mercoledì 30 settembre 2015

Come cambia la cassa integrazione

Cosa prevede il quinto decreto applicativo del Jobs Act, che interviene su un meccanismo importante e discusso, spiegato semplice

Di Marco Surace

Una manifestazione di lavoratori in cassa integrazione, nel 2010. (LaPresse)

È entrato in vigore lo scorso 24 settembre 2015 il D.Lgs. 148/2015, cioè il quinto dei decreti applicativi che fanno parte del cosiddetto “Jobs Act”, la legge delega per la riforma del lavoro approvata dal Parlamento nel dicembre scorso. In particolare, il decreto riordina la normativa in materia di ammortizzatori sociali “in costanza di rapporto di lavoro”, abrogando oltre 15 leggi stratificatesi negli ultimi 70 anni, dal 1945 a oggi, con una sola norma che racchiude – quasi – tutto il settore.

Nel marzo scorso era entrato in vigore il decreto relativo invece alle misure volte a offrire sostegno economico ai lavoratori che hanno perso il posto di lavoro.

Dove eravamo
Cominciamo dall’inizio: la cassa integrazione – tecnicamente Cassa Integrazione Guadagni (CIG) – è un sussidio erogato dallo Stato con criteri complessi a certe tipologie di imprese e lavoratori in difficoltà, e diverse forme. In generale, il sussidio viene erogato ai lavoratori di cui un’azienda chiede di fare a meno per un periodo di tempo limitato. Questo sussidio può essere parziale, quando i lavoratori subiscono una riduzione dell’orario di lavoro, oppure totale, la cosiddetta “cassa integrazione a zero ore”: ma la riforma riduce moltissimo la possibilità di accedere alla seconda possibilità. Per esempio, se i lavoratori di un’azienda vengono messi in cassa integrazione per quattro ore al giorno, su un orario lavorativo di 8 ore al giorno, l’azienda continuerà a pagargli metà dello stipendio, mentre la cassa integrazione pagherà circa l’80 per cento dello stipendio per le ore restanti.

Le forme di cassa integrazione fin qui erano tre – qui ne avevamo spiegato il funzionamento – ma da anni si discuteva di una riforma. Ora le forme di cassa integrazione sono diventate due – ordinaria e straordinaria – e questo sussidio è stato esteso a imprese e lavoratori che prima ne erano esclusi: sostiene il governo che complessivamente le misure includeranno circa 1.400.000 lavoratori e 150.000 imprese in più di prima.

La cassa integrazione, in generale
I destinatari di questi sussidi – tecnicamente, “trattamenti di integrazione salariale” – sono i lavoratori assunti con contratto di lavoro subordinato e gli apprendisti, con almeno tre mesi di anzianità, ma non i dirigenti e i lavoratori a domicilio.

Di fatto nei casi in cui viene erogata la CIG, lo Stato subentra nel pagamento del salario del lavoratore: l’integrazione è pari all’80 per cento della retribuzione delle ore non lavorate, con un massimo di 971,17 euro per stipendi fino a 2102,24 euro e fino a 1167,91 euro per quelli sopra questo limite. La CIG non può durare più di 24 mesi negli ultimi 5 anni, tra ordinaria e straordinaria, estesi a 30 mesi solo per l’edilizia e il settore lapideo: prima il limite era 36 mesi per tutti. In caso di straordinaria legata a un contratto di solidarietà (tra poco ci arriviamo), allora si può arrivare a 36 mesi.

La cassa integrazione è un fondo che in linea di massima si autosostenta tramite un contributo ordinario sotto forma di tassazione della retribuzione, e un contributo addizionale che le aziende sono tenute a versare solo quando ne usufruiscono, pari al 9 per cento delle ore non retribuite per il primo anno di integrazione, 12 per cento per il secondo e 15 per cento oltre il secondo (sempre riferiti agli ultimi 5 anni). Prima era il 4 per cento fino a 50 dipendenti e l’8 sopra i 50. Il contributo addizionale è sempre nullo in caso di CIG dovuta a un evento considerato “oggettivamente non evitabile” (per esempio disastri ambientali, interruzioni di energia elettrica, e quindi a carico della fiscalità generale).

La CIG vale come anzianità per la pensione e viene pagata al lavoratore dall’azienda, che viene poi rimborsata dall’INPS tramite conguaglio con i contributi dovuti; se l’impresa dimostra “serie e documentate difficoltà finanziarie” – cioè se non ha proprio i soldi per pagare gli stipendi – allora può chiedere che la CIG sia erogata direttamente dall’INPS.

Una novità riguarda il divieto di autorizzare l’integrazione salariale per tutte le ore lavorabili da tutti i lavoratori per tutto il periodo disponibile. In sostanza viene introdotto il divieto della cassa integrazione a zero ore per tutto il personale per tutto il periodo disponibile: non si potrà più tenere un’impresa formalmente aperta ma senza che nessun dipendente lavori mai e pesi interamente o quasi sulle casse dello Stato. Questo divieto non si applica però per la cassa integrazione straordinaria per i primi 24 mesi dall’entrata in vigore del decreto.

La CIGO, la cassa integrazione ordinaria
La Cassa Integrazione Guadagni Ordinaria vale invece per i dipendenti di tutte le imprese industriali, edili e del settore lapideo (indipendentemente dal numero dei dipendenti, mentre prima valeva solo per quelle oltre i 15), che siano sospesi dal lavoro o abbiano un orario ridotto per:

– situazioni aziendali dovute a eventi transitori e non imputabili all’impresa o ai dipendenti, incluse le intemperie stagionali (un caso tipico: la cassa integrazione per brutto tempo nel settore dell’edilizia);

– situazioni temporanee di mercato.

Sparisce “l’integrazione salariale per contrazione o sospensione dell’attività produttiva”, cioè in particolare se l’azienda chiude. L’erogazione può durare al massimo 52 settimane (concesse a pacchetti da 13 settimane alla volta) negli ultimi 2 anni, e comunque non oltre un terzo delle ore complessivamente lavorate nell’unità produttiva nell’ultimo biennio.

Il contributo ordinario, pagato ogni mese sotto forma di tassazione a prescindere dall’utilizzo o meno della CIGO, è così individuato:

– per le imprese industriali e per impiegati e dirigenti dei settori edile e lapideo, 1,7 per cento della retribuzione dei lavoratori (prima era 1,9) fino a 50 dipendenti, 2 per cento sopra i 50 (prima era 2,2);

– per gli operai delle imprese edili, 4,7 per cento della retribuzione dei lavoratori (prima era 5,2) e 3,3 per cento per il settore lapideo (prima era 3,7).

Il numero dei dipendenti non è calcolato al momento della domanda, ma sulla base della media dell’anno solare precedente. Vengono mantenuti i tempi e i modi di consultazione sindacale in caso di richiesta di CIGO, ma il criterio di scelta dei dipendenti per cui viene chiesta non è più oggetto di confronto o informativa. La domanda viene inoltrata all’INPS in via telematica, entro 15 giorni dalla sospensione o riduzione dell’attività lavorativa: in caso di ritardo l’azienda deve comunque pagare il lavoratore, ma l’INPS rimborsa solo fino a una settimana precedente la domanda.

La CIGS, la cassa integrazione straordinaria
La Cassa Integrazione Guadagni Straordinaria è ammessa:

– per imprese di industria e edilizia, imprese artigiane, mensa e ristorazione, servizi di pulizia, servizio ferroviario, prodotti agricoli e vigilanza, con organico medio oltre i 15 dipendenti (riferito al semestre precedente la domanda di sussidio);

– per imprese di commercio e logistica, agenzie di viaggi e operatori turistici, con organico medio oltre i 50 dipendenti;

– per imprese del trasporto aereo e gestione aeroportuale, per partiti e movimenti politici, per i giornalisti (questi ultimi in forza di una precedente norma che il decreto non abolisce), a prescindere dal numero dei dipendenti.

Per finanziare la CIGS, tutti le imprese e i lavoratori interessati dal provvedimento pagano ogni mese un contributo ordinario, pari allo 0,9 per cento della retribuzione, di cui 0,6 a carico dell’impresa e 0,3 a carico del lavoratore.

Si può chiedere la CIGS in caso di riorganizzazione aziendale (che includa un piano di interventi chiaro, con indicazione degli investimenti e dei cambiamenti e volto al mantenimento occupazionale), crisi aziendale (a esclusione, dal 1 gennaio 2016, dei casi di cessazione dell’attività produttiva dell’azienda o di un suo ramo: se l’azienda chiude, si passa nel campo degli ammortizzatori per chi non ha più lavoro) in cui sia comunque indicato il piano di risanamento, gli interventi correttivi e gli obiettivi per mantenere l’attività aziendale e salvaguardare l’occupazione, o contratto di solidarietà.

Sono stanziati tuttavia 50 milioni di euro l’anno di CIGS per i prossimi 3 anni anche per le imprese che chiudono ma che hanno “concrete prospettive di rapida cessione dell’azienda e di un conseguente riassorbimento occupazionale”.

I piani di intervento o risanamento sono esaminati presso i competenti uffici della Regione interessata, insieme con i rappresentanti di impresa e lavoratori, e entro 7 giorni dal termine dell’esame l’impresa presenta la domanda di CIGS: trascorsi 30 giorni l’impresa ha diritto all’integrazione salariale straordinaria.

