giovedì 27 novembre 2014

Un appello per aiutare Alexandra


Alexandra Panturoiu è una bellissima ragazza rumena di 22 anni che vive a Costanza, città situata sulla sponda del Mar Nero. Sua madre, la signora Mihaela, lavora da tantissimi anni in Italia, in un ristorante di Pietramelara (CE), per garantire un futuro all'unica figlia. Qualche settimana fa Alexandra ha iniziato a non stare bene. Rimaneva paralizzata e non riusciva più a parlare. Dopo una serie di analisi e visite, le è stata diagnosticata una ciste epidermoide tra il cervello ed il cervelletto, una zona estremamente difficile da operare con rischi molto elevati. Purtroppo la Romania non vanta di studi avanzati e molti medici non le hanno dato alcuna possibilità. La speranza è sopraggiunta quando la madre è giunta a conoscenza del Dr. Segiu Stoica, laureatosi in America, che crede di poterla salvare ed è disposto ad operarla. Purtroppo il costo da sostenere per questo tipo di intervento, urgente, è molto alto. Bisogna raggiungere 7000 €.

La madre, Mihaela, e l'amica, Teresa, hanno lanciato un appello per aiutare Alexandra con una semplice donazione. Non importa di quanto sia piccola, ma sarà comunque utile per salvarle la vita.

I conti di riferimento sono intestati a Panturoiu Alexandra Maria

EURO Bic Raiffeisen Bank RZBRROBU
IBAN RO27RZBR 0000 0600 1700 2455
LEI RO38 RZBR 0000 0600 1465 2432
PayPal alexuta_panturoiu@yahoo.ro

Aiutiamo Alexandra

mercoledì 26 novembre 2014

Barbara D'Urso denunciata da Ordine dei giornalisti: 'Esercizio abusivo professione'

Il presidente Enzo Iacopino pubblica su Facebook l'esposto contro la conduttrice che, sebbene non sia iscritta all'albo, "compie un’attività specifica della professione senza rispettare le regole" e "con negative ripercussioni sull'immagine di quest’ordine"


"Ho firmato la prima denuncia/esposto nei confronti della signora Barbara D'Urso. Il femminicidio non si consuma solo con l'uccisione di una donna, ma, oltre la morte, anche con l'oltraggio alla sua vita e a quello della sua carne: i suoi figli". Enzo Iacopino, presidente dell'Ordine dei giornalisti, annuncia su Facebook la decisione di presentare la denuncia "a due Procure della Repubblica (Milano e Roma), all'Agcom, al Garante per la protezione dei dati personali e al Comitato Media e minori". All'origine della decisione dell'ordine un'intervista che la conduttrice di Domenica Live ha fatto ad un amico di Elena Ceste, la donna scomparsa il 24 gennaio e trovata morta a metà ottobre nell'Astigiano. L’intervento è stato aspramente criticato sul web per le ripetute illazioni sulle relazioni della vittima.

Nella denuncia si richiama l’attenzione sul susseguirsi nel programma televisivo di “interviste con modalità che non tengono conto di esigenze quali la difesa della privacy e/o il coinvolgimento di minori”. Dopo aver richiamato i limiti al diritto di cronaca posti dal codice di deontologia e dalla Carta dei doveri del giornalista, Iacopino evidenzia che "la signora D'Urso, pur non essendo iscritta all'Albo dei Giornalisti, compie sistematicamente un'attività individuata come specifica della professione giornalistica, senza esserne titolata e senza rispettare le regole, con negative ripercussioni sull'immagine di quest'Ordine". Il 23 novembre, Iacopino aveva preannunciato l'iniziativa giudiziaria in un post intitolato "Basta soubrette, ora le denunciamo", in cui contestava la spettacolarizzazione del dolore e l'invasione della privacy nelle vicende di Sarah Scazzi, Yara Gambirasio, Melania Rea, Melissa Bassi, Elena Ceste "e tutti coloro i quali a queste vicende sono collegati".

"Noi giornalisti abbiamo il dovere di informare i cittadini, senza toni forti, senza speculazioni, senza strumentalizzazioni per fare audience", ha detto Iacopino nel corso di un dibattito organizzato dal Comitato Unitario delle Professioni in occasione della Giornata Mondiale contro la violenza sulle donne. "C'è un tipo di informazione che è un'autentica vergogna - ha aggiunto - ed è quella che io chiamo la tv del dolore, stile Barbara D'Urso, dove si esibisce la vita e la morte con l'unico obiettivo di acquisire attenzione da parte di un'opinione pubblica che forse non è il meglio di questa società"

Fonte: il Fatto Quotidiano

Basta soubrette, ora le denunciamo (il post di Enzo Iacopino su Facebook)
Soubrette e informazione. La prima denuncia (il secondo post di Enzo Iacopino)

martedì 25 novembre 2014

Giornata internazionale contro la violenza sulle donne


Oggi, 25 novembre, è la Giornata internazionale contro la violenza sulle donne istituita nel 1999 dalle Nazioni Unite. L'Assemblea Generale dell'ONU ha ufficializzato una data che fu scelta da un gruppo di donne attiviste, riunitesi nell'Incontro Femminista Latinoamericano e dei Caraibi, tenutosi a Bogotà nel 1981. Questa data fu scelta in ricordo del brutale assassinio nel 1960 delle tre sorelle Mirabal, considerate esempio di donne rivoluzionarie per l'impegno con cui tentarono di contrastare il regime di Rafael Leónidas Trujillo, il dittatore che tenne la Repubblica Dominicana nell'arretratezza e nel caos per oltre 30 anni. Una vittima ogni due giorni, 179 donne uccise: un anno nero per i femminicidi in Italia, il 2013, secondo il rapporto Eures

La violenza è l'ultimo rifugio degli incapaci (Isaac Asimov)

Un abbraccio a tutte le donne

lunedì 24 novembre 2014

Gli effetti collaterali del Jobs Act


Di Salvatore Santoru

Recentemente il premier Matteo Renzi ha definito il "Jobs Act" fondamentale e necessario per la crescita economica dell'Italia, in un' intervento pubblicato per il noto quotidiano inglese "Economist".

Intanto, diverse critiche bipartisan sono giunte verso tale provvedimento, a partire da Landini passando per Renato Brunetta, che ha definito in un articolo sul "Giornale" un'imbroglio, e un "un pasticcio contro i lavoratori, le imprese, i giovani, il mercato del lavoro e anche contro il buonsenso".

L'ex viceministro Stefano Fassina ha dichiarato che l'obiettivo vero della misura è " la libertà di licenziamento", e il sociologo Luciano Gallino in un articolo su "Repubblica" del 18 novembre ripreso nell'edizione online dalla rivista Micromega, ne ha elencato gli effetti nefasti.


In tale articolo, Gallino ha scritto che "uno dei principali esiti del Jobs Act, a danno dei lavoratori, sarà la liquidazione di fatto del contratto nazionale di lavoro (cnl), in attesa di una legge che ne sancisca anche sul piano formale la definitiva insignificanza rispetto alla contrattazione aziendale e territoriale", e che "oltre che tra i lavoratori e le classi possidenti, le disuguaglianze aumenteranno tra gli stessi lavoratori", visto che "la facoltà conferita alle imprese, comprese decine di migliaia medio-piccole, di regolare mediante accordi sindacali anche locali sia il salario, sia altre condizioni cruciali del rapporto di lavoro, avrà come generale conseguenza una ulteriore riduzione dei salari reali e con essi della quota salari sul Pil. In fondo, è uno degli scopi del Jobs Act, anche se non si legge in chiaro nel testo".


Insomma, una misura che non promette niente di bene, al di là dei proclami demagogici dell'ex sindaco di Firenze.

Fonte: Informazione Consapevole

sabato 22 novembre 2014

Aumentano i femminicidi in Italia

Una ricerca dell'Eures ha registrato che nel 2013 le donne uccise sono di più rispetto all'anno precedente

di Stefano Mentana


Nel 2013 sono state 179 le donne vittime di omicidio. Una ogni due giorni.

Si tratta del numero più alto registrato in Italia negli ultimi sette anni, in aumento del 14 per cento rispetto al 2012, quando le donne uccise furono 157.

Questo è ciò che viene registrato dall'ultimo rapporto annuale dell’Eures (European Employment Services) sulle vittime di omicidio.

Tra le vittime, 122 sono state uccise in ambito familiare: un dato anche questo in crescita rispetto all’anno precedente, quando sono state 105. Stessa triste tendenza per le donne uccise da persone a loro prossime, con cui condividono rapporti di lavoro o di vicinato, salite a 22 rispetto alle 14 del 2012. Le donne vittime della criminalità sono invece 28.

Una novità arriva con la distribuzione geografica degli omicidi: se fino al 2012 erano sempre stati di più al nord, per la prima volta nel 2013 è il sud a detenere il triste primato, con 75 omicidi. Raddoppiano poi quelli avvenuti nel centro Italia, da 22 a 44, 11 dei quali solamente a Roma. L’Umbria, invece, è la regione in cui vengono uccise più donne ogni milione di abitanti (12,9).

