Sono passati trentacinque anni da quel 16 marzo in cui un commando di Brigate Rosse sequestrava l’onorevole Aldo Moro, assassinando brutalmente gli agenti della scorta (i carabinieri Domenico Ricci e Oreste Leonardi, i poliziotti Giulio Rivera, Francesco Zizzi e Raffaele Iozzino). Meno di due mesi dopo il cadavere dello statista fu trovato nel portabagagli di una Renault in via Caetani, a metà strada tra la sede del Pci (via delle Botteghe oscure) e quella della Dc (piazza del Gesù).
Con la scomparsa di Moro finiva l’era del compromesso storico tra Dc e Pci, da lui fortemente sponsorizzato. In quei giorni il Paese fu pervaso da un senso di rabbia e d’impotenza. Di fronte alla richiesta dei sequestratori di trattare con lo Stato si delinearono subito due schieramenti: quello della fermezza, che assolutamente non intendeva trattare coi brigatisti, e quello possibilista, che considerava possibile un eventuale patteggiamento nel caso in cui non ci fosse stato altro modo di salvare la vita di Moro. Purtroppo prevalse la linea dura.
Ciò che ha fatto del sequestro Moro un “caso” sono stati i depistaggi, gli insabbiamenti e i coinvolgimenti di servizi segreti deviati, criminalità organizzata, P2, per non parlare della probabile presenza nelle Br di agenti segreti stranieri, appartenenti anche a Gladio. Gli Usa temevano la partecipazione dei comunisti al governo italiano: erano altri tempi, l’Urss faceva sempre paura e l’Italia era un Paese di frontiera e non poteva essere consegnato al Pci, all’epoca compromesso con Mosca.
Ancora oggi non è stato del tutto chiarito il ruolo effettivo giocato da ciascun elemento coinvolto. Durante i cinquantacinque giorni di prigionia, di fronte a indagini esitanti e alla diffusione di informazioni riservate, Moro iniziò a capitolare, scrisse documenti e lettere sempre più preoccupate ai familiari, ai politici della Dc e all’amico papa Paolo VI. Andreotti e Cossiga considerarono le lettere “non moralmente autentiche”, perché scritte sotto la minaccia dei brigatisti. I documenti, che costituiscono il cosiddetto “Memoriale Moro”, verranno ritrovati in due momenti successivi (1978 e 1990).
In questi documenti Moro trattò di segreti di Stato che preoccuparono i servizi segreti di vari Paesi, parlando anche di Gladio, un’organizzazione paramilitare segreta della Nato, che aveva lo scopo di azioni di guerriglia nel caso di invasione di Paesi dell’Europa occidentale da parte dei Sovietici. Nello stesso istante in cui Moro cominciò a fare rivelazioni su fatti riservati la sua sorte fu segnata.
Salvare la vita di Aldo Moro non interessò più a nessuno. Tale percezione fu nettamente chiara allo stesso Moro che scrisse a Zaccagnini: “Chiedo che ai miei funerali non partecipino né autorità dello Stato né uomini del partito”. L’ultima prigione di Moro probabilmente fu vicino a via Caetani, all’interno del Palazzo Orsini.
Il giornalista Mino Pecorelli nel suo ultimo articolo fece molti riferimenti criptici al Palazzo e sarà ucciso il 20 marzo 1979, forse perché in possesso di documenti di Moro su Andreotti (che poi sarebbero stati ritrovati nel 1990). La probabile fonte di Pecorelli era il generale Dalla Chiesa; anch’egli sarà assassinato. Andreotti, assolto in primo grado per l'omicidio del giornalista, fu condannato a 24 anni di reclusione dalla Corte d’Assise d’Appello di Perugia, la condanna fu annullata in Cassazione.
Fonte: AgoraVox Italia
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