La CIGS può durare fino a 24 mesi negli ultimi 5 anni per riorganizzazione aziendale, fino a 12 mesi per crisi aziendale, fino a 36 mesi se la causale è il contratto di solidarietà.

Contratti di solidarietà
Il contratto di solidarietà è un contratto collettivo aziendale in cui si stabilisce una riduzione dell’orario di lavoro al fine di evitare la riduzione del numero di lavoratori: lavorare meno – venendo pagati meno – per lavorare tutti. La riduzione media oraria non può essere superiore al 60 per cento per i lavoratori interessati, e al 70 per cento per il singolo lavoratore.

E chi non ha diritto al alcun tipo di CIG?
Per tutti i settori non interessati a CIGO e CIGS, le organizzazioni sindacali e imprenditoriali più rappresentative a livello nazionale devono stipulare appositi “fondi di solidarietà”, che di fatto sostituiscono gli istituti di integrazione salariale, per tutte le imprese con più di 5 dipendenti (erano già presenti per alcuni settori, ora sono obbligatori per tutti), scegliendo criteri e modalità contributive, sulla falsa riga di quelli della cassa integrazione.

Con le nuove norme sparisce la Cassa Integrazione in deroga, che era in pratica l’integrazione salariale per tutti quelli che non rientravano nella CIGO o nella CIGS o che avevano raggiunto la durata massima di utilizzo: una scappatoia che era stata negli anni molto criticata – veniva pagata dallo Stato ma decisa dalle regioni – e aveva problemi di finanziamento (era infatti totalmente a carico della fiscalità generale, a differenza delle altre, e quindi di anno in anno veniva dimensionata in maniera differente nelle varie manovre fiscali).

Infine, con questo decreto diventa strutturale il finanziamento per gli ammortizzatori sociali a favore di chi ha perso il lavoro (NASpI e ASDI) e per le spese relative ai congedi per i genitori che lavorano, che nei decreti varati nei mesi scorsi erano istituiti in via sperimentale e con risorse limitate.

Fonte: Il Post

Quel Maggiolino che farà crollare l'Europa


Di Marco Cedolin

Ho viaggiato per almeno 20 anni su una mezza dozzina di modelli Volkswagen, fino a quando un po' di anni fa dopo avere perso la mia fonte di reddito ho dovuto accontentarmi di una vecchia Jeep ormai prossima al suo ventesimo compleanno. Solo per questo, grazie al fatto di essere caduto in miseria, ho potuto salvarmi dall'onta di possedere una super macchina inquinante di quelle che hanno contribuito a far morire nel mondo solo l'anno scorso 8 milioni di persone, per avere respirato aria malsana. Naturalmente non solo dai tubi di scappamento delle auto Volswagen, ma anche da quello delle BMW, delle Fiat, delle Mazda, delle Toyota, delle Chrysler, delle Ford, delle Renault, delle Daewoo, delle Ferrari, delle Peugeot e di molte altre. Naturalmente non solamente dai tubi di scappamento delle automobili, delle moto, dei furgoni, dei TIR e degli autobus, ma anche dai camini degli inceneritori di rifiuti, delle acciaierie, dei cementifici, delle centrali a carbone e di qualsiasi processo industriale inquinante contribuisca al mito della crescita e dello sviluppo..... 

Senza dimenticare i camini delle nostre case, dove "è piacevole" stare in camicia anche durante l'inverno, mentre fuori nevica e fa freddo.

Ma non divaghiamo e torniamo alla Volkswagen e al pericolo che ho scampato. Dopo essere stata messa sotto accusa per avere "barato" sui test antinquinamento delle proprie auto diesel negli Stati Uniti, l'azienda tedesca sembra essere entrata in una sorta di "tempesta perfetta" dalla quale ben che vada uscirà con tutte le ossa rotte, magari pronta per essere acquistata proprio da qualche grande industria automobilistica statunitense.

Dopo avere perso il suo amministratore delegato Martin Winterkorn (andato in pensione con una buonuscita milionaria) il colosso di Wolfsburg si sta apprestando a richiamare nei concessionari circa 11 milioni di autovetture e veicoli commerciali, per sostituire il software che avrebbe ingannato l'America. Con un costo stimato di 6,5 miliardi di dollari che secondo gli esperti potrebbe lievitare fino a 20 miliardi nel caso l'azienda decida di fare un "buon lavoro". Ai quali si aggiungeranno le multe USA per la truffa, attualmente stimate in circa 18 milardi di dollari ed i costi del crollo del titolo in borsa che a breve verrà eliminato dal Dow Jones Sustainability Index che raggruppa le aziende attente alla sostenibilità. Unitamente al costo (difficilmente quantificabile) della distruzione di un marchio fra i più conosciuti ed apprezzati nel mondo ed alle miriade di class action che probabilmente verranno istruite contro Volkswagen nei prossimi mesi.

Insomma una vera e propria ecatombe per la casa del Maggiolino, un disastro così grave da preoccupare perfino Bankitalia che durante un'audizione al Parlamento è arrivata a dichiarare per bocca del vicedirettore generale Luigi Federico Signorini che il "dieselgate" potrebbe costituire un pericolo per la ripresa dell'intera Europa, ammesso che qualcuno creda ancora nelle possibilità di ripresa europee come Signorini sembra fare.
Da un lato rivaluto positivamente il mio essere caduto in miseria, comprendendo di averla scampata bella, dall'altro da inguaribile complottista non riesco a fare a meno di domandarmi come mai questo scandalo sia esploso proprio adesso? Come mai proprio contro la Volswagen e negli stati Uniti? Probabilmente nei prossimi mesi inizierannoa fiorire le risposte, ma sicuramente non dai tubi di scappamento delle auto, da lì trucchi o non trucchi esce sempre solamente la stessa cosa.

Fonte: IL CORROSIVO di marco cedolin

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La Russia è tornata grande grazie agli errori degli altri

I guai combinati da Bush e il disastroso disimpegno di Obama hanno dato modo a Mosca di diventare un player globale. Che ora dà le carte

Stefano Grazioli

John Moore / Getty Images News

Non è ancora chiaro ciò che accadrà sul tavolo siriano e su quello ucraino, ma dopo l’incontro tra Vladimir Putin e Barack Obama a New York è evidente che le carte in mano al presidente russo non sono quelle peggiori. Il Cremlino e la Casa Bianca viaggiano su binari diversi che difficilmente potranno convergere, ma se qualcosa si muoverà (in positivo) tra Damasco e Kiev è solo perché la Russia è tornata ad avere un ruolo sulla scacchiera internazionale. Non è quella potenza regionale che gli Stati Uniti avevano degradato con la fine della Guerra Fredda.

Dopo il disastroso decennio in cui Boris Eltsin aveva faticato a tenere insieme il paese più vasto del mondo, tra due colpi di stato (1991 e 1993), due guerre in Cecenia (1994-96 e 1999-200) e il default economico (1998) che aveva sancito il fallimento della transizione post-comunista pilotata in maniera disastrosa, Vladimir Putin ha ricondotto Mosca al ruolo di global player.

In quindici anni la Russia è passata dai saccheggi degli oligarchi e dal rischio disintegrazione a quello di attore indispensabile nel quadro geopolitico per la sicurezza tra Europa, Asia e Medio Oriente. Se il Cremlino è, come gli altri, parte delle crisi, è chiaro che un compromesso senza la Russia non è possibile. Siria e Ucraina sono l’esempio.

In ultima analisi, sono due i fattori cui si deve il ritorno in grande stile della Russia: da un lato la strategia poco soft adottata da Putin per affrontare i duelli che, di volta in volta, si è trovato di fronte negli ultimi 15 anni, sia in casa propria e fuori. Dall’altro lato, la strategia degli Stati Uniti, che ha lasciato poca scelta all’avversario: da una parte è stata diretta a ridimensionare ulteriormente l’area di influenza russa nel giardino di casa di Mosca, e dall’altra parte si è rivelata foriera di guai ad ampio raggio, perché fallimentare di per sé. In Ucraina, per capirsi, il cambio di regime supportato da Usa ed Europa ha scatenato la prevedibile reazione di Mosca. E in Siria l’Occidente che in quasi cinque anni non ha cavato un ragno dal buco si trova ora a dover dialogare con Russia, Iran (che sostengono a spada tratta Bashar al Assad), e perfino con il presidente siriano, almeno sul breve periodo.

Il discorso di Putin alle Nazioni Unite è stato, da questo punto di vista, simbolico. Ha ricordato che, in questi anni, chi non ha imparato le lezioni del passato è destinato inevitabilmente a combinare danni peggiori. Affermando come l’Unione Sovietica avesse sbagliato, ai suoi tempi, a tentare di spingere su base ideologica altri Paesi su strade sulle quali il mito del comunismo si è poi schiantato, ha fatto notare che, in seguito, anche altri hanno commesso lo stesso errore, stavolta però tentando di esportare modelli che si sono rivelati inadatti. Ad esempio, le ultime cosiddette rivoluzioni democratiche dal Medio Oriente all’Africa.

L’esportazione della democrazia secondo George W. Bush non è mai andata giù alla Russia che, dopo aver teso la mano all’America post-11 settembre nella lotta al terrorismo internazionale, ha subito sia l’allargamento della Nato ad est sia le rivoluzioni colorate in Georgia (2003), Ucraina (2004) e Kirghizistan (2005). In più ha assistito alle guerre in Afghanistan, Iraq e Libia: tutti confltti che, più che rinnovare in maniera costruttiva hanno frantumato e destabilizzato le aree interessate.