Il 18,9 per cento delle vittime sono madri uccise dai figli: anche questo dato è in forte crescita rispetto allo scorso anno, quando costituivano il 15,2 del totale. Questi omicidi spesso hanno come movente ragioni economiche o i cattivi rapporti durante una convivenza dettata da ragioni di necessità.

La principale causa del femminicidio è però, come sempre, la gelosia: tra il 2000 e il 2013, infatti, il 31,7 per cento degli omicidi sono avvenuti per questa ragione.

L'aumento dei casi di donne vittime di omicidio è un dato allarmante: secondo il rapporto stilato da Eures, tra le ragioni che contribuiscono alla crescita di questo triste trend c'è la risposta del tutto inadeguata da parte delle istituzioni alla richiesta di aiuto delle donne.

Nel 2013, infatti, il 51,9 per cento delle donne uccise, prima di morire aveva segnalato di aver subìto violenze dalla persona che poi le ha uccise.

Fonte: The Post Internazionale

venerdì 21 novembre 2014

Opinione del Rockpoeta: Il Disonestamente Giusto

Daniele Verzetti Rockpoeta

La sentenza di ieri sera brucia ancora sulla pelle. Vorrò leggere la motivazione per capire come sia stato possibile che nessuno si sia potuto accorgere della sopravvenuta prescrizione. Resta il fatto di uno Stato che non vara leggi serie (basti pensare che non abbiamo ancora il reato di tortura) ma anche di una sentenza che doveva fare giustizia e non l'ha sostanzialmente fatta.

In queste ore continua a prevalere in me un profondo senso di disapprovazione (eufemismo elegante che simula il concetto di rabbia ed amarezza) per quanto compiuto dal Dr. Francesco Iacoviello (continuo a parlare di lui come elemento cardine dato che non mi risulta che gli avvocati dell'imputato si fossero anch'essi accorti di questo cavillo)

Disapprovazione in quanto scopro che la Cassazione ed il famigerato Dr. Iacoviello, hanno ritenuto che la prescrizione scatti dal 1986, data di chiusura degli stabilimenti mentre i giudici d'appello, avevano sottolineato che questo genere di reato, siccome si protrae negli effetti e realizzazione nel tempo, non poteva avere la prescrizione decorrente dalla data di chiusura della fabbrica nel 1986.

Si trattava e si tratta di un reato a consumazione prolungata. Ora so, parlo per iperbole, che se lancio colposamente oggi una bomba atomica su una città, risponderò salva prescrizione, solo delle morti immediate e non di quelle numerose per cancro negli anni a seguire. Buono a sapersi per i bioterroristi, salvo che non siano così narcisi dal voler rivendicare il fatto e quindi ammettere il dolo e la volontarietà.

E' vero, la legge è la legge, ma è anche pur vero che la vedo applicare in modo ligio e preciso solo e sempre verso i più deboli ed in questo caso anche interpretandola forzatamente contro i più deboli. D'altronde, qualcuno potrebbe anche affermare, cosa aspettarsi da chi ha de facto, sempre per vizi di forma, "assolto"Dell'Utri ed Andreotti e proviene dalla "gloriosa" Scuola di Carnevale…

Curiosi anche i trascorsi di Arturo Cortese Presidente della Sez.I della Cassazione, anche lui "implicato" in questa sentenza. Il giornalista D'Avanzo rilevò in passato una curiosa coincidenza con Cortese come relatore a proposito di un processo a danno di Berlusconi " D'Avanzo rileva :
"La prima singolarità affiora innanzitutto in una coincidenza. Nel collegio giudicante, il relatore (Arturo Cortese) - relatore anche oggi – aveva già affrontato un giudizio con Berlusconi imputato (corruzione della Guardia di Finanza). La responsabilità di Berlusconi (condannato in primo grado) era stata prescritta in appello. Con una decisione, secondo gli addetti, «singolare», la sentenza della Cassazione invece di «uniformarsi a criteri e parametri normali, più conformi ai precedenti consolidati e alle collaudate prassi interpretative», si mosse su un terreno «difforme da ogni precedente», come scrissero i giuristi che se ne occuparono (Questione giustizia n.2, 2002). Berlusconi da prescritto divenne assolto nel merito.
Una scelta interpretativa difforme da ogni precedente è stata di nuovo la via imboccata dal relatore e dal collegio. Così singolare e difforme da muoversi contro le convinzioni – non della procura di Milano, queste sono sciocchezze – ma dell´intero sistema giudiziario che ha affrontato la corruzione organizzata da Cesare Previti (già condannato per questo reato) e anche dei criteri e dei parametri della stessa Cassazione. Forse, invece di andare a caccia di farfalle e fanfaluche, sarebbe più interessante incuriosirsi dell´originalità della sentenza salvapreviti, dell´imprevisto orientamento della Cassazione, riflettere sui sintomi di un quietismo togato che meglio di Franco Cordero non si può descrivere: «Ogni giudice integrato nel sistema assorbe tranquillamente eventuali errori, anzi non li vede; quando li veda, non gli fanno né caldo né freddo; lavorava a nome e per conto dell´istituzione; basta che uno navighi nella corrente giusta; la storia li diluisce questi miserabili fatterelli individuali".

Per carità, questa decisione sarà stata presa in buona fede ma certo che queste coincidenze inquietano. Sarebbe interessante, anzi è decisamente importante, conoscere anche gli altri membri del collegio giudicante e sapere chi ha avallato questa sentenza così controversa, quindi eccoli: - La Corte di Cassazione è composta dal presidente Artuso Cortese, dalla relatrice Stefania di Tomassi e dai magistrati Aldo Cavallo, Piera Maria Severino Caprioglio e Enrico Giuseppe Sandrini.

Ed allora, indagini e amarezze a parte, dico soltanto che per una sola volta, avrei voluto vedere qualcuno comportarsi in modo "disonestamente giusto" e magari, solo ed esclusivamente in quest'occasione, voltarsi dall'altra parte e far finta di nulla lasciando prescrivere la prescrizione.

Daniele Verzetti Rockpoeta®


Amianto Invisibile

Amianto Invisibile
Colpo di Spugna
I morti restano
La Giustizia é assente.

Amianto "incolpevole"
Un processo lento crea la morte
Uno breve l'approva.

Polveri nei polmoni
Macigni nel cuore

Il tempo di uno spot
E la Giustizia muore.

DANIELE VERZETTI, ROCKPOETA


Fonte: L'Agorà

Daniele Verzetti Rockpoeta
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giovedì 20 novembre 2014

Eternit, la Cassazione annulla la condanna: «Reato prescritto»

L'unico imputato, il magnate svizzero Schmidheiny, era stato condannato in Appello a 18 anni di carcere per le migliaia di morti da amianto. Cancellati tutti i risarcimenti


Annullata senza rinvio perché il reato e’ estinto per prescrizione. Qusto il verdetto pronunciato dalla prima sezione penale della Cassazione nell’abito del processo Eternit. La suprema corte ha accolto la richiesta del sostituto procuratore generale di Cassazione, Francesco Mauro Iacoviello, nel corso dell’udienza del maxi-processo Eternit, ribattezzato come il “processo del secolo”. La Cassazione ha cancellato anche tutti i risarcimenti. Le motivazioni della sentenza emessa stasera verranno depositate nei prossimi mesi. La sentenza era attesa per la prossima settimana.

Processo Eternit, foto d’archivio (Lapresse)

LA REAZIONE DEI PRESENTI ED IL NODO DELLA PRESCRIZIONE - «Vergogna! Vergogna!». Queste le parole udite tra urla e fischi di protesta al momento della lettura del verdetto della Cassazione. La Corte ha stabilito poi che la prescrizione del reato di disastro doloso è maturata prima della sentenza di primo grado, e cio’ “travolge” tutte le statuizioni civili. In appello, era stato riconosciuto un risarcimento di 30 mila euro a favore di 938 parti offese. I fatti contestati si sarebbero dunque svolti fra il ’66 fino al 1986, anno in cui l’azienda ha cessato la sua attività: in quel lasso di tempo, dunque, va inquadrato il reato di disastro doloso, con la prescrizione maturata in circa 12 anni, ossia nel 1998.

IL VERDETTO ANTICIPATO - Nel processo d’Appello era stato condannato a 18 anni di carcere l’unico imputato, il magnate svizzero Stephan Schmidheiny, con l’accusa di “disastro ambientale doloso“. Secondo il Pg, la prescrizione doveva intervenire perché i reati sarebbero da far risalire a quando chiuse lo stabilimento dell’azienda. «La divergenza è sul momento consumativo del disastro. In primo grado si è detto che il disastro cessa quando la bonifica degli ambienti è stata interamente completata. In secondo grado i giudici hanno detto che il disastro termina nel momento in cui non ci saranno morti in eccedenza sostenendo, in pratica, che finché dura la malattia dura il disastro», ha ricordato Iacoviello. Per il Pg, invece, la tesi accusatoria portata avanti negli anni dal procuratore aggiunto di Torino Raffaele Guariniello avrebbe seguito «un percorso pionieristico, facendo rientrare le morti come eventi del disastro», quando, a suo modo di vedere, «le morti non fanno parte del concetto di disastro» stesso.

