sabato 3 luglio 2010

Pedofilia, 20 anni di carcere al sacerdote «sadico»


Un «sadico criminale che ha contribuito a una cultura di paura e depravazione». Ci sono voluti 24 anni per vedere condannato (a quasi 20 anni di carcere) John S. Denham, reo confesso di aver violentato 39 scolari tra il 1968 e il 1986 in diverse scuole e parrocchie a Sydney e in altri centri del Nuovo Galles del sud in Australia. L’uomo, che all’epoca dei crimini era un sacerdote cattolico, è stato giudicato colpevole ieri dal tribunale di Sidney. La maggior parte delle sue vittime frequentava la scuola media St Pius X a Newcastle, dove Denham era responsabile delle punizioni disciplinari. Le lamentele sul comportamento del sacerdote, come oramai siamo abituati a verificare per questioni analoghe, erano rimaste inascoltate dalla curia per tutto il periodo in cui l’uomo ha indossato l’abito talare, e molti ragazzi avevano lasciato la scuola per evitare le sue attenzioni.

Ma è stata sufficiente un’indagine di quattro mesi della speciale task force della polizia del Nuovo Galles del Sud per arrestarlo (ad agosto 2008) e portarlo davanti a un giudice. Questi, in meno di due anni ha considerato fondate le accuse delle 39 vittime, tutte minorenni all’epoca dei fatti. In tribunale Denham (che oggi ha 67 anni) ha ammesso di aver compiuto una «grave violazione di fiducia», e di essersi «eccitato per il dolore» degli alunni a cui infliggeva punizioni corporali. L’ex prete ha poi detto che allora era convinto di essere «irresistibile» e che i ragazzi accettavano le sue avance. Quasi tutte le vittime hanno intentato un’azione collettiva per ottenere un risarcimento milionario contro la diocesi di Newcastle, che ora - come è già accaduto a decine di altre nel mondo per analoghi scandali di pedofilia - rischia la bancarotta.

La Chiesa cattolica d’Australia è da anni nell’occhio del ciclone per «un malinteso orgoglio istituzionale che ha impedito a molti di denunciare» i crimini pedofili. Così, lo scorso 24 maggio, denunciava in una lettera pastorale l’arcivescovo di Canberra e Goulburn, Mark Coleridge, nel lanciare un appello alle gerarchie ecclesiastiche affinché facessero «il possibile per fermare gli abusi sessuali, riconoscendo che molti degli scandali possono essere ricondotti a una cultura presente nella Chiesa».

L’allarme di Coleridge seguiva di pochi giorni prima la notizia di un’indagine a carico dell’arcivescovo di Adelaide, Philip Wilson, presidente della Conferenza episcopale australiana. Il presule è accusato di aver ignorato diversi casi di abusi commessi da sacerdoti negli anni ‘70 e ‘80. «Gli abusi su minori sono crimini - scriveva ancora Coleridge -, e la Chiesa sta penando per trovare il punto di convergenza fra peccato e perdono da una parte, e tra crimine e punizione dall’altra. È chiaro che non vi sia una rapida soluzione e che sarà un lungo viaggio» da condurre «sempre con attenzione rivolta primariamente alle vittime che non abbiamo visto e alle voci che non abbiamo udito».

Uno dei pochi casi in cui tra le gerarchie ecclesiastiche, almeno a parole, l’interesse per le vittime sembra prevalere sulla “ragion di Stato”. O meglio, per usare parole di papa Wojtyla, sul «buon nome della Chiesa».

Fonte: Terranews