Anche le risposte di Putin non sono mai state ortodosse (guerra in Georgia nel 2008 e in Ucraina nel 2014), ma, in fondo, non c’era altro da aspettarsi. La sua Russia – in realtà molto meno di quel rebus avvolto in un mistero che sta dentro a un enigma, come fu definita da Winston Churchill – è stata ed è, da questo punto di vista, molto prevedibile. Il pragmatismo del Cremlino, soprattutto di fronte alla confusione occidentale, costringe ora l’Occidente a una riformulazione di piani in parte comunque già falliti.

Emblematico il caso dell’Afghanistan, la prima puntata della guerra al terrore lanciata dagli Usa. Mentre a New York si sono incontrati Putin e Obama, a Kunduz sono rientrati in pompa magna i Talebani, due anni dopo che il capoluogo del nord era stato abbandonato dal contingente di pace tedesco della Bundeswehr. Lo Stato Islamico, poi, non sarebbe nato né cresciuto a dismisura senza la guerra in Iraq e il caos sorto di conseguenza, e lo stesso dicasi per gli effetti collaterali in Libia.

In tutti i casi (in qualcuno di questi era in buona compagnia, come la Germania nell’intervento in Iraq del 2003), la Russia aveva avvertito in anticipo quali conseguenze catastrofiche avrebbero potuto avere azioni unilaterali di quel genere. E adesso Putin fa un figurone: ha il gioco facile, dopo che, ancora una volta, si è dimostrato che qualcuno ha fatto i calcoli sbagliati. La forza dell’uno sta anche sempre nella debolezza e negli errori dell’altro.

Fonte: Linkiesta.it

Raid aerei e forze speciali della Nato a Kunduz contro l’avanzata dei taliban

Alcuni uomini delle forze di sicurezza afgane durante i combattimenti contro i taliban vicino all’aeroporto di Kunduz nel nordest dell’Afghanistan, il 29 settembre. (Nasir Waqif, Afp)

Nonostante il sostegno militare della Nato, l’esercito afgano non riesce ad avere la meglio contro i taliban a Kunduz, nel nordest del paese. Due giorni dopo l’avvio della loro offensiva, i fondamentalisti islamici si sono avvicinati alla zona strategica dell’aeroporto dove sono in corso da ieri violenti combattimenti. La città capoluogo della provincia omonima, con i suoi 300mila abitanti, è ormai controllata in gran parte dai taliban che circolano per le strade a bordo di auto della polizia e mezzi della Croce rossa.
I bombardamenti statunitensi. La controffensiva delle forze di sicurezza governative è cominciata martedì proprio all’aeroporto, a meno di dieci chilometri dal centro cittadino. L’esercito statunitense, che già bombarda regolarmente le postazioni taliban nell’est del paese, ha condotto almeno due raid nella zona nel tentativo di contenere l’avanzata delle milizie fondamentaliste. Secondo i servizi segreti afgani, nei bombardamenti sarebbero morti Malawi Salam, leader dei taliban per la provincia di Kunduz, il suo vice e altri quattro guerriglieri. L’esercito afgano, comunque, è in attesa di rinforzi aggiuntivi per intensificare il contrattacco.

I corpi speciali della Nato. Le forze del governo non possono più contare sul sostegno delle truppe dell’Alleanza atlantica sul terreno, perché le unità combattenti del contingente Nato-Isaf si sono ritirate in dicembre al termine della missione internazionale. La Nato ha però mandato in appoggio delle forze speciali. Non si conosce il numero degli uomini coinvolti, né il loro ruolo preciso (se si tratta cioè di consiglieri, addestratori o unità da combattimento) però alcune fonti militari occidentali hanno riferito all’Afp che si tratta di truppe scelte statunitensi, britanniche e tedesche. Un portavoce della coalizione sentito dalla Reuters ha lasciato intendere che i corpi speciali sono coinvolte nei combattimenti.

Le vittime e gli scudi umani. Il presidente Ashraf Ghani ha riferito che i taliban stanno usando gli abitanti come “scudi umani”. I bilanci delle vittime sono confusi, ma il ministero della sanità di Kabul ha confermato finora almeno trenta morti e 200 feriti.

L’importanza di Kunduz. È la quinta città del paese ed è uno degli snodi stradali e commerciali più importanti del nord. Kunduz era stata l’ultima roccaforte dei taliban a capitolare dopo l’invasione delle truppe multinazionali, alla fine di novembre del 2001, ed è il primo capoluogo afgano a cadere nelle mani dei fondamentalisti islamici nella loro nuova offensiva, seguita alla morte del leader storico mullah Omar. La sua occupazione è destinata ad alimentare il dibattito sul ritiro delle truppe statunitensi, che dovrebbe essere completato entro la fine del 2016. “Abbiamo fiducia nella capacità delle forze afgane di sconfiggere i taliban a Kunduz”, si è limitato per ora a dichiarare il portavoce del Pentagono, Peter Cook.


La crisi politica interna. Alcuni deputati afgani hanno chiesto oggi le dimissioni del presidente Ghani, solo un anno dopo la nomina, per la gestione “vergognosa” dei combattimenti a Kunduz da parte del suo governo. “È davvero vergognoso il modo in cui hanno gestito la situazione”, ha detto durante la seduta odierna del parlamento Iqbal Safi, un deputato della provincia di Kapisa. Altri parlamentari hanno ribadito le stesse accuse nel corso di una riunione molto caotica che ha rischiato di trasformarsi più volte in rissa. Uno dei portavoce presidenziali, Sayed Zafar Hashemi, ha risposto che i parlamentari hanno tutto il diritto di protestare ma “per il presidente le priorità sono proteggere i cittadini a Kunduz e ripulire la zona dai terroristi”.

Fonte: Internazionale

Le notizie di oggi

Quello che dovete sapere per questa giornata

La banda militare si fa fotografare tra il Monumento agli eroi del popolo e Piazza Tiananmen prima dei festeggiamenti per il 66esimo anniversario del Paese. Il 30 settembre 2015. Damir Sagolj

Burkina Faso: il governo di transizione ha annunciato che l'esercito del Paese ha preso possesso delle caserme delle Guardie presidenziali (Rsp), accusate di non aver deposto le armi dopo il fallimento del colpo di stato da loro effettuato sotto il comando del generale Gilbert Diendéré il 17 settembre scorso. L'Rsp è composto da un numero di soldati imprecisato, che oscilla tra i mille a 3mila uomini, ed è la forza armata meglio addestrata del Burkina Faso. L'aeroporto internazionale della capitale Ouagadougou è stato chiuso temporaneamente ed è stato vietato ai residenti di uscire dalle proprie abitazioni. Diendéré ha chiesto alle sue truppe di arrendersi “per evitare un bagno di sangue”. Le prime elezioni democratiche del Paese sono previste per il prossimo 11 ottobre, ma al momento non è chiaro se l'attuale situazione politica ne permetterà lo svolgimento regolare.

- India: un cinquantenne è stato ucciso da una folla con l'accusa di aver consumato carne bovina all'interno della sua casa a Dadri, una città nell'Uttar Pradesh, a circa 55 chilometri dalla capitale Nuova Delhi. Mohammad Akhlaq è stato colpito con pietre e calci intorno alle 22 ora locale del 28 settembre, dopo che l'accusa gli era stata rivolta in un tempio della zona. Anche il figlio 22enne di Akhlaq è rimasto gravemente ferito negli scontri. Sei persone sono state arrestate in connessione agli avvenimenti. Il consumo di carne bovina è vietato in molti stati indiani ed è una questione molto delicata visto che l'animale è considerato sacro dagli hindù, che rappresentano circa l'80 per cento della popolazione del Paese che conta 1,2 miliardi di persone.

- Repubblica centrafricana: è entrato in vigore un coprifuoco nella capitale Bangui dopo la violenza degli ultimi giorni che ha causato la morte di almeno 37 persone. Gli scontri tra gruppi di cristiani e musulmani si sono inaspriti al punto da costringere quasi 30mila persone alla fuga, secondo quanto dichiarato dalle Nazioni Unite. La presidentessa Catherine Samba-Panza ha abbandonato l'Assemblea generale dell'Onu per tornare nella Repubblica centrafricana a porre fine alle violenze. I caschi blu francesi avrebbero aperto il fuoco contro alcuni miliziani nella giornata di martedì. Le elezioni previste per il 18 ottobre verrano quasi sicuramente rimandate a data da stabilire.

- Palestina: la bandiera palestinese verrà alzata davanti alla sede delle Nazioni Unite per la prima volta nella storia grazie al voto favorevole dell'Assemblea generale all'inizio del mese. Il presidente Mahmoud Abbas ha definito questo come “un giorno molto emozionante e di orgoglio” per il suo popolo. “Con questo gesto pacifico ricorderemo a tutti che la giustizia e l'indipendenza sono infine possibili,” ha aggiunto.

- Giappone: il primo ministro Shinzo Abe ha annunciato che il Paese non accetterà rifugiati prima di aver migliorato la qualità della vita dei propri abitanti, ma concederà circa 720 milioni di euro in aiuti al popolo siriano e a quello iracheno. Inoltre, il Giappone sarebbe intenzionato a investire altri 668 milioni di euro negli sforzi per riportare la pace in Medio Oriente. Il Paese ha accettato soltanto 11 delle 5mila richieste di asilo che ha ricevuto lo scorso anno.