DELUSI I FAMILIARI DELLE VITTIME – Delusi per la richiesta della pubblica accusa i molti familiari delle vittime, presenti nell’aula magna di piazza Cavour. «Il magistrato ha spiegato che il reato si è consumato fino al 1986. Le due sentenze, quella di primo grado e l’altra d’appello anche se con motivi differenti hanno affermato altro. Ovvero, che la contestazione era “permanente” e fino alla morte delle persone colpite», hanno replicato alcuni rappresentanti dell’Afeva, l’associazione dei familiari delle vittime. Migliaia, circa 2200, furono le persone decedute per mesotelioma pleurico, il tumore provocato dall’inalazione di polveri d’amianto, nei quattro stabilimenti italiani della multinazionale elvetico-belga, così come tra i cittadini di Casale Monferrato, Cavagnolo (in provincia di Torino), Rubiera (Reggio Emilia) e Bagnoli (Napoli).

BONANNI: «ASSOLUZIONE? SAREBBE MORTE DEL DIRITTO» – «Attendiamo la sentenza e valuteremo quella. Certo l’imputato è uno degli uomini più ricchi del mondo e se fosse assolto oggi, a fronte dell’epidemia che c’è stata, sarebbe la morte del diritto». Così Ezio Bonanni, avvocato di una delle parti civili nell’ambito del processo Eternit, commenta la decisione del procuratore generale della Corte di Cassazione Francesco Iacoviello che ha chiesto “l’annullamento senza rinvio” della sentenza di appello per intervenuta prescrizione. «Stephan Schmidheiny (condannato a 18 anni in appello, ndr) avrebbe almeno potuto chiedere scusa alle famiglie dei deceduti – ha aggiunto – Noi comunque non ci fermeremo, gli elementi documentali e probatori raccolti fin qui sono rilevanti».

(Lapresse)

ETERNIT, PG CASSAZIONE: «GIUDICE DEVE SCEGLIERE DIRITTO» - Nella sua requisitoria, il pg della Cassazione ha precisato in modo chiaro come, a suo dire, l’imputato sia «responsabile di tutte le condotte che gli sono state ascritte». Anche se, ha invitato a riflettere sulla «qualificazione del reato», facendo notare che, a suo dire, «va dimostrato che l’imputato intenzionalmente voleva provocare il disastro».

Iacoviello ha sottolineato comunque come il giudice «tra diritto e giustizia deve sempre scegliere il diritto». Certo, «la prescrizione non risponde a esigenze di giustizia, ma ci sono momenti in cui diritto e giustizia vanno da parti opposte», ha concluso.

L’Afeva e i familiari delle vittime hanno promesso battaglia già prima della sentenza in caso di un annullamento: «Sarebbe un duro colpo, ma ci sono giudici e procuratori che vogliono raggiungere la giustizia e non solo rispettare il diritto. Sappiamo che la procura di Torino ha avviato una seconda indagine per omicidio, per le vittime di questi anni. Andremo avanti», ha sottolineato il numero uno dell’associazione Bruno Pesce.

Fonte: Giornalettismo

mercoledì 19 novembre 2014

Strage di Capaci, Spatuzza condannato a 12 anni

Si chiude con quattro condanne, tra cui due ergastoli, il filone del processo nato dopo le rivelazioni dell'affiliato a Cosa Nostra, oggi collaboratore di giustizia


Gaspare Spatuzza è stato condannato a 12 anni di carcere nel processo, celebrato con il rito abbreviato, per la strage di Capaci. I boss Giuseppe Barranca e Cristoforo Cannella sono stati condannati all’ergastolo mentre per Cosimo D’Amato il gup di Caltanissetta David Salvucci ha dseciso una pena di 30 anni. Il giudice ha rinviato al processo civile la liquidazione del danno per le parti civili e ha negato la provvisionale immediatamente esecutiva.

(STR/AFP/Getty Images)

IL RUOLO DI SPATUZZA, COLLABORATORE DI GIUSTIZIA - Il gup ha accolto in parte le richieste dell’accusa che aveva sollecitato la condanna all’ergastolo per i tre boss palermitani e 12 anni per Spatuzza che con le sue rivelazioni ha permesso di aprire un nuovo filone d’indagini sulle stragi del ’92. Spatuzza, collaboratore di giustizia, nel 2009 rivelò ai magistrati di Caltanissetta, responsabili delle indagini sulle stragi mafiose, di aver recuperato l’esplosivo che sarebbe poi stato usato per la strage di Capaci, nella quale morì Giovanni Falcone.

LEGGI ANCHE: Mafia, 16 arresti tra il clan Messina Denaro

ECCO COM’È ARRIVATO L’ESPLOSIVO - Dagli stralci dei verbali, ripresi all’epoca da Repubblica, emerse come il Cannella chiese a Spatuzza, un mese prima della strage, di trovare un’auto voluminosa con la quale caricò, a Porticello, dei cilindri delle dimensioni di 50 centimetri per un metro contenenti delle bombe e legati con delle funi sulle paratie di una barca attraccata al molo. Lì era presente un certo Cosimo, identificato poi in D’Amato. Spatuzza continuò spiegando che i fusti vennero portati all’interno di una casa diroccata di una sua zia, al fianco di quella di sua madre, e usata come magazzino. Successivamente venne recuperato altro esplosivo in altri bidoni alla Cala, vicino al porto, sempre legati ad un peschereccio. Nelle sue deposizioni Spatuzza disse di non sapere a cosa serviva l’esplosivo.

(Foto di copertina: STR / AFP / Getty Images)

Fonte: Giornalettismo

martedì 18 novembre 2014

La storia di Rosetta e Philae da poco atterrati su una cometa lontana

Rosetta e Philae sono giunti a destinazione, a 510 milioni di chilometri dalla Terra. È la prima volta che l'uomo riesce a far atterrare qualcosa sul suolo di una cometa.

di Tommaso Perrone


Il 12 novembre 2014, dopo dieci anni nello spazio il lander Philae, trasportato dalla sonda Rosetta, è atterrato sulla superficie della cometa 67P/Churyumov-Gerasimenko (67P/C-G) a 510 milioni di chilometri di distanza. È la prima volta nella storia che l’uomo riesce inviare qualcosa sul suolo di una cometa. La discesa è durata circa sette ore. Ma il viaggio di Rosetta e Philae è stato molto più complicato e lungo. Molto lungo: miliardi di chilometri.

La missione dell’Agenzia spaziale europea (Esa) ha dovuto adattarsi perché la forma della cometa si è rivelata più complessa di quello che gli scienziati pensavano all’inizio, così la sonda Rosetta ha dovuto compiere diverse manovre intorno a 67P/C-G prima di atterrare. Non si sa ancora se Philae avrà vita facile sulla tortuosa superficie della cometa fatta di crateri, dirupi e massi grandi come case, ma per l’Esa si tratta già di un grande successo perché le informazioni provenienti dal lander ci permetteranno di scoprire caratteristiche nuove sulle comete e sul loro comportamento.



La sonda Rosetta è stata chiamata così dagli scienziati europei perché confidano nel fatto che, come la stele di Rosetta permise agli archeologi di tradurre il geroglifico degli egizi dal greco, così la sonda possa contribuire a capire meglio come si formano i pianeti e come è nato il nostro sistema solare. Nel video (sopra), una spiegazione per bambini (ma anche adulti) sulla storia di Rosetta e Philae realizzato dall’Esa per comprendere meglio lo scopo e la storia della missione.

Immagine in evidenza © ESA via Getty Images

Fonte: LIFEGATE

lunedì 17 novembre 2014

Opinione del Rockpoeta: Una drammatica giornata di sole…


Mi chiamo Daniele Verzetti, in arte Rockpoeta, sono genovese e sono molto preoccupato. Abbiamo una grave emergenza: oggi è domenica 16 novembre 2014 ed in Liguria abbiamo il sole. E' un dramma perchè non sappiamo come gestire quest'evento così raro ed emergenziale.

Abbiamo paura di subire danni seri agli occhi per l'eccesso di luce. Forse la nostra pelle potrebbe scottarsi. Aggiungo che fa troppo caldo e temiamo una forte siccità.

E poi, tutti quei soldi spesi per canoe, gommoni e stivaloni. Se ora queste emergenze si riproponessero maggiormente, avremmo problemi anche a spostarci non avendo più automobili ed altri mezzi di locomozione su gomma.

Perdonate questo prologo sarcastico e denso di amarezza. Denso come il fango che ha invaso la mia terra, come i fiumi pieni di terra e detriti che hanno invaso strade e paesi ed ancora anche la mia città, Genova. 

Perdonatemi, perchè se è vero che queste tragedie sono figlie di errori (o forse sarebbe meglio dire di orrori) che hanno origine nel passato, va anche detto che hanno anche colpe molto recenti. Aver costruito sui greti dei torrenti nei decenni scorsi è una grave colpa, ma perseverare oggi con la cementificazione selvaggia, come nel caso dei box in costruzione a Piazza Rotonda a Borgoratti nel capoluogo ligure con la frana relativa verificatasi ieri, proprio in quel punto, o il voler fare 15.000 mq di centro commerciale alla Foce nell'area dell'ex Fiera, dimostra come questi siano tutti segnali di come non si voglia cambiare in alcun modo direzione.

