venerdì 7 maggio 2010

Areva avvelena il Niger

L'associazione ambientalista Greenpeace ha pubblicato ieri un’inchiesta sulle miniere di uranio in Niger, uno dei Paesi più poveri dell’Africa. Non è possibile che «Areva guadagna miliardi sfruttando le risorse naturali mentre ogni giorno che passa i nigeriani sono esposti a radiazioni, rischio malattie e povertà», si legge nel rapporto. L’Areva è la multinazionale leader a livello mondiale nel campo dell’energia nucleare, posseduta al 90 per cento dallo Stato francese. Ma soprattutto è l’unica presente in ogni attività industriale collegata: miniere, chimica, arricchimento, combustibili, ingegneria, propulsione nucleare e reattori, trattamento, riciclaggio, stabilizzazione e stoccaggio delle scorie.

Opera in 40 Paesi con una rete commerciale che ne raggiunge ben 100, conta quasi 60mila dipendenti e nel 2009 ha fatturato di 14 miliardi di euro. Inoltre è la multinazionale che detiene il brevetto dei famosi reattori nucleari europei ad acqua pressurizzata (Epr) che il governo Berlusconi vorrebbe costruire in Italia. Ma non solo. Il rapporto conferma, dati alla mano, che «l’energia nucleare è pericolosa, sporca e soprattutto non sostenibile».

Tuttora c’è chi considera l’energia nucleare una fonte sicura e “rinnovabile” in quanto non fossile. Ma il ciclo di reazione usa come combustibile l’uranio-235 (U-235) e il suo utilizzo dipende da risorse minerarie limitate. Ma nonostante questo l’Areva «si sta impegnando moltissimo nelle sue pubbliche relazioni per convincere i governi, gli investitori e l’opinione pubblica che il nucleare oggi è sicuro e pulito, cercando di presentarlo come una tecnologia “verde” - scrive Greenpeace, aggiungendo che - gli effetti di questo allarmante malinteso si stanno già facendo sentire».

La metà dell’uranio di Areva proviene da Arlit e Akokan, due miniere di un Paese africano poverissimo come il Niger, nonostante la multinazionale francese abbia «proposto questa sua attività come un salvataggio economico di una nazione depressa». Trasformando da oltre 40 anni questo Stato dell’Africa sahariana occidentale, desertico, arido, senza sbocco sul mare e con il più basso indice di sviluppo umano del Pianeta, nel terzo produttore al mondo di uranio. «Un’attività di estrazione distruttiva e mortale - continua Greenpeace - che può avere effetti catastrofici sulle comunità che abitano vicino alle miniere e per l’ambiente per migliaia di anni».

Le detonazioni e le trivellazioni in miniera provocano «enormi nuvole di polvere, montagne di rifiuti industriali e grandi mucchi di fango rimangono all’aperto». Con il rischio di «causare il rilascio di sostanze radioattive nell’aria, infiltrazioni nelle falde acquifere e contaminazione del terreno attorno alle città minerarie di Arlit e Akokan». Con «danni permanenti all’ecosistema ed enormi problemi di salute per la popolazione locale». Perché l’esposizione alla radioattività provoca «malattie congenite, alle vie respiratorie, leucemia e cancro».

L’Areva ha sempre rispedito al mittente le accuse, «non si assume la responsabilità di eventuali impatti e gli ospedali locali, controllati da questa stessa società, sono stati accusati di non aver diagnosticato molti casi di cancro». L’agenzia governativa che dovrebbe monitorare la situazione è «sottodimensionata e con scarsi fondi» tanto che non è mai stata «possibile una vasta e indipendente valutazione degli impatti minerari dell’uranio». Così nel novembre 2009 Greenpeace ha realizzato un breve monitoraggio scientifico, assieme alla Ong Rotab e al laboratorio indipendente francese Criirad.

I risultati sono «inquietanti»: in quarant’anni «nelle miniere sono stati utilizzati 270 miliardi di litri d’acqua impoverendo la falda e contaminandola». Nella regione di Arlit «in quattro campioni di acqua su cinque la concentrazione di uranio è risultata sopra il limite raccomandato dall’Oms» per quella potabile. In alcuni c’era addirittura del radon radioattivo disciolto. Nella vicina stazione di polizia «il radon nell’aria era tra le tre e le sette volte oltre la normale soglia». Mentre in un campione di suolo nei pressi della miniera, uranio e materiali radioattivi erano «100 volte superiori ai livelli normali della regione e oltre i valori internazionali consentiti».

Sui banchi dei mercati della cittadina Greenpeace ha trovato in vendita scarti di metalli radioattivi 50 volte di più dei livelli normali. Materiali che spesso gli abitanti usano per costruire le proprie case, anche perché non conoscono questo problema: nessuno gliene ha mai parlato. Quando l’associazione ambientalista ha pubblicato i primi dati, Areva ha ripulito un solo vilaggio minerario. Motivo per cui Greenpeace chiede ora alla multinazionale francese una bonifica completa e agli organismi internazionali uno studio indipendente su larga scala.

Fonte: Terranews

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