- Panama: il tasso di omicidi nel Paese è sceso del 21,4 per cento nei primi nove mesi del 2015 rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Il merito di questo successo è del programma che offre ai membri delle gang amnistia e formazione professionale per allontanarli da uno stile di vita criminale, secondo il ministero della Sicurezza. Le gang panamensi controllano il traffico della droga e sono considerate responsabili per la maggior parte degli omicidi nel Paese.

- Siria: il presidente statunitense Barack Obama ha detto che la sconfitta dell'Isis in Siria è possibile solo se l'attuale presidente Bashar al-Assad si farà da parte per permettere a un nuovo governo di unire il popolo siriano nella lotta contro l'estremismo. Al momento la Siria è martoriata da una guerra civile che dura da quattro anni e che ha indebolito il Paese al punto da permettere allo Stato Islamico di guadagnare sempre più potere e terreno. Obama ha annunciato che utilizzerà ogni mezzo possibile per combattere il gruppo estremista, ma è necessaria una maggiore cooperazione tra i due governi.

Fonte: The Post Internazionale

martedì 29 settembre 2015

Il cooperante italiano ucciso dall’ISIS

Uomini armati a Dacca hanno sparato a Cesare Tavella; c'è una rivendicazione dell'ISIS giudicata affidabile, il governo del Bangladesh non si sbilancia

Cesare Tavella, in una foto del 2011 in Cina (ANSA/WWW.COUCHSURFING.COM)

Il cooperante italiano Cesare Tavella è stato ucciso a Dacca, in Bangladesh, da alcuni uomini armati. La morte è stata confermata dal ministero degli Esteri italiano mentre Rita Katz, direttrice di SITE Institute – autorevole società statunitense che si occupa di monitorare le attività dei jihadisti online, considerata affidabile dai principali giornali internazionali – ha scritto che l’uccisione è stata rivendicata dall’ISIS. Secondo Katz, lo Stato Islamico ha ucciso Tavella in quanto «occidentale». Il ministro dell’Interno del Bangladesh, Asaduzzaman Khan Kamal, è stato invece più cauto spiegando in una conferenza stampa che si «tratta di un episodio isolato» e che non sono state trovate «prove di un collegamento dell’Isis con l’assassinio a Dacca del cooperante italiano Cesare Tavella».


Cesare Tavella aveva 51 anni, era nato a Milano e residente a Casola Valsenio, in Emilia Romagna; era un veterinario. Secondo quanto scrivono oggi i giornali, lavorava per Icco Cooperation, un’organizzazione non governativa olandese con uffici in Bangladesh: si occupava in particolare di un progetto legato all’agricoltura e all’alimentazione.

Nel pomeriggio di lunedì 28 settembre la polizia locale, attraverso il suo portavoce, aveva spiegato che un uomo era stato ucciso dopo una sparatoria nella zona di Gulshan, il quartiere diplomatico di Dacca, che era vestito da jogging e che gli aggressori erano fuggiti a bordo di una motocicletta. Il portavoce della polizia aveva precisato che si era trattato di un «attacco premeditato» perché Tavella non aveva con sé soldi e altri effetti personali. Dopo essere stato colpito da tre colpi, Tavella era stato portato agli “United Hospitals” e – sempre secondo le notizie diffuse dai giornali che riportano fonti ospedaliere – quando è arrivato era già morto.

Il centro studi Site ha anche riportato il testo della rivendicazione dell’Isis, in cui si dice: «In un’operazione speciale dei soldati del Califfato in Bangladesh, una pattuglia di sicurezza ha preso di mira lo spregevole crociato Cesare Tavella dopo averlo seguito in una strada di Dacca, dove gli è stato sparato a morte con armi silenziate, sia lode a Dio. Ai membri della coalizione crociata diciamo: non sarete sicuri nelle terre dei musulmani. È solo la prima goccia di pioggia».

L’ambasciata italiana ha informato i familiari di Tavella e sta seguendo il caso in contatto con le autorità locali e gli inquirenti per raccogliere tutte le informazioni utili: resta da chiarire per esempio se Tavella sia stato ucciso in quanto cooperante di una organizzazione non governativa occidentale o per altri motivi.

Fonte: Il Post

A morte per la libertà, il mondo invoca clemenza per il giovane Alì

Era sceso in piazza durante le primavere arabe, per protestare contro il regime d’Arabia. Ora, a 21 anni, lo aspetta la decapitazione. Appelli di Stati e organizzazioni per la sospensione della pena

Di Arianna Pescini


Lo schema, purtroppo, è sempre lo stesso: una condanna ingiusta, spropositata, in un Paese dove i diritti umani e civili spesso sono dei miraggi, a cui segue giustamente lo sdegno e l’impegno di associazioni come Amnesty International, ma anche quello delle nazioni occidentali nell’imbarazzante condizione di partner commerciali del Paese stesso. Ovvio che ne scaturisca una protesta formale, ma nulla più. Questa volta è l’Arabia Saudita, a condannare a morte un manifestante, Alì Mohammed al-Nimr, con la sola colpa di essere sceso in piazza durante le primavere arabe; ma lo scempio è persino peggiore, sia perché il ragazzo all’epoca non aveva ancora 18 anni (ora ne ha 21), sia perché la terribile decisione della corte saudita arriva proprio mentre un ambasciatore del Paese è stato nominato presidente del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite. Scherzo del destino, macabra fatalità. Accolta però con favore dagli Stati Uniti: «Siamo stretti alleati su molti fronti – dicono dal Dipartimento di Stato americano – parleremo di diritti umani, sarà un’occasione affinché l’Arabia si guardi intorno e rifletta sulla propria situazione».

Una pena atroce Intanto, dopo tre anni di carcere, per Alì sono state ordinate la decapitazione e la crocifissione fino ad avvenuta putrefazione del corpo, un orrore che proprio Onu, Amnesty International e Reprieve, tra gli altri, tentano di fermare con appelli, interrogazioni e biasimi ufficiali: il ragazzo non ha rubato, non ha ucciso, è solo parente di un oppositore sciita del regime in carica. Nel 2012, quando i giovani musulmani di mezzo mondo scendevano in piazza pieni di speranze chiedendo giustizia e libertà, al-Nimr si unì ad un gruppo, appena diciassettenne, nella città saudita di Qatif, nell’est del Paese. Da lì l’arresto e il carcere duro di Dammam, che lo ha “accolto” con torture, privazioni, violazioni dei diritti più elementari. In attesa di una condanna che ora Francia e Gran Bretagna ripudiano a gran voce, forse troppo tardi, forse inutilmente.

I diritti calpestati Formalmente, il giudice che confermò l’arresto, tre anni fa, aveva dichiarato che il giovane “ha incoraggiato le proteste pro-democrazia usando un telefono cellulare”. La corte araba nel 2014 ha scritto invece nella sentenza che Alì “è condannato a morte per aver preso parte alle dimostrazioni contro il governo e per aver attaccato le forze dell’ordine, per rapina a mano armata e possesso di una mitragliatrice”. Inutile l’appello dei suoi legali, che il mese scorso sono ricorsi alla Corte Suprema dell’Arabia Saudita. I rappresentanti Onu per i diritti umani hanno chiesto al Paese arabo di annullare la condanna, nonché la revisione del processo: «Il diritto internazionale – hanno dichiarato – prevede che la condanna a morte sia comminata solo dopo un processo equo e giusto, che rispetti severissimi requisiti. In caso contrario, si parla di esecuzione arbitraria». Il Presidente del comitato delle Nazioni Unite per i diritti del fanciullo, Benyam Mezmur, ha specificato che «è inaccettabile, e incompatibile con gli obblighi internazionali sottoscritti anche dall’Arabia Saudita, imporre la pena di morte a qualcuno che era solo un ragazzino, minorenne, all’epoca dei fatti, e nei confronti del quale sono partite accuse di tortura». Il mondo trattiene in fiato, in attesa di sapere se questi appelli cadranno o no nel vuoto.

Petrolio e morte L’Arabia Saudita, regno mondiale indiscusso del petrolio e per questo in affari con le potenze del pianeta, è anche tra le Nazioni che uccidono di più: 133 condanne alla pena capitale dall’inizio dell’anno, un’esecuzione ogni due giorni.

Fonte: Diritto di critica

Merkel crolla nei consensi, ma ora punta all’Onu

Patricia Szarvas: «La Cancelliera non si ricandiderà nel 2017. Sui profughi ha fatto le scelte giuste, ma ora la gente inizia ad avere paura»

Silvia Favasuli

Foto Alexandra Beier/Getty Images

Quando ha annunciato a fine agosto che nessun siriano sarebbe più stato fermato al confine, il consenso dei tedeschi verso Angela Merkel – già alto - ha raggiunto il picco. Ora, poco più di un mese dopo si attesta su ben altre posizioni. È come se l’onda emotiva e solidale di fine agosto che ha spinto molti tedeschi a soccorrere le famiglie di rifugiati in arrivo da Est fosse scemata e si fosse trasformata in paura.