Nel 2015 avremo le elezioni regionali. Ovvio che mi auguro che la Paita non sia nemmeno tra le possibili scelte per il Governatore della Regione. Su Cofferati, mi limito a dire che l'esperienza di Bologna non mi fa ben sperare e che sono anche stanco che si portino dei big a svernare nei comuni importanti o nelle grandi Regioni per far fare loro qualcosa.

Sostengo, inoltre, che per risolvere forse queste problematiche, ci vorrebbero alcune svolte concrete. In primis le grandi opere: no alla gronda ed al terzo valico e sì allo scolmatore da 250 milioni di euro per il Bisagno. Sì ad altre opere di medio termine e di prima necessità per cercare di difendersi al meglio in attesa di vedere conclusa la mega opera dello scolmatore. Aggiungo poi che in certi casi come terremoti, alluvioni, ecc., i soldi che i Comuni hanno e che sono assurdamente bloccati dal Patto di Stabilità, dovrebbero essere invece svincolati dallo stesso ed usati. Vi faccio un esempio concreto e reale: Ceriale, ridente località turistica della Riviera Ligure di Ponente: ebbene loro hanno un rio che esonda sempre alla minima precipitazione. Quel comune, ha detto il Sindaco, ha sia i soldi che il progetto per realizzare quanto serve per mettere gli abitanti di Ceriale in sicurezza e quindi mettere quel rio in condizione di non nuocere più, ma ovviamente, non li può usare. Questa è l'Europa, un'Europa che secondo me va riformata seriamente e non nella direzione voluta dalla BCE, da Renzi e dalla Merkel. Comunque, queste sono altre questioni, da discutere in seguito. 

Ora vi devo lasciare, i raggi del sole sono adesso troppo forti e devo chiudere le persiane per difendermi. E spero che queste barriere di luce siano sufficienti per limitare i danni...

Daniele Verzetti Rockpoeta®

Vi propongo questa mia poesia intitolata 'In ginocchio nel fango': http://agoradelrockpoeta.blogspot.it/2014/11/langolo-del-rockpoeta-in-ginocchio-nel.html

Daniele Verzetti Rockpoeta
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domenica 16 novembre 2014

La bufala dei "40 euro al giorno agli immigrati". A Tor Sapienza e non solo

I soldi erogati dal ministero per l’accoglienza vanno a coprire i costi di gestione, ai migranti meno di 3 euro per le spese quotidiane. Più consistenti invece i contributi per i minori: quelli non accompagnati arrivati quest'anno in Italia sono 11mila. Di Capua (Sprar): "Per loro obbligo di tutela fino alla maggiore età, anche se non sono richiedenti asilo”


ROMA – “Gli italiani non hanno lavoro e ai rifugiati diamo 40 euro al giorno”. “Noi se stiamo senza lavoro non riceviamo un euro, a loro invece li manteniamo senza far niente”. Frasi ripetute spesso, come un mantra, in questi giorni di scontri nella periferia romana, per spiegare il clima di insofferenza dei cittadini nei confronti dei migranti ospitati nei centri di accoglienza. Ma quanto ricevono davvero i migranti, richiedenti asilo e rifugiati? E chi sono i minori non accompagnati, finiti al centro delle polemiche dopo le rivolte scoppiate nella periferia est della capitale?

40 euro date in media alle cooperative, meno di tre euro ai migranti. Il costo medio per l’accoglienza di un richiedente asilo o rifugiato è di 35 euro al giorno. Un importo non definito per decreto, ma da una valutazione sui costi di gestione dei centri. Gli enti locali che decidono di partecipare al bando Sprar (Sistema di protezione e accoglienza per rifugiati e richiedenti asilo), come l’ultimo del 2014/2016, hanno l’obbligo infatti di presentare un piano finanziario che deve essere approvato dalla commissione formata da rappresentati di enti locali (comuni, province e regioni), del ministero dell’Interno e dell’Unhcr. Le spese di gestione per migrante, valutate in media intorno ai 35 euro pro capite pro die, possono subire dunque delle variazioni da regione a regione, secondo il costo della vita locale e dell’affitto delle strutture. Questi soldi però, dai 35 ai 40 euro al giorno, non finiscono in tasca agli ospiti dei centri ma vengono erogati alle cooperative, di cui i comuni si avvalgono per la gestione dell’accoglienza. E servono a coprire le spese per il vitto, l’alloggio, la pulizia dello stabile e la manutenzione. Una piccola quota copre anche i progetti di inserimento lavorativo. Della somma complessiva solo 2,5 euro in media, il cosiddetto pocket money, è la cifra che viene data ai migranti per le piccole spese quotidiane (dalle ricariche telefoniche per chiamare i parenti lontani, alle sigarette, alle piccole necessità come comprarsi una bottiglia d’acqua o un caffè).

I soldi per l’accoglienza vengono presi dal fondo ordinario che il ministero dell’Interno ha a disposizione per l’immigrazione e l’asilo. “L’accoglienza dei richiedenti asilo è una risposta alla convenzione dei Diritti dell’uomo e alla nostra Costituzione – spiega Daniela Di Capua, direttrice del servizio centrale Sprar -. In questi giorni sono state dette molte cose errate che vanno chiarite. Innanzitutto i 40 euro al giorno non vengono dati in nessuno modo ai richiedenti asilo e ai rifugiati. Sono soldi erogati per la gestione dei centri, che vanno a chi si prende la responsabilità di gestirli. Servono dunque a pagare gli operatori, l’affitto ai privati degli immobili, i fornitori di beni di consumo. Una piccola quota va per gli interventi di riqualificazione professionale, come i tirocini, orientati a permettere ai migranti di vivere in autonomia una volta usciti dal sistema di accoglienza. E solo una quota residua viene data direttamente a loro. Si tratta del pocket money, pochi euro per le piccole spese quotidiane. Queste risorse fanno parte di un fondo ordinario del ministero. Non sono spese straordinarie – spiega - solo nel caso dell’Emergenza nord Africa ci fu un aumento delle accise per far fronte all'accoglienza. Cosa che non sta accadendo oggi”.

Per quanto riguarda i minori non accompagnati, il discorso è diverso e il costo pro capite varia a seconda delle rette delle singole comunità di accoglienza. “Questo dipende – spiega ancora Di Capua – dal fatto che per i minori non accompagnati si fa riferimento a una normativa diversa, rispetto agli adulti, originariamente indirizzata ai minori allontanati dalle famiglie in Italia. Gli standard in questo caso sono più elevati, così come i costi – aggiunge - La competenza è dei Comuni che si avvalgono per la gestione delle comunità di accoglienza. Queste devono assicurare anche un servizio sociale e di tutela, che comporta una spesa maggiore. Le rette possono dunque superare anche i 140 euro, ma per quelli che rientrano nello Sprar, indipendentemente dalla rette della comunità, noi eroghiamo 80 euro al massimo. Il ministero sta comunque lavorando per abbattere i costi di queste rette, pensando a una differenziazione anche per fasce d’età”.

In tutto sono 11 mila i minori non accompagnati arrivati quest’anno in Italia. Si tratta di ragazzi, di età media tra i 12 e i 17 anni, che arrivano da soli sul territorio italiano. La maggior parte sono maschi e provengono dall’Afganistan, dal Nord Africa e dalla Siria. “Alcuni di loro sono stati aiutati a fuggire da zone di guerra o di conflitto dai genitori – conclude Di Capua – e hanno diritto a fare richiesta d’asilo. Altri vengono per lavorare o sono vittime dei trafficanti. In ogni caso per tutti, anche per i non richiedenti asilo, c’è un obbligo di tutela fino alla maggiore età”. (ec)

Fonte: Redattore Sociale

sabato 15 novembre 2014

La lettera aperta dei 35 rifugiati sgombrati dal centro di Tor Sapienza

I ragazzi, 14 dei quali ieri hanno tentato di rientrare nel centro romano di Via Morandi, hanno scritto una lettera aperta in cui raccontano la loro esperienza


Tutti parlano di noi, ma nessuno veramente ci conosce. Siamo trentacinque persone provenienti da diversi Paesi : Pakistan, Mali, Etiopia, Eritrea, Afghanistan, Mauritania, ecc… Non siamo tutti uguali, ognuno ha la sua storia; ci sono padri di famiglia, giovani ragazzi, laureati, artigiani, insegnanti, ecc. ma tutti noi siamo arrivati in Italia per salvare le nostre vite. Abbiamo conosciuto la guerra, la prigione, il conflitto in Libia, i talebani in Afghanistan e in Pakistan. Abbiamo viaggiato, tanto, con ogni mezzo di fortuna, a volte con le nostre stesse gambe; abbiamo lasciato le nostre famiglie, i nostri figli, le nostre mogli, i nostri genitori, i nostri amici, il lavoro, la casa, tutto. Non siamo venuti per fare male a nessuno.

In questi giorni abbiamo sentito molte cose su di noi: che rubiamo, che stupriamo le donne, che siamo incivili, che alimentiamo il degrado del quartiere dove viviamo. Queste parole ci fanno male, non siamo venuti in Italia per creare problemi, né tanto meno per scontrarci con gli italiani. A questi ultimi siamo veramente grati, tutti noi ricordiamo e mai ci scorderemo quando siamo stati soccorsi in mare dalle autorità italiane, quando abbiamo rischiato la nostra stessa vita in cerca di un posto sicuro e libero. Siamo qui per costruire una nuova vita, insieme agli italiani, immaginare con loro quali sono le possibilità per affrontare i problemi della città uniti insieme e non divisi.

