quel maledetto giorno il solo pronunciare o ascoltare la parola Heysel richiama nella memoria di ogni tifoso di calcio l’orrore: l’orrore di 39 morti schiacciati dal peso di un muro di cartapesta infame venuto giù, fuggiti alla furia hooligans e finiti uno addosso all’altro, uno sotto l’altro in cerca di una via di fuga. Lo spavento e la corsa, l’affanno e lo spaesamento, i poliziotti che latitano, le urla, il panico e l’angoscia. La voce rotta di Bruno Pizzul alla tv, le esitazioni di mamma Rai, la decisione dei dirigenti Uefa ché si doveva giocare per forza.
Le gradinate dello stadio di Bruxelles diventano prima una gabbia infernale poi un camposanto su cui giacciono i corpi di 32 tifosi italiani, 4 belgi, 2 francesi e un irlandese: le storie di Giuseppina 17 anni giunta all’Heysel come premio per la bella pagella, di Giovanni e Andrea padre e figlio di soli undici anni, di Roberto il cui papà Otello ha fondato il comitato dei familiari delle vittime, di Nino, di Giancarlo, di Claude, di Jacques e di tutti gli altri finiscono così nel libro nero del calcio. Per sempre.
Photocredit copertina DOMINIQUE FAGET/AFP/Getty Images
Fonte: Giornalettismo
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