La Cancelliera, entrata per otto volte nella classifica delle donne più potenti di Forbes, si è confrontata nel week-end con le statistiche pubblicate da diverse testate, da Der Spiegel, al magazine Stern, all’emittente privata Rtl: tutte le hanno rivelato una significativa perdita di consenso dovuta proprio alle scelte fatte in materia di immigrazione. Pochi dati su tutti: secondo Der Spiegel la popolarità di Frau Merkel è calata del 5% rispetto a tre mesi fa, arrivando al 63% nella classifica dei politici più amati del Paese, quarto posto. In cima non c’è più lei, ma il ministro delle Finanze Frank-Walter Steinmeier, con un bel 67 per cento. Nella stessa classifica l’alleato bavarese della Csu, Horst Seehofer, che fin da subito ha giudicato «errata» la scelta del cancelliere sui rifugiati, ha avuto un balzo in avanti di sei punti, arrivando al 44 per cento.

Possibile che la Cancelliera non abbia fatto bene i conti con il suo elettorato? Possibile che non abbia immaginato che gli altri leader europei a un certo punto avrebbero preso le distanze, di fronte alle statistiche che vedono in aumento il numero di richiedenti asilo in arrivo? «È probabile che molti più rifugiati attraverseranno questi Paesi, non meno. Soprattutto ora che si sentono invitati in Europa», ha commentato l’alleato e amico polacco Donald Tusk, presidente del Consiglio Europeo, al termine di un viaggio tra Turchia, Giordania ed Egitto.

Perché la Cancelliera ha scelto di aprire le porte ai siriani?

Abbiamo fatto tutte queste domande a Patricia Szarvas, giornalista tedesca che nel libro Ricca Germania, Poveri Tedeschi - Il lato oscuro del benessere (Egea, 2014) ha analizzato la situazione economica del regno di Merkel, luci e soprattutto ombre. «Al nostro Paese servirebbero almeno 500.000 immigrati all’anno», ha detto a Linkiesta. «E probabilmente Merkel ha già deciso che non si ricandiderà nel 2017».

Patriacia Szarvas, pensa che ci siano state ragioni economiche forti dietro la scelta di Angela Merkel di sospendere gli Accordi di Dublino e di accogliere i rifugiati in arrivo da Est?
Vedo tre ragioni principali. La prima, più ovvia, è che la maggior parte di questi richiedenti asilo arriva da una zona che è in guerra dal 2011, la Siria. Sono persone che emigrano per salvarsi la vita. Ci sono però anche una ragione demografica e una economica. Più della metà di chi viene dalla Siria ha 25 anni circa o meno. Secondo una ricerca di Bertelsmann Studio, per mantenere lo stesso livello di forza lavoro attuali, la Germania avrebbe bisogno da qui al 2050 di 500.000 immigrati all’anno. Nei prossimi anni, quando anche i baby boomers andranno in pensione, si calcola che il numero di lavoratori tedeschi scenderà sotto il 50 per cento. Cioè avremo un dimezzamento della forza lavoro. Questo accade in un Paese in cui il numero medio di figli per coppia è di 1,2. Per la Germania è importante mantenere alti i livelli di forza lavoro per poter garantire il pagamento delle pensioni attraverso i contributi versati da chi ancora lavora. Ma c’è anche una ragione strettamente economica. Occorre tenere costante anche la domanda interna. Se non ci sono consumatori, il Pil soffre. Il problema però è che questa immigrazione deve essere controllata e qualificata. Al momento non abbiamo ancora infrastrutture adatte ad accogliere un numero così alto di persone contemporaneamente. Bisogna selezionare un flusso consistente, capire chi è davvero rifugiato e chi no, proteggerci da eventuali infiltrazioni terroristiche. Servono strutture per insegnare a tutti loro la lingua tedesca. Inoltre, occorrono persone che vogliono arrivare e lavorare, imparare la lingua, integrarsi, rispettare le regole. Persone che vogliono partecipare al paese e non solo prendere.

Credi che sia proprio quest’ultima la ragione per cui Merkel abbia deciso di accogliere questa ondata di profughi, ora che, scrivono diversi giornali, sta emigrando la fascia medio-alta della popolazione siriana, la borghesia cittadina, laureata e benestante?

Questo non saprei dirlo. Non abbiamo bisogno solo di lauree. Alla Germania servono anche apprendisti e tecnici che possano lavorare nell’industria tedesca.

Abbiamo visto i tedeschi accogliere con entusiasmo la scelta di Merkel a fine agosto. Perché ora questo calo di popolarità?

Il popolo sta iniziando a pensare: quanto ci costerà tutto questo? Siamo un Paese dove c’è povertà interna crescente (quella che Patricia Szarvas ha rivelato bene nel suo libro, nonostante la Germania sia visto da tutti come un paese economicamente forte e ricco, ndr), e che sta ancora soffrendo gli effetti della riunificazione tedesca. Le persone povere che ricevono 450 euro al mese dallo Stato si arrabbiano quando sentono che ai rifugiati ne vengono date 670. Per me che vivo e lavoro a Zurigo è facile avere una visione di lungo termine e giudicare alla luce delle ragioni demografiche ed economiche. Ma chi sta in Germania vede tutt’altra scena. C’è anche paura di una islamizzazione della società e della cultura tedesca. Molti turchi arrivati in Germania dopo la Seconda guerra mondiale non si sono ancora davvero integrati. I mariti lavorano e imparano il tedesco, le donne spesso restano a casa, fanno figli - che è positivo per la demografia - ma molte di loro dopo molti anni conoscono ancora appena poche parole di tedesco, indossano veli e niqab. C’è il timore di una religiosità militante. Ed è una discussione aperta in Germania: “noi, in nome di un senso di umanità, accogliamo e aiutiamo, ma poi che ne è della mia voglia di vivere libero nel mio Paese se l’immigrato mi guarda male quando sono vestito bene e sfoggio un orologio di lusso?”, si chiede le gente. Gli stranieri in Germania sono il 9% della popolazione, sopra la media europea.

Cosa dovrebbe fare Angela Merkel di fronte a queste preoccupazioni?

La Cancelliera dovrebbe raccogliere i segnali che arrivano dagli attacchi ai centri per rifugiati fatti nelle ultime settimane dai gruppi estremisti. Dovrebbe ascoltare il popolo. C’è un miscuglio di paura, povertà diffusa e anche non il sapere bene come stanno le cose. La pressione sul governo è sempre più forte in Germania e se Merkel continua in questo modo ne resterà “decapitata”. È come se non le importasse più di vincere le prossime elezioni. Ci sono pressioni dal popolo, pressioni da membri del suo governo, pressioni dagli altri leader dell’Unione Europea. In questo periodo Merkel, nella gerarchia dei politici più amati, è ai minimi di popolarità da quando è diventata cancelliera.

In effetti sono circolate voci secondo cui Merkel starebbe pensando di sostituire Ban Ki-moon al termine del mandato da Segretario generale delle Nazioni Unite. Pensi che sia per questo che non si cura molto delle reazioni dell’elettorato?
È proprio difficile capire questo, ora, dove Merkel si colloca nella scena attuale. Siamo di fronte a un problema globale, i rifugiati nel mondo sono 60 milioni. Merkel sta spingendo in Europa perché si affronti il problema alla base, dove ci sono le ragioni che muovono i richiedenti asilo. Per questo ha iniziato il dialogo con Putin, importante alleato di Assad, mentre la Francia ha iniziato a bombardare la Siria e anche Kerry si sta muovendo sulla scena diplomatica. La cancelliera cerca uno sforzo mondiale e cerca di essere presente sulla scena internazionale. Forse, sta cercando qualcuno che la appoggi, che la sostenga. Di certo, non sta dimostrando interesse a essere rieletta nel 2017.

Fonte: Linkiesta.it

Raid della Turchia in Iraq: morti 30 combattenti del Pkk


L’esercito turco la notte scorsa ha ucciso più di 30 combattenti curdi in un raid nel nord dell’Iraq, dove si sono rifugiati i militanti del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk). L’ha confermato il presidente turco, Recep Tayyip Erdoğan, in un messaggio televisivo.

L’aviazione di Ankara in questi giorni ha colpito le basi del Pkk in diverse regioni settentrionali dell’Iraq. All’inizio del mese le truppe turche hanno attraversato il confine nell’ambito di quella che il governo ha definito un’operazione “antiterrorismo”. Alla fine di luglio la Turchia ha cominciato a bombardare le postazioni del Pkk contemporaneamente all’inizio delle operazioni contro lo Stato islamico in Siria.

Il Pkk ha risposto con diversi attentati, che hanno causato la morte di decine di poliziotti e soldati. Più di 40mila persone sono morte da quando nel 1984 il Pkk ha cominciato la lotta armata contro Ankara.

Fonte: Internazionale

Le notizie di oggi

Quello che dovete sapere per questa giornata

Il presidente statunitense Barack Obama tende la mano al suo omologo russo Vladimir Putin durante il loro incontro all'Assemblea generale delle Nazioni Unite, a New York. Credit: Kevin Lamarque

Stati Uniti: la Casa Bianca ha definito “produttivo” il vertice che si è tenuto alle 18 ora newyorkese – 23 italiane – di lunedì 28 settembre tra il presidente americano Barack Obama e il suo omologo russo Vladimir Putin. I due capi di stato si sono incontrati privatamente per discutere della crisi siriana dopo che in mattinata i rispettivi discorsi davanti all’Assemblea delle Nazioni Unite non avevano mostrato la possibilità di punti in comune. Putin aveva proseguito sulla linea della legittimazione del governo siriano di Bashar al-Assad, mentre Obama aveva condannato le azioni del leader di Damasco contro il suo popolo. Durante l’incontro bilaterale, entrambi i capi di stato avrebbero mostrato apertura e disponibilità al dialogo, ma non si sarebbe giunti a un piano comune. Russia e Stati Uniti avrebbero però deciso di avviare colloqui sistematici per risolvere la situazione siriana, dopo un gelo di più di un anno tra i governi dei due Paesi.

