Milano, 24 febbraio 2010. Sono un’insegnante di scuola elementare, lavoro nel quartiere Bovisa, nella prima periferia milanese. Il quartiere è vivace e multietnico e la mia classe, una prima, ne rispecchia le caratteristiche.
A gennaio si è aggiunto a noi un nuovo bambino, Romeo. Romeo è un bambino Rom, nei suoi sei anni di vita ha vissuto varie volte l’esperienza dello sgombero. È giunto nella nostra scuola dopo essere stato allontanato dal Rubattino ed aver interrotto la sua frequenza scolastica alle elementari di via Feltre. Avvisata del suo arrivo ho contattato la sua maestra, che conosco personalmente per aver lavorato tre anni in quella scuola. Ho recuperato i suoi libri e i suoi quaderni e glieli ho fatti trovare sul banco quando è arrivato nella sua nuova classe, in via Guicciardi. Per due settimane ha frequentato la scuola, arrivando sempre puntuale e motivato. In pochi giorni ha conquistato tutti noi con la sua allegria ed il suo affetto, anche la famiglia è sempre stata disponibile e rispettosa.
Un giovedì mattina, appena entrata in aula, sono stata letteralmente trascinata in corridoio da Romeo che, parecchio preoccupato, continuava a ripetermi “polizia, sgombero”. Speravo che si trattasse di un fraintendimento e invece era tutto vero: il lunedì successivo lui, un’altra bambina che frequentava la quarta e le loro famiglie sono stati sgomberati dal capannone in cui vivevano. Ho avuto notizie di loro tramite gli operatori che da anni li seguono: per qualche notte sono stati ospitati in un centro di accoglienza, si è parlato di un possibile rientro a scuola… invece ho saputo che saranno a breve sgomberati dal luogo in cui hanno trovato riparo, in fondo a via Bovisasca. E tutto questo a distanza di poche settimane dal precedente sgombero. Non ho parole. Non posso continuare a sentir parlare di ‘emergenza Rom’ se non pensando che l’emergenza è il degrado in cui costringiamo a vivere queste famiglie. Per me la vera emergenza ha il volto di un bambino di sei anni che – me l’hanno raccontato pochi giorni fa – non vede l’ora di tornare a scuola e non può farlo.
È facile continuare a vendere la storiella dei Rom che non rispettano le regole e non vogliono integrarsi, limitandosi a ragionare per stereotipi. Nemmeno io mi sento immune dai pregiudizi, ma posso semplicemente raccontare quello che ho visto: una famiglia continuamente cacciata nonostante la sua evidente volontà di iniziare un percorso nuovo, un bambino a cui sono negati dei diritti fondamentali (la casa, l’istruzione), un percorso scolastico e affettivo continuamente interrotto. E dietro la storia di una singola famiglia intravedo quella di troppe altre, colpite da un accanimento che odora di persecuzione. La roboante retorica securitaria potrà nascondere ancora a lungo il totale fallimento di queste scelte politiche nonché l’immane spreco di denaro pubblico che ne deriva?
Possibile che le cifre spese per sgomberare in continuazione le solite famiglie non possano essere investite per seri progetti di integrazione sociale? Possibile che la volontà di una famiglia di mandare con costanza il proprio figlio a scuola sia un dato da non prendere minimamente in considerazione in sede istituzionale? Leggo sui giornali di volontari, insegnanti e famiglie che si attivano per aiutare, protestare, informare: in città le voci di dissenso si stanno allargando a macchia d’olio, ora è il momento che anche dal Comune di Milano arrivino segnali forti di un cambiamento di rotta. Romeo, quaderni e pennarelli sono sotto il tuo banco e la foto del tuo primo giorno nella nuova scuola è ancora sulla porta dell’aula. Ti aspettiamo, torna presto a imparare, giocare, fare amicizia con i tuoi compagni. A sei anni ci sono parole più belle da ripetere di ‘sgombero’.
Fonte: Everyone
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