I 14 ragazzi che ieri hanno tentato di rientrare nel Centro di accoglienza di Via Morandi

Da tre giorni viviamo nel panico, bersagliati e sotto attacco: abbiamo ricevuto insulti, minacce, bombe carta. Siamo tornati da scuola e ci siamo sentiti dire negri di merda; non capiamo onestamente cosa abbiamo fatto per meritarci tutto ciò. Anche noi viviamo i problemi del quartiere, esattamente come gli italiani; ma ora non possiamo dormire, non viviamo più in pace, abbiamo paura per la nostra vita. Non possiamo tornare nei nostri Paesi, dove rischiamo la vita, e così non siamo messi in grado nemmeno di pensare al nostro futuro. 

Vogliamo dire no alla strada senza uscita a cui porta il razzismo, vogliamo parlare con la gente, confrontarci. Sappiamo bene, perché lo abbiamo vissuto sulla nostra stessa pelle nei nostri Paesi, che la violenza genera solo altra violenza. Vogliamo anche sapere chi è che ha la responsabilità di difenderci? Il Comune di Roma, le autorità italiane, cosa stanno facendo? Speriamo che la polizia arresti e identifichi chi ci tira le bombe. Se qualcuno di noi dovesse morire, chi sarebbe il responsabile?

Non vogliamo continuare con la divisione tra italiani e stranieri. Pensiamo che gli atti violenti di questi giorni siano un attacco non a noi, ma alla comunità intera. Se il centro dove viviamo dovesse chiudere, non sarebbe un danno solo per noi, ma per l’intero senso di civiltà dell’Italia, per i diritti di tutti di poter vivere in sicurezza ed in libertà. Il quartiere è di tutti e vogliamo vivere realmente in pace con gli abitanti. Per questo motivo non vorremmo andarcene e restare tutti uniti perché da quando viviamo qui ci sentiamo come una grande famiglia che nessuno di noi vuole più perdere, dopo aver perso già tutto quello che avevamo.

Fonte: Frontiere news

venerdì 14 novembre 2014

Tor Sapienza, ipocrisia e razzismo dietro una giusta protesta

Nel quartiere romano è scoppiata la rivolta. I cittadini chiedono più sicurezza e se la prendono con i 36 "neri" minorenni del centro di accoglienza


“Bruciamoli tutti”. Come una caccia alle streghe moderna. Questa volta sono i migranti le vittime della violenza. Dopo che alcuni di loro sono stati i “carnefici”. Ma alla forca ci finiscono tutti, perché di fronte al degrado e all’esplosione della criminalità è difficile non generalizzare. Così a Tor Sapienza alla giusta protesta si mischiano razzismo e xenofobia, da una parte alimentati dalla disperazione e dall’emarginazione sociale, dall’altra fomentati da chi, senza responsabilità, ha affrontato e affronta tutt’oggi il tema dell’immigrazione.

La periferia abbandonata. È falso dire che chi scende in piazza a Tor Sapienza è razzista. In molti protestano, e non da oggi, contro il degrado della zona, causato anche da una gestione fallimentare del sistema dei centri di accoglienza, al quale si aggiunge un sostanziale abbandono delle forze dell’ordine di alcune zone della Capitale. D’altronde dove c’è disagio aumenta l’illegalità, al di là del paese di provenienza. E i migranti, nonostante la propaganda di Lega, CasaPound e Fratelli d’Italia, vivono in miseria. Per questo nei pressi dei centri di accoglienza va aumentata la sorveglianza delle forze dell’ordine. Ma non basta la repressione. Servono seri interventi di integrazione, con corsi di lingua italiana e formazione professionale. Altrimenti saranno sempre degli zombie destinati ad incrementare il disagio e l’insicurezza.

Le ipocrisie dietro una giusta protesta. Tuttavia, a Tor Sapienza se è lecito manifestare per la maggiore sicurezza, appare francamente ipocrita chi protesta contro il centro di accoglienza per rifugiati politici di via Morandi “perché siamo invasi e devono andare via”. Scartabellando i dati relativi ai centri di accoglienza di Roma, si scopre che quello di via Morandi dovrebbe ospitare 30 rifugiati. Ed in effetti, secondo i numeri forniti dalla cooperativa che gestisce il centro, il numero reale si discosta di poco: sono 36 gli ospiti effettivi al momento, molti dei quali minorenni e quasi tutti provenienti dall’Africa. Appare francamente difficile, a parte il comportamento irriverente di qualcuno, che 36 persone, tutte schedate, possano mettere a ferro e a fuoco un quartiere di 8mila anime. Infatti, la goccia che ha fatto traboccare il vaso è stato un tentativo di stupro in un parco della zona ad opera di tre uomini. Ma non di origine africana, come in molti sostengono. Bensì ad opera di tre uomini dell’Europa dell’est. Mentre i furti nelle abitazioni nella maggior parte dei casi sono attribuibili a bande di rom, non necessariamente stanziati in zona. Senza dimenticare che il traffico di droga nell’area è gestito soprattutto dagli italiani.

Tra razzismo e ignoranza. Così, una giusta protesta per chiedere maggiore sicurezza si trasforma in una caccia al “negro” al grido “Viva il Duce”, con 50 persone incappucciate che tentano l’assalto al centro di accoglienza. Poi finisce che un 35enne di colore, “pizzicato” sulla strada, viene pestato e finisce all’ospedale. “Quelli prendono 40 euro al giorno, e noi stiamo a fare la fame senza un lavoro”. Così molti abitanti della zona giustificano la follia collettiva. Ed è qui che la politica ha le sue più grandi responsabilità, perché racconta una mezza verità che diviene una verità compiuta. Infatti, non è affatto vero che i migranti (quasi esclusivamente profughi e rifugiati) abbiano uno “stipendio” di 40 euro al giorno. Bensì, ogni immigrato in un centro di accoglienza costa 900 euro al mese, pari a 30 euro+iva al giorno. Si tratta della cifra che lo Stato paga alle cooperative che gestiscono i centri e che a loro volta pagano stipendi ai lavoratori italiani che cucinano, fanno le pulizie e si occupano della gestione dei centri stessi. Al singolo migrante viene data una scheda telefonica da 15 euro e 2,5 euro al giorno da spendere per esigenze personali, pari a 75 euro al mese.

Fonte: Diritto di critica

giovedì 13 novembre 2014

Il nuovo secolo si era aperto con il Nokia 3310

Il nuovo secolo si era aperto con il NOKIA 3310. Oggi, a quasi 15 anni, vi ricordate come eravamo?

In Italia c’era ancora la vecchia lira. Un nero presidente degli Stati Uniti sembrava un evento impossibile. Il Grande Fratello, l’iPhone e Facebook non esistevano. Nessuno parlava di crisi economica e di terrorismo internazionale… Vi raccontiamo i dieci fatti che nella prima decade del nuovo millennio hanno cambiato la nostra vita. Oltrepasseremo la storia o resteremo intrappolati in questi anni?

I ragazzi del 2000 entreranno nel mondo del lavoro, potranno mettere a frutto le loro passioni?

Diventeranno protagonisti, come le generazioni precedenti, o resteranno loro controfigure?

Ma soprattutto, quali sono gli elementi di identità dei primi ragazzi dell’anno zero, del XXI secolo, del III millennio?

Un racconto multimediale racconterà Quelli che il 2000 negli scatti quotidiani di una vita, di un gruppo: concepiti durante i mondiali di calcio del 1982, frequentavano la prima elementare quando cadeva il muro di Berlino.

“La generazione dei tre crolli”: era il 1989 a segnare il mondo la caduta del muro, era il 2001 a segnare il mondo il crollo delle torri gemelle, era il 2008 il botto della finanza la crisi mondiale.

Questa generazione è la prima che usa gli SmartPhone e gli euro, ma questa generazione è l’ultima che ha usato i gettoni quando valevano 200 lire. Sarebbero i fratelli maggiori dei nativi digitali e i fratelli minori dei ragazzi del muretto. In realtà sono figli unici. Verranno scoperti attraverso i loro sogni: una scuola che dà fiducia come quella finlandese, un lavoro dopo lo stage.

Non sono nati con il telefonino, con il personal computer, gli schermi touch screen, la loro prima ricerca in internet è stata: La pecora Dolly, con una tastiera dell’Internet Point, in cameretta avevano il televisore, ma loro sono stati gli ultimi con queste caratteristiche e i primi a passare ad Android, a vedere la Tv on line, a postare su i propri video ma siamo già ad anni più recenti, pensate che gli studenti ai tempi del Ministro Letizia Moratti non avevano né telecamera né youtube, correva l’anno 2007 quando sbarcò in Italia, e molti di loro erano sopravvissuti alla scuola cosiddetta “Jurassica” e si apprestavano ad essere i primi laureati triennali della storia della Repubblica italiana. E cosa avrebbe comportato ciò nel passaggio al mondo del lavoro? Questa è un’altra puntata amara di Quelli che il 2000; ma siamo all’ora del Black Berry aziendale e all’ultimo modello Nokia della storia finlandese. Il presente è Iphone 6 e Samsung Galaxy S5, il futuro sarà Microsoft? Bisognerà chiederlo a Quelli che il 2000, fin qui fruitori forti di telefonia mobile, che tra una fatica e l’altra di trovar lavoro e casa hanno già tagliato sul telefono fisso. La prima generazione.