- Bangladesh: il cooperante italiano Cesare Tavella, ucciso alle 19 locali di lunedì 28 settembre dall’Isis mentre faceva jogging nel quartiere diplomatico di Dhaka, la capitale del Bangladesh, sarebbe stato pedinato da tre uomini prima dell’agguato. L’attacco sarebbe stato, quindi, premeditato. Lo Stato islamico ha subito rivendicato su Twitter l’uccisione, definendo la vittima un “crociato”. “È stato ucciso con una pistola con il silenziatore per la volontà di Dio”, scrivono su un account gli estremisti islamici, prima di esplicitare la minaccia: “Avvisiamo i cittadini dell’alleanza crociata che non avranno nessuna sicurezza nella casa dell’Islam e che questo è solo l’inizio”. Proprio lunedì l’ufficio Esteri britannico aveva diffuso un allarme a causa della presunta minaccia terroristica nel Paese.

- Giamaica: il governo giamaicano ha chiesto al Regno Unito il pagamento di una multa che ammonterebbe a diversi miliardi di pound come risarcimento per la schiavitù imposta dalla Gran Bretagna all’isola durante l’occupazione, terminata con l’indipendenza della Giamaica nell’agosto del 1962. Il primo ministro inglese David Cameron martedì 29 settembre dovrà affrontare la questione durante la sua prima visita ufficiale al Paese caraibico. Secondo fonti del governo britannico, Cameron non sarebbe disponibile né a porgere scuse ufficiali né ad accettare il pagamento della multa. In una lettera aperta pubblicata sul quotidiano The Jamaica Observer, Sir Hilary Beckles, a capo della Caricom Reparations Commission – una commissione istituita dallo stato giamaicano per indagare sui crimini compiuti dai coloni nel Paese – ha precisato che la Giamaica non sta chiedendo alcun atto di “indecente sottomissione”, ma solo un’assunzione di responsabilità.

- Taiwan: l’isola è stata colpita nella notte tra lunedì 28 e martedì 29 settembre dal tifone Dujuan che ha provocato la morte di almeno due persone e ha lasciato 324 feriti. Sei escursionisti risultano tuttora dispersi. Le autorità di Taiwan hanno riferito che oltre 12mila persone sono state evacuate e almeno 3mila sarebbero state collocate in rifugi d’emergenza. Nella provincia meridionale cinese di Fujian, in vista dell’arrivo del tifone, sono stati cancellati più di cento voli e il servizio ferroviario è stato sospeso.

- Perù: almeno tre persone sono morte e 17 sono rimaste ferite durante gli scontri tra la polizia peruviana e i manifestanti che si erano riuniti davanti alla miniera di Las Bambas, nella regione centromeridionale di Apurimac, per protestare contro il progetto di una miniera di rame di proprietà cinese da 7,4 miliardi di dollari. Il direttore dell’ospedale della zona, Jose Soplopuco ha precisato che i mezzi di soccorso non sono potuti arrivare alla clinica di Challhuahuacho, la città più vicina al luogo degli scontri, perché la polizia ha aperto il fuoco sull’automobile che trasportava i dottori. Già sei persone sono morte dall’inizio dell’anno in Perù durante le manifestazioni organizzate dai contadini contro le miniere di proprietà estera.

- India: lunedì 28 settembre l’Agenzia spaziale indiana ha lanciato in orbita il suo primo satellite, Astrosat, permettendo all’India di diventare il primo Paese emergente a possedere un osservatorio spaziale proprio, unendosi a Stati Uniti, Russia, Giappone e Unione europea. Il lancio di Astrosat, che ha una vita di cinque anni e permetterà uno studio approfondito sui buchi neri, è avvenuto a Sriharikota, un isola nella baia del Bengala, nell’est dell’India.

Fonte: The Post Internazionale

lunedì 28 settembre 2015

È morto Pietro Ingrao

Aveva 100 anni, è stato uno storico e amato dirigente del Partito Comunista

(© CRISTIANO LARUFFA/LAPRESSE)

È morto a Roma Pietro Ingrao, storico dirigente del Partito Comunista tra i più amati dai militanti, ed ex giornalista e presidente della Camera dei Deputati. Aveva 100 anni. Le cause della morte non sono ancora state chiarite. Ingrao era nato a Lenola, in provincia di Latina, il 30 marzo 1915. Si avvicinò ai movimenti antifascisti nel 1936, e durante la Seconda guerra mondiale diventò partigiano e visse in clandestinità per circa due anni. Dopo la guerra diventò uno dei più importanti esponenti dell’ala “sinistra” del Partito Comunista Italiano. Negli anni ebbe diverse polemiche con vari politici dell’ala più moderata del PCI come Giorgio Amendola e Giorgio Napolitano.

Dal 1947 al 1957 diresse l’Unità, mentre fra il 1950 e il 1992 fu deputato del PCI. Fu anche il primo presidente della Camera del PCI: ha ricoperto la carica dal 1976 al 1979. Nel 1991 fu contrario allo scioglimento del PCI, ma scelse di rimanere dentro il nuovo Partito Democratico della Sinistra. Due anni dopo lasciò il PDS per entrare in Rifondazione Comunista, di cui ha fatto parte fino al 2008. Dal 2000 in poi ha pubblicato diversi libri di politica. Nel 2006 ha pubblicato per Einaudi la sua autobiografia Volevo la luna, mentre il suo ultimo libro Indignarsi non basta è uscito nel 2011. In occasione dei suoi 100 anni, Rainews ha diffuso un’intervista in cui Ingrao parla di quando decise di impegnarsi in politica.



Fonte: Il Post

Renzi e piano Padoan, il gioco delle 3 carte

News pensioni oggi 28 settembre: Renzi, Padoan e Damiano, quello condotto dal governo è un gioco delle tre carte che non sembra avere fine.

Di Massimo Calamuneri


Qualcuno l’ha definita vergognosa. Qualcun altro confusionaria. Qualcun altro ancora non ha esitato a coniare espressioni come gioco delle tre carte o bluff. Comunque la si guardi la condotta del governo Renzi in riferimento alla prossima riforma della previdenza appare proiettata ai limiti del verosimile. Eccezion fatta per le solite dichiarazioni di facciata, nessun esponente dell’Esecutivo si è davvero prodigato nel sottolineare quali siano le mosse in preparazione dalle parti di Palazzo Chigi. E’ come il se governo giocasse una gara a scacchi: ormai da mesi muove le pedine meno importanti, ma la certezza è che nelle retrovie stia allestendo una strategia per portare a segno uno scacco matto che nel nostro caso potrebbe essere paragonato ad una manovra a costo zero. Le ultime news sulle pensioni aggiornate ad oggi 28 settembre si rifanno così all’ennesima lettera di contestazione inviata dagli Esodati che non ritengono in alcun modo ‘soddisfacenti le risposte date dai due ministri Poletti e Padoan ai margini dell’audizione tenuta la scorsa settimana a Montecitorio’. Anche il leghista Roberto Simonetti è intervento sottolineando come si stia andando incontro ad ‘una vergogna pura e semplice’, una dichiarazione forte e decisa che nello spirito ricalca quella del leader CGIL Susanna Camusso. In apertura si è paragonata l’intera situazione ad una gara a scacchi, ma a ben pensarci Renzi e Padoan sembrano intenti a portare avanti più un gioco delle tre carte che solo Damiano tenta ‘istituzionalmente’ di contrastare.

Notizie pensioni oggi ventotto settembre: Comitato Esodati contro Renzi, Padoan e Poletti celano la propria strategia
‘I comitati degli Esodati manifestano profonda insoddisfazione per le risposte fornite dai due ministri, Poletti e Padoan con l’audizione del 24 settembre in Parlamento. Pur prendendo atto del formale impegno evidenziato dal Governo manifestano forti preoccupazioni e forte contrarietà sui tempi e sui modi con i quali intenderebbero dare soluzione alla vertenza Esodati’ ha fatto sapere la Rete del Comitato di categoria. Uno stato di ansia e timore giustificato dalle continue contraddizioni nelle quali stanno cadendo uno ad uno Renzi, Padoan e Poletti. Le ultime news sulle pensioni aggiornate ad oggi 28 settembre ruotano allora attorno alla strategia del governo, che al momento sembra voler alimentare una certa confusione. Esodati, Opzione Donna e Flessibilità sono i tre punti cardine che l’Esecutivo arriva ora a miscelare ora a confondere. Tre vertenze, tre casi da risolvere, tre carte che il governo guidato da Renzi vorrebbe mettere sul tavolo della Legge di Stabilità per trovare una soluzione. Sarà davvero così?

