giovedì 28 maggio 2015

Pedofilia, la grave timidezza della Chiesa in Italia

Papa Francesco ha istituito una sorta di ministero per combattere gli abusi. Ma sono ancora tanti che faticano a collaborare con le autorità civili

Francesco Peloso

FILIPPO MONTEFORTE/AFP/Getty Images

Negli Stati e nei casi in cui i reati di abuso sui minori siano caduti in prescrizione e non è quindi possibile un’azione giudiziaria contro un religioso responsabile di simili atti «non è accettabile che le autorità ecclesiastiche sostengano che, se le autorità civili sono state informate ma non possono agire, la Chiesa non è obbligata a rispondere. Se lo stato è incapace di agire, la Chiesa deve investigare e risolvere il caso di abuso attraverso le sue proprie norme e procedure, rimuovendo i colpevoli e prendendosi cura delle vittime quando l’abuso è stato commesso».

Sono parole estremamente chiare quelle pronunciate lo scorso febbraio dal cardinale Sean Patrick O’ Malley, presidente della Pontificia commissione per la protezione dell’infanzia creata su impulso di papa Francesco. Nel frattempo l’organismo è stato dotato dei necessari Statuti normativi così da entrare in una fase definitivamente operativa; in poche parole, in Vaticano c’è ora un dicastero per combattere la piaga della pedofilia in primo luogo nel clero e poi per difendere i minori in generale.

Un bel passo avanti, certo, rispetto a un passato fatto di negazioni, insabbiamenti, fughe. E, d’altro canto è stato lo stesso O’ Malley a invocare un principio importantissimo: ovvero quello di mettere a punto «sanzioni» per «le autorità ecclesiastiche» che avessero fallito nel compito di proteggere l’infanzia. Insomma: basta protezioni dai vertici, fine dei segreti e dell’occultamento dei fatti. L’organismo vaticano, del resto, è nato coinvolgendo non solo le vittime degli abusi ma anche le conferenze episcopali sparse per il mondo. Tutto bene dunque? Non esattamente.

Molti Paesi non sono pronti a recepire in modo automatico una politica di trasparenza su un tema tanto delicato, e – guarda caso – l’Italia rientra in questa sfera. Nei giorni e nelle settimane scorse, diverse indagini dal nord al centro Italia hanno portato alla luce l’ennesima rete di pedofili. In particolare, un prete è stato incastrato ad Alassio, in Liguria; un altro caso invece è emerso a Fiumicino, vicino a Roma. E ancora, un terzo episodio recentissimo riguarda un sacerdote di 73 anni di una parrocchia di Brindisi, in Puglia, una vicenda pure quest’ultima conclusasi con l’intervento delle forze dell’ordine. Un altro prete prete attivo nel quartiere dei Parioli a Roma e in precedenza operativo in Argentina (dove avrebbe commesso i reati), è finito sotto inchiesta – contro di lui è intervenuta l’Interpol – qualche mese fa per violenze, sesso di gruppo, corruzione di minorenni.

Abusi commessi su chierichetti, su ragazzi che frequentano la parrocchia o adescati per strada, nelle zone della prostituzione minorile, video e fotografie pornografiche, scambio di materiale pedopornografico sul web, violenze filmate e messe in rete. Il catalogo dei reati e delle perversioni conosce ormai dei punti fermi e col passare del tempo si moltiplicano anche in Italia i casi e gli arresti di sacerdoti e religiosi. Se ormai da diversi anni pure nel nostro Paese è crollato il muro dell’omertà grazie alle denunce delle vittime, nelle 225 diocesi che compongono la galassia della Chiesa italiana, si continua a far finta di niente.

Raramente un ordine religioso, un vescovo, per non dire della conferenza episcopale guidata dal cardinale presidente Angelo Bagnasco e dal Segretario, considerato più vicino a Bergoglio, monsignor Nunzio Galantino, hanno diffuso note di denuncia, prese di distanza, o anche semplicemente di informazione rivolte ai fedeli e all’opinione pubblica. Più raramente ancora si registra qualche parola in favore delle vittime. Si preferisce il silenzio.

Una delle poche eccezioni ha toccato don Mauro Inzoli, ex pezzo grosso di Comunione e liberazione, “condannato” a una vita di riservatezza e preghiera dal Vaticano il cui provvedimento è stato reso noto dalla diocesi di Crema a cui faceva riferimento il sacerdote (detto don Mercedes). Tuttavia don Inzoli venne poi fotografato in mezzo ad autorità politiche di rango, seduto nelle prime file di un convegno – dedicato neanche a dirlo alla difesa della famiglia tradizionale – svoltosi a Milano. Altri casi, ancora, si sono accumulati negli anni passati, qualcuno finito nel dimenticatoio mediatico, qualcun altro conclusosi con una condanna esemplare come nel caso di don Ruggero Conti, parroco di Selva Candida, vicino Roma, al quale la Cassazione solo un paio di mesi fa, ha dato in via definitiva 14 anni e due mesi; una pena di particolare gravità.

Dietro queste vicende segnate da omertà, da confessioni indicibili di adulti ex vittime che trovano il coraggio di parlare, di genitori che intuiscono qualcosa, di vescovi che si voltano dall’altra parte, c’è però un nodo istituzionale che riguarda in modo specifico la conferenza episcopale italiana. Quest’ultima negli ultimi anni, ottemperando a fatica alle richieste della Santa Sede, ha cercato di adottare linee guida antipedofilia in sintonia con gli standard richiesti dal Vaticano già prima che venisse creato il nuovo dicastero per la tutela dei minori. Ma nel redigere il documento la Cei ha sempre cercato di negare o attutire un principio fondamentale stabilito nelle norme quadro affermate dal Vaticano: quello della collaborazione con le autorità civili; concetto limitato in tutti i modi nei testi preparati dai vescovi italiani nei quali invece ampio spazio era dedicato alla tutela dell’indagato. Un garantismo che assomiglia un po’ troppo a una difesa della propria corporazione.

Da ultimo, sui recenti casi di sacerdoti italiani arrestati e coinvolti in indagini relative ad abusi, don Fortunato di Noto, il prete da anni impegnato a combattere la pedofilia (fondatore di Meter), ha affermato: «Chi si macchia di questi reati non può fare il prete. Non possiamo giocare con i termini, sono fatti gravissimi, ancora più se a commetterli sono sacerdoti. Se un padre che abusa del figlio perde la patria potestà, è chiaro che un prete non può continuare a svolgere il suo ministero. Un prete non può permettersi questo scivolone». «È vero – ha aggiunto – che la legge permette percorsi di riabilitazione, va tutto bene. Ma un pedofilo non deve più fare il prete».

Fonte: Linkiesta.it

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