Benedetta Cosmi


Fonte: Formiche

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martedì 11 novembre 2014

Assolti: il fatto non sussiste


Cosa dire? Non sono un avvocato, né un’addetta ai lavori. Sono una cittadina aquilana, una dei tanti. Non conosco le regole della Giustizia, non conosco i cavilli legali. Posso aspettare di leggere le motivazioni della sentenza che ha assolto in appello gli scienziati della Commissione Grandi Rischi. Anche lì, potrò applicarmi per capire, ma resto solo una vittima, una delle settantamila. Una che ce l’ha fatta a salvare la vita. Una che avrebbe potuto morire, quella notte.

Non mi permetto di giudicare la sentenza, non ho le armi per farlo. Ma posso dire che, ancora una volta, la verità è stata sconfitta. Perché la verità è una ed una sola e nessuno meglio delle vittime può conoscerla.

La rassicurazione c’è stata e c’è stata in seguito ad una riunione frettolosa che voleva giungere solo a quella conclusione: le continue scosse scaricano, non c’è motivo di allarmarsi. Chi ha rassicurato, il capro espiatorio di tutta la vicenda, Bernardo De Bernardinis, funzionario della Protezione Civile, ha veicolato ciò che gli scienziati avevano detto, o ha inventato il tutto di sana pianta? Se ha inventato, o travisato, perché gli esimi scienziati non lo hanno smentito? Ma il fatto, per la Corte, non sussiste. Sono scienziati, non comunicatori. Lo ha deciso una Corte d’Appello, ribaltando la sentenza di condanna a sei anni, pur non essendo riuscita ad acquisire alcuna nuova prova, né elemento aggiuntivo a quanto già emerso in prima istanza. Per noi digiuni di Legge, quasi una sentenza già decisa, all’origine. Una sentenza che ristabilisce l’importanza dei forti, lo Stato, contro la nullità dei deboli, le vittime.

Mi domando come si sentano i parenti delle vittime, quelli che, sopravvissuti, recano il carico della responsabilità di aver tenuto in casa in loro congiunti, rassicurandoli, perché loro stessi si erano sentiti rassicurati. Mi domando come si possano sentire, loro, già così tanto provati dalla vita, nel sapere che nessuno è colpevole, fra quei luminari della scienza che, al termine di una riunione di venti minuti, frettolosa, superficiale, infruttuosa, hanno lasciato la nostra città, dimenticandola. Dimenticandoci.

So come ci sentiamo noi cittadini sopravvissuti: ancora carta straccia, ancora vittime, ancora soli.

Restano le parole di Guido Bertolaso, al telefono con Daniela Stati, restano come pietre : “…la cosa importante è che adesso De Bernardinis ti chiama per dirti dove volete fare la riunione. Io non vengo, ma vengono Zamberletti, Barberi, Boschi, quindi i luminari del terremoto d’Italia. Li faccio venire all’Aquila o da te o in prefettura, decidete voi, a me non frega niente, di modo che è più un’operazione mediatica, hai capito? …. Così loro, che sono i massimi esperti di terremoti diranno: è una situazione normale, sono fenomeni che si verificano, meglio che ci siano 100 scosse di 4 scala Richter piuttosto che il silenzio perché 100 scosse servono a liberare energia e non ci sarà mai la scossa, quella che fa male. Hai capito?”

Parole non valutate dalla Corte, parole defalcate. Eppure dirimenti, chiare. Inesorabili.

Restano quelle 309 vittime. Nel nostro cuore come pietra, sulle loro coscienze. Possono non sentirle, sulle loro coscienze, gli scienziati, se riescono a non conservare umanità, ma ci sono.

Inesorabili.

Anna Pacifica Colasacco, aquilana. Terremotata

Commissione grandi rischi: assolti tutti gli imputati

Il giudizio in appello ribalta la sentenza di primo grado. Due anni a De Bernardinis per parte residuale del capo d'imputazione


La Corte d’Appello dell’Aquila ha assolto tutti e sette i membri della Commissione Grandi rischi che parteciparono alla riunione 5 giorni prima del sisma del 6 aprile. In primo grado Bernardo De Bernardinis, Giulio Selvaggi, Franco Barberi, Enzo Boschi, Mauro Dolce,Claudio Eva, Michele Calvi erano stati condannati a 6 anni per omicidio e lesioni colpose. Il fatto non sussiste. Due anni sono stati dati a De Bernardinis per parte residuale capo d’imputazione. È questo l’esito del processo d’appello ai componenti della Commissione Grandi Rischi – organo consultivo della presidenza del Consiglio – nella sua composizione del marzo 2009. Un giudizio che ribalta la sentenza di primo grado. L’accusa è stata quella di aver rassicurato gli aquilani e aver sottovalutato la pericolosità dello sciame sismico in una riunione del 31 marzo 2009, cinque giorni prima della scossa distruttiva che portò alla morte di 309 persone. Nella sentenza in primo grado dell’ottobre 2012 furono stabiliti sei anni di reclusione per tutti gli imputati. L’ex capo della protezione civile Bertolaso è indagato invece in un filone parallelo al processo alla Commissione grandi rischi. Alla lettura della sentenza il pubblico ha urlato «Vergogna! Vergogna». «Immaginavo un forte ridimensionamento dei ruoli e delle pene, ma non un’assoluzione così completa, scaricando tutto su De Bernardinis, cioè sulla Protezione Civile», ha commentato il procuratore generale dell’Aquila Romolo Como, che si è detto «alquanto sconcertato».

GLI IMPUTATI – Per l’appello gli imputati erano Franco Barberi, all’epoca presidente vicario della Commissione Grandi rischi, Bernardo De Bernardinis, già vice capo del settore tecnico del dipartimento di Protezione civile, Enzo Boschi, già presidente dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (Ingv), Giulio Selvaggi, direttore del Centro nazionale terremoti, Gian Michele Calvi, direttore di Eucentre e responsabile del Progetto Case, Claudio Eva, ordinario di fisica all’Università di Genova e Mauro Dolce, direttore dell’ufficio rischio sismico di Protezione civile. In primo grado i pm accusarono la carenza di analisi della Commissione.

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GRANDI RISCHI, ACCUSA E DIFESA - Non un processo a degli scienziati, ma a dei ‘funzionari dello Stato’ per non aver analizzato correttamente tutti i rischi di quei giorni. Non dolo ma omicidio e lesioni colpose. E’ questa la tesi della Procura aquilana che ha guidato tutta l’accusa al processo di primo grado ai componenti della commissione Grandi Rischi. «I fatti non cambiano, con la sentenza di primo grado la tavola è stata apparecchiata, le pietanze sono quelle, ma siccome il diritto è dialettica l’eventuale valutazione delle responsabilità può essere solo un fatto tecnico. Quello che andava ricostruito e ci siamo riusciti, era ricostruire la verità a prescindere dal parere dell’opinione pubblica e dai giudizi dell’informazione», si sintetizza negli ambienti della Procura aquilana. Di tutt’altro parere le difese. Il professor Franco Coppi ha contestato fortemente la tesi: «Qui il funzionario pubblico non c’entra: c’entra semmai, e lo contestiamo, quel singolo che potrebbe aver sbagliato. Quando affermano che questi scienziati possono aver sottovalutato il rischio sismico, si riferiscono al titolo individuale dell’imputato, e quindi c’eìè il rischio di condannare degli scienziati perché hanno sbagliato nel loro ruolo scientifico, quando tutti sanno che non è possibile prevedere un terremoto».

Onna. Foto LaPresse/Manuel Romano

I VERBALI E QUELLA RIUNIONE – Per capire l’appello e la sentenza di primo grado occorre rivedere gli elementi che hanno portato alla vicenda Grandi Rischi. La riunione di quel 31 marzo più che un tavolo tecnico, secondo la ricostruzione dei pm, pareva più una “conferenza stampa”. Un errore secondo il Pm: «La commissione, non indirizzava le sue valutazioni al Dipartimento della Protezione Civile, bensì direttamente al pubblico, per volontà manifesta dello stesso Dipartimento, cui i membri della Commissione non si sottraevano». E poi c’è anche la questione “verbale”, aspetto su cui puntò la difesa in primo grado. L’avvocato Carlo Sica, in rappresentanza della presidenza del Consiglio dei ministri, chiese al tempo l‘assoluzione di tutti e sette gli imputati. «La Commissione era giuridicamente nulla. La loro presenza all’Aquila era una partecipazione funzionale nulla di più. Il verbale è uno solo ed è quello del 31 marzo. Nel corso della riunione giravano fogli bianchi, fatti al volo in cui gli elementi erano il nome, l’ente di appartenenza e la firma, tutto ciò non è attribuibile ad una bozza, ma serviva a sapere chi fosse presente».