Riforma pensioni 2015, ultime news: Simonetti e Camusso attaccano, Legge di Stabilità carica di aspettative 
‘Governo vergognoso: 50mila esodati saranno privi di copertura reddituale per un altro anno traditi da un governo che ha bloccato l’iter della VII salvaguardia […] Renzi è collaborazionista della Fornero’ ha tuonato Roberto Simonetti della Lega Nord ribadendo un concetto fondamentale. Quando Renzi non era al governo i suoi interventi contro il dispositivo Fornero erano all’ordine dal giorno. Da quanto sta a capo dell’Esecutivo il Premier in carica sembra invece aver cambiato idea, con Padoan e UE ad esercitare un’influenza sin qui decisiva. ‘Io penso che un tema come le pensioni bisogna affrontarlo concretamente - ha sottolineato Susanna Camusso di CGIL parlando di riforma pensioni 2015 e previdenza - Non abbiamo bisogno di qualche tampone rispetto alla situazione, ma di mettere in discussione come è fatto questo modello, di mettere in discussione l’idea che l’aspettativa di vita sia l’unico criterio di riferimento’. Ci vogliono chiarezza e concretezza dunque così come chiesto anche da Cesare Damiano. Il governo non può giocare all’infinito, la Legge di Stabilità di fatto non è più così lontana.

Fonte: Blasting News Italia

Siria, la Francia: «Continueremo fino a che necessario». Renzi: «No a una Libia-bis»

François Hollande: "Abbiamo colpito i nostri obiettivi", disappunto di Vladimir Putin: "Senza Assad la regione rischia la destabilizzazione". Matteo Renzi: "Non vogliamo un'altra Libia"


Siria, la Francia inizia i bombardamenti contro l’Isis che, dice il primo ministro francese Manuel Valls, “continueranno fino a che necessario”. E’ il capo di Stato François Hollande che ieri, dall’Eliseo, annuncia che “i primi obiettivi” sono stati raggiunti. “Un campo di addestramento dello Stato Islamico è stato distrutto”. Si tratterebbe di una base di addestramento di jihadisti vicino a Deir Az Zor che sarebbe stato “totalmente annientato”.

SIRIA, LA FRANCIA INIZIA I BOMBARDAMENTI CONTRO L’ISIS - “Altri interventi”, ha continuato Hollande, “potranno trovare spazio nelle prossime settimane, se necessario”. E’ il ministro della Difesa francese, Jean Yvres Le Drian, che in un’intervista a le Monde di quasi dieci giorni fa aveva anticipato i contenuti e le basi dell’intervento contro la Siria: la base giuridica sarebbe “l’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite, relativa alla legittima difesa, secondo il quale ogni stato ha il “diritto naturale” di difendersi in caso di “aggressione armata” fino a che il Consiglio di Sicurezza Onu non abbia preso le misure necessarie per il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale. E la Francia agisce appunto contro i “centri di formazione dei combattenti stranieri che preparano non più solo chi interverrà nel Daesh o nel Medio Oriente, ma anche chi si prepara ad agire in Europa, e in particolare in Francia”.

E’ stato il presidente Hollande, prima di partire per l’Assemblea Generale, a dettagliare i numeri dell’intervento francese: “Sei aerei, di cui cinque Rafale, sono stati utilizzati per colpire obiettivi senza conseguenze sulla popolazione civile”, riporta Liberation, senza rinunciare a spiegare che la Francia si prepara a “discutere con tutti, nessuno escluso”, riguardo la convinzione che “l’avvenire della Siria non possa passare per il presidente Bashar Al Assad”. E proprio sulla questione geopolitica che è intervenuto il presidente russo Vladimir Putin – in un’intervista alla Cbs – sostenendo che l’unico modo per risolvere la crisi siriana sia, in effetti, fornire appoggio all’attuale governo perché senza Assad, “la Siria diventerebbe uno stato fallito: non c’è altra soluzione alla crisi siriana che il rinforzare le strutture di governo e attrezzarle per la lotta al terrorismo”: senza questo sostegno, argomenta il presidente russo, “vincerà l’Isis”; piuttosto diverso il parere francese con Hollande che continua a mantenere sullo stesso piano l’Isis e il presidente Assad, che ha causato “250mila morti e che è il principale responsabile di quel che viene chiamato il conflitto siriano”, mentre le truppe dello Stato Islamico commettono “atrocità senza nome”. Anche da parte italiana, comunque, non mancano le perplessità: “Bisogna evitare che si ripeta una Libia bis. La posizione italiana è sempre la stessa non facciamo blitz e strike ma collaboriamo con la coalizione internazionale”, ha detto Matteo Renzi da New York.

Copertina: Getty Images

Fonte: Giornalettismo

La vittoria dei separatisti in Catalogna

Domenica 27 settembre più di 5,5 milioni di catalani sono stati chiamati alle urne per il rinnovo del parlamento regionale.

I partiti che vogliono l’indipendenza della Catalogna – cioè la coalizione Junts pel sí (Uniti per il sì, Jps) del presidente uscente Artur Mas e Candidatura d’unitat popular (Candidatura di unità popolare, Cup) – hanno ottenuto quasi il 48 per cento dei consensi, che si è trasformato nella maggioranza assoluta dei seggi del parlamento regionale, 72 seggi su 135. L’affluenza ha superato il 77 per cento.

Il presidente della coalizione Junts pel sí (Uniti per il sì, Jps) Artus Mas festeggia i risultati delle elezioni, a Barcellona, il 27 settembre. (David Ramos, Getty Images)

Sostenitori dei partiti per l’indipendenza della Catalogna esultano dopo i risultati a Barcellona, il 27 settembre. (Emilio Morenatti, Ap/Ansa)

Durante i festeggiamenti, a Barcellona, il 27 settembre. (Emilio Morenatti, Ap/Ansa)

Fonte: Internazionale

Le notizie di oggi

Quello che dovete sapere per questa giornata

Un uomo cerca noci di cocco tra gli oggetti lanciati nel fiume Sabarmati dai fedeli hindu al termine della festa Ganesha Chaturthi, in India. Credit: Amit Dave

Spagna: nelle elezioni regionali di Catalogna svoltesi domenica 27 settembre, i partiti indipendentisti hanno ottenuto 72 seggi su 135 totali, raggiungendo la maggioranza assoluta in parlamento. Col 98 per cento delle schede scrutinate, infatti, a Junts Pel Sì – insieme per il sì – sono andati il 39,64 per cento dei voti e 62 seggi, mentre a Candidatura d’Unitat Popolar l’8,21 per cento e 10 seggi. Insieme, i due partiti indipendentisti non hanno quindi raggiunto la maggioranza assoluta alle urne. A questa tornata di votazioni, lo schieramento del governo centrale rappresentato dal Partito popolare del premier Mariano Rajoy ha perso 8 seggi rispetto alle ultime elezioni, ottenendone 11, con l’8,48 per cento dei consensi. L’affluenza è stata del 77,46 per cento.

- Russia: durante un’intervista alle televisioni americane Cbs e Pbs domenica 27 settembre, il presidente russo Vladimir Putin ha fortemente criticato il sostegno militare degli Stati Uniti ai ribelli siriani, nella guerra contro il governo del presidente Bashar Al-Assad. Putin ha definito l’intervento del governo americano in Siria "illegale e inutile". Secondo il capo di stato russo, non esistono altre soluzioni alla crisi siriana che non prevedano un rafforzamento delle strutture politiche legittime del Paese. Queste dichiarazioni arrivano alla vigilia dell’incontro tra Putin e il presidente statunitense Barack Obama previsto per lunedì 28 settembre a New York.

- Afghanistan: secondo un rapporto delle Nazioni unite, l’Isis starebbe guadagnando consensi nel Paese, reclutando seguaci in 25 delle 34 province dell’Afghanistan. L’Onu afferma che lo Stato Islamico starebbe conquistando un crescente numero di simpatizzanti, sfidando i Taliban, il movimento islamico fondamentalista afghano, nel loro territorio. Fonti del governo afghano hanno confermato i dati del rapporto dell’Onu, sebbene abbiano precisato che gli scontri tra le due fazioni stanno avendo luogo solo nella provincia di Nangarhar, al confine col Pakistan, per il controllo del traffico della droga.

- Afghanistan: almeno nove civili sono morti e 33 sono stati feriti in un attentato durante una partita di pallavolo nella provincia di Paktika, al confine col Pakistan, nella sera di domenica 27 settembre. Il capo della polizia ha affermato che le esplosioni sono state provocate dall’esplosivo posizionato su una motocicletta parcheggiata vicino al campo di gioco. La pallavolo, come altri sport, era stata bandita dai Taliban durante il governo iniziato nel 1996 e terminato nel 2001.

- Israele: dopo un weekend di scontri tra palestinesi e polizia israeliana, nella mattina di lunedì 28 si sono verificati nuovi incidenti nella Spianata delle Moschee di Gerusalemme. Nella notte gli attivisti islamici si sono barricati all’interno della moschea al-Aqsa, la più grande della città, provocando un incendio a uno degli ingressi a causa dell’utilizzo di bottiglie molotov. Gli scontri stanno avvenendo in corrispondenza di una delle maggiori festività ebraiche, il Sukkot, ossia la festa del pellegrinaggio, che è iniziata all’alba di lunedì 28 settembre e durerà otto giorni.

- Repubblica centrafricana: tra sabato 26 e domenica 27 settembre almeno 36 persone sono rimaste uccise nella capitale Bangui a causa di scontri interreligiosi. I musulmani avrebbero attaccato un quartiere cristiano dopo il ritrovamento del cadavere di un ragazzo islamico abbandonato vicino all’aeroporto, venerdì 25. Dopo la rappresaglia musulmana, fonti ospedaliere di Bangui affermano che ci sarebbe stata una reazione violenta anche da parte cristiana. I feriti ammonterebbero a più di cento.

Fonte: The Post Internazionale

sabato 26 settembre 2015

Caso Orlandi. Il 30 settembre il gip deciderà se archiviare le indagini

I familiari si oppongono alla chiusura dell'inchiesta lanciando una raccolta firme, lunedì sarà consegnata al Consiglio Superiore della Magistratura

Di Barbara Polidori

Pietro Orlandi, fratello di Emanuela

Sono trascorsi 32 anni dalla scomparsa di Emanuela Orlandi, avvenuta il 22 giugno del 1983 al Vaticano. Un trentennio durante il quale gl'inquirenti hanno considerato diverse piste d'indagine, tante quante le domande irrisolte del caso. Dal 30 settembre, però, l'inchiesta potrebbe giungere ad un vicolo cieco ed essere archiviata definitivamente su richiesta del gip.

La decisione, sottoscritta lo scorso maggio dal Procuratore di Roma Giuseppe Pignatone, negherebbe giustizia alla famiglia della Orlandi che da anni attende risposte; in particolare al fratello Pietro, che da due mesi sta portando avanti una una raccolta firme online sul sito "Change.org", petizione che il prossimo lunedì arriverà sui banchi del Consiglio Superiore della Magistratura con l'intento di proseguire le indagini. Sono più di 78mila le adesioni raggiunte fino ad ora, ma non bastano perché la richiesta dei famigliari venga accolta. "Ci opponiamo alla richiesta di archiviazione presentata dalla Procura di Roma. Non vorremmo che ci fosse la volontà di chiudere non solo un'inchiesta ma l'intera vicenda", ha dichiarato nei giorni scorsi Pietro Orlandi. L'inchiesta coinvolge infatti anche un'altra ragazza scomparsa nello stesso periodo della Orlandi, Mirella Gregori, data per dispersa il 7 maggio 1983.

Un gioco di forze: dalla "guerra fredda" ad oggi
Alla richiesta d'archiviazione del Procuratore Pignatone si associano i pm Ilaria Calò e Simona Maisto, trovando in totale disaccordo il Procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo, che per oltre 30 anni si è occupato del caso Orlandi. "Io non concordavo con questa richiesta quindi non ho firmato l’atto, ritenevo necessarie altre attività di indagine", ha dichiarato il Procuratore aggiunto di Roma. Rimangono in sospeso infatti molti aspetti della vicenda che secondo Capaldo meriterebbero di essere approfonditi, come la posizione del fotografo Marco Accetti. Lui stesso, accusatosi della sparizione delle due ragazze, rivelò particolari salienti nella ricostruzione del caso. Aspetti che rifletterebbero una controversia tra fazioni ecclesiastiche sin dai tempi della "guerra fredda".

Ma Accetti non è la sola chiave di volta in questo caso, oltre a lui furono indagati nell’inchiesta sei persone per sequestro di persona e omicidio, volti minori della Banda della Magliana ed affiliati come l'ex amante del boss "Renatino" De Pedis, ovvero Sabrina Minardi, e Monsignor Pietro Vergari.

"Il caso di Emanuela Orlandi incarna in questo momento uno scontro tra le forze della Procura di Roma, col Procuratore capo Pignatone, e quelle Procuratore aggiunto che ha seguito personalmente le indagini, Giancarlo Capaldo", sostiene Fabrizio Peronaci, capocronista al Corriere della Sera che da anni si occupa del caso Orlandi, da cui ha tratto "Il Ganglio" (edito da Fandango). La posizione di Capaldo insiste sul proseguimento delle indagini poiché "la sua conduzione permise di raggiungere la confessione di Accetti, testimone chiave del caso: fu lui a dichiarare un giro d'incontri lussuriosi che coinvolgevano personaggi politico-ecclesiastici influenti di quegl'anni, sin addirittura dalla guerra fredda. Forse questo aspetto potrebbe spiegare perché Pignatone voglia chiudere le indagini una volta per tutte". Come una lettera scarlatta sulla facciata ecclesiastica, il caso Orlandi "potrebbe ulteriormente inficiare sulla reputazione di personalità religiose e minarne la credibilità". Vero è che, dopo 32 anni, risulta molto difficile scovare degli indizi che rianimino il caso e forniscano nuove piste su cui indagare. "Il fatto che questo caso mini la facciata del Vaticano può giustificare il perché si tenti d'insabbiarne gl'interrogativi irrisolti. Non è un caso che l'archiviazione sia passata in sordina sui media nazionali, quando negli ultimi mesi ci siamo dedicati ad un'inchiesta che tratta aspetti che possono addirittura combaciare sul tema della corruzione ed illegalità nelle istituzioni, come per Mafia Capitale".

Fonte: Blasting News Italia

Domani si vota in Catalogna

E sarà una specie di referendum indiretto sull'indipendenza: come ci si è arrivati, quali sono i principali partiti e cosa dicono i sondaggi

Una sostenitrice dell'indipendenza della Catalogna durante una manifestazione a Barcellona. (AP Photo/Manu Fernandez)

Domani, domenica 27 settembre, si vota in Catalogna, Spagna, per eleggere i 135 nuovi membri del parlamento della regione e un nuovo presidente. Si tratta di elezioni anticipate, volute dall’attuale presidente Artur Mas dopo che non è riuscito a indire un referendum sull’indipendenza della regione, come aveva promesso prima della sua vittoria nel 2012. Di fatto le elezioni di domenica saranno una specie di consultazione indiretta sull’indipendenza: votare per la coalizione di Mas vorrà dire essere per l’indipendenza, votare per i suoi avversari vorrà dire essere contrari. Gli ultimi sondaggi mostrano le due coalizioni piuttosto vicine.

La Catalogna è una regione nordorientale della Spagna di quasi otto milioni di abitanti (circa il 19 per cento della popolazione del paese, che produce il 19 per cento del suo PIL): ha come capitale Barcellona e possiede una propria fortissima identità culturale e storica, a cominciare dalla lingua, il catalano. Dispone già di un proprio parlamento nell’ambito di un complesso sistema di autonomie, che da tempo lavora allo svolgimento di un referendum consultivo sull’indipendenza.

I sondaggi riflettono il fatto che le votazioni saranno un referendum implicito sull’ipotesi di indipendenza catalana. El País ha raccolto in un grafico le principali ricerche condotte negli ultimi quindici giorni. Una delle più recenti mostra gli indipendentisti – che sono rappresentati dalla coalizione “Junts pel sì” (“Uniti per il sì”, guidata dall’ex eurodeputato di sinistra Raul Romeva e che raggruppa forze di sinistra e di centrodestra, tra cui il partito di Mas, CDC) e da Candidatura d’unitat popular (CUP) – a quasi il 50 per cento dei voti: insieme dovrebbero dunque ottenere tra i 76 e 78 seggi, sopra la soglia necessaria a ottenere la maggioranza, fissata a 68.

I contrari all’indipendentismo tutti insieme arriverebbero invece a 53-55 seggi. All’interno di questo schieramento c’è Ciutadans, la versione “catalana” di Ciudadanos, un partito nazionale nato in Catalogna nel 2006, che non si dichiara né di destra né di sinistra ma post-nazionalista e progressista, e che è contrario all’indipendenza: è dato intorno al 15 per cento, che corrisponde a 19 seggi. I conservatori del PP sono al 7,3 per cento (10 seggi) e i socialisti del PSC al 11,4 (14 seggi). Podemos, il partito di Pablo Iglesias, come già per le municipali di Barcellona, non presenta una lista con il proprio nome ma ha dato il suo appoggio alla lista “Catalunya sì que es pot”, di cui fa parte insieme a Izquierda Unida e ai Verdi e che otterrebbe 14 seggi. “Catalunya Sí que es Pot” è sostanzialmente contrario all’indipendenza, ma favorevole a una maggiore autonomia regionale.


La campagna elettorale si è aperta lo scorso 11 settembre con una grande manifestazione a Barcellona favore dell’indipendentismo. A parte gli argomenti che i due schieramenti usano da tempo a favore e contro una separazione dal resto del paese, entrambe le parti hanno dedicato molta attenzione agli 1,6 milioni di elettori nati fuori della Catalogna – quindi non tutti effettivamente “catalani” – ma residenti in Catalogna, che potrebbero essere decisivi. Di questi, 1.372.216 sono spagnoli e 293.012 sono stranieri con diritto di voto: i dati sulle loro posizioni politiche risalgono a due anni fa, quando la maggior parte si era dichiarata a favore del processo di indipendenza. Nell’indipendenza vedevano la possibilità di ricominciare come cittadini alla pari degli altri.

Il parlamento catalano aveva annunciato il referendum alla fine del 2013 basandolo su una dichiarazione di sovranità approvata un anno prima, che però la Corte Costituzionale aveva in seguito dichiarato illegittima. Nel novembre del 2014 si era svolto un referendum “informale” e circa l’80 per cento dei votanti si era espresso a favore dell’indipendenza dal governo della Spagna. Gli organizzatori della consultazione avevano detto che avevano partecipato circa due milioni di persone, con un’affluenza stimata al 35,9 per cento. La consultazione non aveva avuto comunque alcun valore legale, Mas aveva cominciato a perdere sostegno al Parlamento e il dialogo a livello istituzionale con il partito del premier Mariano Rajoy non aveva portato ad alcuna proposta o accordo per una soluzione politica della crisi. Mas aveva dunque deciso di anticipare le elezioni e di cercare una nuova legittimità al suo progetto.

Fonte: Il Post