I FAMILIARI E I REPORT – Dopo la riunione si creò quel clima di “serenità”. Un climax ben raccontato nelle carte processuali da familiari e amici di vittime che parlarono del repentino cambio di atteggiamento dei loro congiunti. Quell’atteggiamento che lì portò a rimanere a casa quella maledetta notte. In quel periodo c’era una notevole “sete di notizie” e la riunione del 31 era l’unica garanzia di verità su quello che stava accadendo nel territorio abruzzese.

Fioravanti Guido, per la morte dei genitori Fioravanti Claudio e Ianni Franca: “Ma io ricordo una intervista del professor De Bernardinis, ricordo… ricordo dei telegiornali che rassicuravano. Mi ricordo addirittura i titoli di un telegiornale delle reti Mediaset, Studio Aperto, in cui si diceva: “Ma non c’è pericolo”, c’era una frase mi ricordo tra parentesi in cui si diceva: “Ma non c’è pericolo”. Papà era una persona che amava molto informarsi, si informava in continuazione su tutto, quindi lui di giornali ne leggeva… Andava all’edicola, sembrava che facesse la spesa insomma, per fargli capire, quindi i giornali lui li ha letti tutti”

Ed è proprio sull’errore comunicativo che è cambiata la sentenza in appello. La corte stavolta, assolvendo gli altri imputati, ha attribuito maggiori colpe a De Bernardinis non ai tecnici del tavolo.

Secondo un documento diffuso dal Dipartimento della protezione civile nei giorni precedenti la grande scossa, si parlò di “spostamenti spettrali molto contenuti, di pochi millimetri, e perciò difficilmente in grado di produrre danni alle strutture”. In realtà gli edifici aquilani erano a rischio. A dimostralo uno studio ad hoc del 1999 titolato “Censimento di vulnerabilità degli edifici pubblici, strategici e speciali nelle regioni Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia e Sicilia”. Paradossalmente al progetto collaborarono anche alcuni imputati Barberi, Eva e Dolce. A pagina 46 dello studio una tabella evidenzia che all’Aquila su un totale di 752 edifici in muratura analizzati, ben 555 ricadevano in fascia di vulnerabilità medio – alta, con “muratura di cattiva qualità con orizzontamenti deformabili e con orizzontamenti rigidi”. Alcuni degli edifici indicati, dove sono morte diverse persone, rientravano in questa categoria.

SI POTEVA FARE DI PIÙ? – Era possibile valutare il numero delle vittime in caso di scossa sismica forte? Il S.I.G.E. – Sistema Informativo per la Gestione dell’Emergenza, in uso alla Protezione Civile in effetti permette di constatare la pericolosità di un evento. Lo strumento gestisce, a livello nazionale, i dati del patrimonio edilizio e delle caratteristiche di sismicità, di oltre ottomila comuni italiani. Per quanto riguarda l’Aquila, i dati S.I.G.E., furono già disponibili a mezz’ora dalla scossa del 6 Aprile 2009 ore 3,32. In quel momento, secondo l’accusa dei pm, la Protezione Civile aveva a disposizione uno scenario di danno con stime del tutto prossime a quelle che poi si sono rivelate nella realtà. Per questo nella requisitoria in primo grado non si parlò di prevedibilità di “terremoti” ma bensì di ciò che la Commissione era portata a valutare e che, nonostante gli strumenti in mano, non avrebbe fatto. «Non era però questo il tipo di risposta che gli imputati erano chiamati a dare nella loro veste di componenti della Commissione (..) e non perché non fosse una risposta scientificamente corretta o scientificamente accettabile (i terremoti non si possono prevedere, e questo lo si è già dato per acquisito), ma perché non era una risposta pertinente all’argomento in discussione; non era questo il terreno di confronto; non era questo il motivo per il quale la Commissione era stata chiamata a riunirsi a L’Aquila il 31.03.2009».

(In copertina: Onna sotto le macerie. Foto da archivio LaPresse)

Fonte: Giornalettismo

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lunedì 10 novembre 2014

Insieme per Ghoncheh Ghavami - Firma l'appello



Ghoncheh Ghavami, 25 anni di nazionalità britannica e iraniana, ha iniziato un nuovo sciopero della fame per protestare contro la sua condanna. Il 2 novembre Ghoncheh Ghavami è stata condannata da un tribunale rivoluzionario per “propaganda contro il sistema”. È una prigioniera di coscienza e deve essere rilasciata immediatamente e senza condizioni. Ghoncheh Ghavami, 25 anni, di nazionalità britannica e iraniana, è stata arrestata a giugno per aver preso parte a una protesta pacifica contro il divieto imposto alle donne di assistere a eventi sportivi in impianti pubblici insieme a uomini. La protesta aveva avuto luogo, il 20 giugno, fuori dallo stadio Azadi di Teheran, dove era in corso l’incontro della Volleyball World League tra Iran e Italia. Secondo gli attivisti e i giornalisti presenti, la polizia disperse la protesta con forza eccessiva e arrestò numerosi manifestanti, tra cui Ghavami. Dopo essere stata rilasciata, Ghoncheh Ghavami è stata arrestata di nuovo 10 giorno dopo, il 30 giugno, quando si è recata a Vozara, centro di detenzione di Teheran, per riprendere il suo telefono cellulare sequestratole durante il suo primo arresto. Lo stesso giorno, agenti in borghese sono andati con lei nella sua abitazione e hanno confiscato il suo computer portatile e libri e l’hanno successivamente portata alla sezione 2A del carcere di Evin, dove è stata tenuta in isolamento, senza accesso alla sua famiglia o l’avvocato per 41 giorni. Durante questo periodo, è stata interrogata a lungo, sottoposta a pressioni psicologiche e a minacce di morte e di essere trasferita alla prigione di Gharchak, dove scontano la pena in condizioni estremamente dure gli autori di gravi crimini, e dalla quale non sarebbe uscita viva. Successivamente è stata trasferita in una cella comune con un’ altra detenuta. Il 16 settembre le autorità avevano informato la famiglia che non potevano più visitare regolarmente Ghoncheh Ghavami, probabilmente come rappresaglia per le interviste rilasciate ai media stranieri. Hanno potuto rivederla solo il 4 ottobre, dopo una lettera del giudice incaricato del suo caso al Tribunale rivoluzionario, che consentiva una visita della sua famiglia. Il 20 settembre, la famiglia è stata informata che l’Ufficio del procuratore di Teheran aveva assegnato il caso al Tribunale rivoluzionario, trattandosi di “diffusione di propaganda contro il sistema”. Amnesty International ritiene che l’accusa contro Ghoncheh Ghavami non costituisca un reato penale riconosciuto a livello internazionale e che sia in carcere solo per le sue attività pacifiche per porre fine alla discriminazione contro le donne.
Informazioni aggiuntive L’Iran ha imposto alle donne il divieto di assistere a partite di calcio negli stadi dopo l’istituzione della Repubblica islamica dell’Iran nel 1979. Nel 2012, il dipartimento per la sicurezza (Herasat) del ministero dello Sport e delle politiche giovanili ha esteso questo divieto alle partite di pallavolo. Le autorità iraniane hanno spesso dichiarato che mescolare uomini e donne negli stadi non è un tema d’interesse pubblico e che la presunta discriminazione nei confronti delle donne è in realtà a queste favorevole, in quanto hanno bisogno di “essere protette” dagli atteggiamenti osceni dei tifosi di sesso maschile. L’articolo 9 del Patto internazionale sui diritti politici e civile(Iccpr), di cui l’Iran è parte, prevede che nessuno può essere arbitrariamente arrestato o detenuto. La detenzione è considerata arbitraria quando una persona è privata della libertà per aver esercitato i diritti e le libertà garantiti dall’Iccpr. La detenzione può anche diventare arbitraria a causa della violazione dei diritti del giusto processo del detenuto, tra cui il diritto a un consulente legale prima del processo, a essere portati al più presto dinanzi a un giudice, a contestare la legittimità della detenzione e a avere tempo e mezzi per la preparazione della difesa. Deve essere rispettato il principio di messa in libertà in attesa del processo e le persone detenute illegalmente devono poter chiedere un risarcimento.
FIRMA L’APPELLO DI AMNESTY INTERNATIONAL
http://www.amnesty.it/flex/FixedPages/IT/appelliForm.php/L/IT/ca/224

Fonte: El Nuevo Dìa

domenica 9 novembre 2014

25 anni fa cadeva il Muro di Berlino


25 anni fa, il 9 novembre 1989, cadeva il Muro di Berlino, simbolo indiscusso della guerra fredda.

Il Muro di Berlino fu fatto costruire dal governo della Germania Est per impedire la libera circolazione delle persone tra Berlino Ovest (e quindi la Germania Ovest) e il territorio della Germania Est. Il muro divise in due la città di Berlino per 28 anni, dal 13 agosto del 1961 fino al 9 novembre 1989, giorno in cui il governo tedesco-orientale decretò l'apertura delle frontiere con la repubblica federale. Durante questi anni, furono uccise dalla polizia di frontiera della DDR circa 200 persone mentre cercavano di superare il muro verso Berlino Ovest. Il 9 novembre 1989, dopo diverse settimane di disordini pubblici, il Governo della Germania Est annunciò che le visite in Germania e Berlino Ovest sarebbero state permesse; dopo questo annuncio tantissimi cittadini dell'Est si arrampicarono sul muro e lo superarono, per raggiungere gli abitanti della Germania Ovest dall'altro lato. In una notte veniva spazzato via il muro che separava due mondi, e si chiudeva un capitolo di storia che per cinquant'anni aveva caratterizzato l'esistenza di tutta l'umanità.

giovedì 6 novembre 2014

mercoledì 5 novembre 2014

Tumore della cervice uterina: prevenire si può

di Dott.ssa Enza Tabacchino

Informare è il primo passo per ogni prevenzione. Avendo molto a cuore il tema della prevenzione e avendo avuto occasione di approfondire l'argomento, voglio dare qualche informazione, in modo semplice, su un tumore femminile di cui non si parla così spesso: il tumore della cervice uterina.

Negli ultimi anni, si è sentito spesso parlare di infezioni da HPV (Papilloma Virus Umani). Questo tipo di infezioni rientrano nel gruppo delle malattie sessualmente trasmesse e sono tra le più comuni. Il virus infetta gli epiteli della cute e delle mucose e, col passare del tempo, se l'infezione non è transitoria, può generare diverse lesioni all'utero e non solo. La comparsa di lesioni precancerose si ha dopo circa 5 anni: da questo si può intuire che c'è tutto il tempo per individuare una lesione a rischio. Ed è per questo che tutti devono capire l'importanza dei test di screening, i quali permettono di avere una diagnosi precoce. Nello specifico caso del tumore della cervice, basta un rapido esame: il Pap-test. Secondo i programmi di screening, TUTTE LE DONNE DAI 25 AI 64 ANNI DEVONO FARE UN PAP-TEST OGNI 3 ANNI. L’Italia ha reso disponibile anche un vaccino contro l'HPV, somministrato alle donne di età compresa tra i 12 e i 26 anni.

Purtroppo molto spesso la sintomatologia (perdite di sangue, dolore, disturbi vescicali) compare quando la lesione è già in uno stadio avanzato, quindi sono davvero fondamentali i controlli periodici, per affrontare i problemi sul nascere, evitando le complicazioni.

Conoscere le malattie e i fattori di rischio significa avere un maggior controllo sulla nostra salute. L'informazione è importante, senza di essa non può esserci prevenzione!

Enza Tabacchino

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martedì 4 novembre 2014

La crisi morde ancora in Abruzzo


L'economia abruzzese
Secondo l'analisi dei dati economici del primo trimestre 2014 diffusi dall’Area Research & IR di Banca MPS, l'Abruzzo è una delle regioni italiane che sta affrontando meglio di altre la congiunzione economica sfavorevole, che continua a perdurare con la crisi economica. Il comparto produttivo dell'Abruzzo infatti è in contro tendenza rispetto alla media nazionale del 18.5% contro il 21.5%, ma il PIL regionale rimane comunque indietro, dopo il tracollo del 2013 con un -4.1%, ma è tuttavia risalito nel 2014 nonostante detenga ancora un valore negativo (-1.2%).

Un dato interessante riguarda il primo trimestre 2014 che ha visto una crescita industriale del 2.9% che fa ben sperare per una ripresa, ma non in tempi brevi. I settori trainanti dell'economia abruzzese rimangono infatti quelli dei trasporti, del legno, dell'abbigliamento, della plastica, e in generale del comparto manifatturiero. Sono penalizzati invece settori come il metallurgico, il farmaceutico e quello delle bevande, che rispecchiano tuttavia la tendenza nazionale. Un dato preoccupante riguarda invece il turismo abruzzese che continua a risentire degli effetti negativi del sisma dell'Aquila con soggiorni brevi, sia per le presenze italiane che straniere. Nel 2014 ha inciso anche il maltempo durante la stagione estiva che ha fatto calare ulteriormente le presenze.

Il rilancio dell'economia nelle mani dei giovani
Una delle possibili soluzioni per rilanciare l'economia abruzzese è certamente quella di lasciare spazio ai giovani con talento, che hanno seguito un percorso di studi mirato e che hanno ulteriormente arricchito la loro preparazione con un master in scienze politiche (qui possiamo vedere nel dettaglio cosa prevede tale percorso di studi). Un indirizzo politico-economico infatti è quello che può dare una nuova spinta all'economia regionale, con progetti studiati e pianificati scientificamente che possano invertire finalmente il trend negativo degli ultimi anni. L'Abruzzo infatti ha dalla sua parte le potenzialità legate al territorio, all'export, e alla produzione incentrata soprattutto ai settori chimico-farmaceutico ed elettromeccanico nonché dei trasporti. Pesa ancora tuttavia l'alto tasso di disoccupazione che, sempre secondo i dati dell'Area Research & IR di Banca MPS, rispecchia quello nazionale con il 12.6%, soprattutto tra i giovani. Le previsioni parlano di un leggero miglioramento solo a partire dal 2015.

Le esportazioni e le nuove imprese
Se invece si analizzano i fatturati nel particolare, quindi passando in rassegna le varie province, si nota come ci siano segnali incoraggianti per esempio a Chieti, che ha una produzione con un segno positivo del 5.5%, di gran lunga superiore al dato nazionale. Le esportazioni invece guardano sopratutto ai mercati europei al quale sono destinati l' 85% dei commerci, in particolare verso quello francese che continua a migliorare, ma anche verso l'America centro-meridionale. Verso l'estero sono destinati infatti i prodotti chimici e della plastica e i mezzi di trasporto. Nel complesso insomma la crescita delle esportazioni dalla fine del 2013 ha registra un incremento del 5.3% contro un 1.5% a livello nazionale. Un indice positivo arriva anche dal dato che registra la nascita di nuove imprese soprattutto individuali, con diverse forme societarie o anche con società di capitali, che è in decisa controtendenza rispetto alla situazione nazionale, dove si parla di centinaia di imprese che chiudono ogni giorno. Per quanto riguarda infatti il dato della "mortalità imprenditoriale" questa risulta inferiore alla media nazionale, facendo ben sperare in uno reale slancio in avanti dell'economia, si spera non solo regionale.

Monica Fabrizi

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domenica 2 novembre 2014

Stefano #Cucchi, la vergogna di uno Stato


Le lacrime. Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, è scoppiata in lacrime. Lacrime trattenute troppo a lungo.

È sempre stata forte, Ilaria. È stata forte di fronte alle foto di suo fratello, pieno di lividi. È stata forte di fronte a una difesa che distruggeva l’immagine di Stefano. È stata forte di fronte all’ipocrisia, all’atteggiamento vigliacco di chi ha cercato di ridurre il tutto a un ‘se l’è cercata, era un drogato’. È stata forte di fronte a chi continuava a ripetere che i lividi di Stefano, i danni al fegato, una vertebra fratturata erano la conseguenza di una caduta dalle scale. Ora, spiegatemi come si fa a cadere e a riportare tutto questo. Da quante scale bisogna cadere per procurarsi un’emorragia alla vescica cosi estesa che impedisce di fare pipì? Quante scale? È una domanda che non faccio solo ai poliziotti, ai medici, ai pm o agli avvocati. È una domanda che faccio a tutti noi, perché sono incazzato. Perché se si possono permettere di dire certe cavolate è perché c’è gente che ci crede. O, se anche non ci crede, non si indigna.

È sempre stata forte Ilaria. È stata forte, pensando a suo fratello in quella cella. Solo. Picchiato. Pieno di lividi. Paralizzato dalla vita in giù. Incapace di fare pipì. Con il pensiero di essere stato abbandonato dalla propria famiglia. Si, perché la mamma, il papà, Ilaria, hanno dovuto aspettare il 22 Ottobre per avere l’autorizzazione a incontrare Stefano. Il 22 Ottobre. Troppo tardi. Stefano era già morto. Torturato fisicamente e psicologicamente. Perché non ha nemmeno avuto la possibilità di guardare con i suoi occhi tumefatti quelli di sua madre. Se n’è andato picchiato, umiliato, credendo di essere stato abbandonato. Ilaria è stata forte anche a convivere con quest’altra violenza.

È sempre stata forte Ilaria. E lo è stata anche oggi. Più di ogni altra volta. Di fronte a una sentenza di cui noi tutti dobbiamo vergognarci. Tutti assolti. Stefano è morto e nessuno ha colpa. È forte Ilaria. Perché ha avuto la forza di piangere. Di piangere anche le lacrime di Stefano. E quelle di Federico Aldrovandi. E quelle di Giuseppe Uva.

A te, Ilaria, a tua madre, a tuo padre, va tutta la nostra vicinanza. Perché, anche se hanno sempre cercato di far passare Stefano solo come un drogato, per noi era ed è sempre un uomo. E, ricordando De Andrè, facciamo nostre quelle che immaginiamo siano le vostre parole: ‘Piango di lui ciò che mi è tolto, le braccia magre, la fronte, il volto, ogni sua vita che vive ancora, che vedo spegnersi ora per ora’

Spente da uno stato che dalle lacrime di Ilaria dovrebbe imparare e di cui dovrebbe vergognarsi. C’è tanta dignità in quelle lacrime. Lacrime che dovremmo versare anche noi. Per salutarti Stefano. E per chiederti scusa.

Fonte: Qualcosa di Sinistra