sabato 27 gennaio 2018

27 gennaio: giornata della Memoria. Per non dimenticare...


Oggi è la giornata della Memoria, per commemorare le vittime del nazismo e del fascismo, dell'Olocausto. Il 27 gennaio del 1945 furono aperti i cancelli della città polacca di Auschwitz e fu svelato l'orrore del campo di sterminio, delle deportazioni, del genocidio nazista che causò la morte di milioni di persone, soprattutto ebrei. Ricordare la Shoah, conservare nel tempo la memoria di un periodo nero della nostra storia, per non dimenticare l'orrore e le vittime.

C’è stato un altro grave attacco a Kabul

È esplosa un'autobomba vicino a un ufficio del governo e ci sono almeno 40 morti e oltre 140 feriti: è stato rivendicato dai talebani

(WAKIL KOHSAR/AFP/Getty Images)

Stamattina a Kabul, la capitale dell’Afghanistan, c’è stata una forte esplosione nei pressi di un ufficio del ministero degli Interni. Il ministero della Salute ha detto che sono morte almeno 40 persone e che i feriti sono più di 140. Il ministero dell’Interno ha detto che si è trattato di un attacco con un’autobomba, che il veicolo usato era un’ambulanza e che l’esplosione è avvenuta vicino a un checkpoint, in un’area dove ci sono molte ambasciate straniere e edifici governativi. Al momento dell’esplosione, quando in Afghanistan era l’ora di pranzo, l’area era molto affollata: l’attacco è stato rivendicato dai talebani.

La settimana scorsa, sempre a Kabul, un attacco al più grande hotel della città aveva causato 18 morti. Negli ultimi mesi ci sono stati numerosi gravi attacchi terroristici a Kabul, cosa che ha messo in dubbio le capacità del governo di gestire la situazione. Alcuni attacchi sono stati rivendicati dalla branca afghana dello Stato Islamico (o ISIS); altri sono stati attribuiti al gruppo estremista “Rete Haqqani”, formato da una fazione di talebani che hanno base in Pakistan.

Fonte: Il Post

giovedì 25 gennaio 2018

Due anni di indagini su Giulio Regeni

A che punto siamo nella ricostruzione di chi nel 2016 ha rapito, torturato e ucciso un ricercatore italiano al Cairo

(ANSA/ALESSANDRO DI MARCO)

La sera del 25 gennaio 2016 Giulio Regeni, un ricercatore italiano dell’università di Cambridge, scomparve al Cairo mentre stava lavorando alla sua tesi di dottorato sui sindacati egiziani. Il suo corpo venne trovato nove giorni dopo, il 3 febbraio. Era stato abbandonato ai lati di una strada e sul corpo c’erano i segni di innumerevoli torture. «Ho riconosciuto mio figlio solo dalla punta del naso», ha raccontato sua madre, Paola Regeni. Due anni dopo, nonostante i forti sospetti sul coinvolgimento delle autorità egiziane nel sequestro e nell’omicidio, non si conoscono ancora i responsabili e le indagini sembrano essere arrivate a un punto morto.

Cosa sappiamo degli ultimi giorni di Regeni
Alle 19.41 del 25 gennaio Regeni mandò un messaggio alla sua ragazza: «Esco». Fu il suo ultimo messaggio, scritto mentre stava raggiungendo a piedi la fermata della metropolitana più vicina a casa sua. Regeni, che aveva 28 anni, viveva in un appartamento nel quartiere Dokki di Giza, una città a una ventina di chilometri a sud-ovest del Cairo. Era uscito per raggiungere la festa di compleanno di un amico, organizzata vicino a piazza Tahir, la piazza più importante del Cairo.

Regeni era stato a casa tutto il giorno, anche perché il 25 gennaio non era una data come le altre: era il quinto anniversario della rivoluzione del 2011, quella che portò alla caduta di Mubarak e alla successiva ascesa dei Fratelli Musulmani. La situazione non era tranquilla, come tutti i 25 gennaio dal 2011 a oggi: nelle ore precedenti la polizia egiziana aveva compiuto migliaia di perquisizioni per bloccare iniziative e proteste contro il governo del presidente Abdel Fattah al Sisi. Il quartiere un po’ periferico dove viveva Regeni, comunque, non ne era stato coinvolto. Regeni scomparve quella sera nel tragitto da casa sua al posto dove era stata organizzata la festa con gli amici. Su quello che accadde tra la sera del 25 gennaio e il 3 febbraio ci sono solo sospetti.

Quello che sappiamo per certo era il motivo per cui Regeni si trovava in Egitto. Stava lavorando a una ricerca sui sindacati indipendenti dei venditori ambulanti, un tema politico molto delicato in Egitto. Regeni cominciò a studiare i venditori di strada adottando un approccio conosciuto come “ricerca partecipata”, un metodo che prevede di trascorrere molto tempo con i soggetti della ricerca. Una data che sembra importante nella ricostruzione di quello che successe dopo è l’11 dicembre 2015, quando Regeni partecipò a un incontro pubblico e autorizzato sui sindacati indipendenti. Accaddero due cose: la prima è che Regeni fu impressionato dagli argomenti e dall’energia emersi dalla riunione, e ci scrisse sopra un articolo con frasi abbastanza forti; la seconda è che durante l’incontro a un certo punto gli si avvicinò una donna con il velo e lo fotografò. Regeni non era tra gli oratori e l’episodio lo mise in agitazione, raccontarono alcuni amici.

Poi successe un’altra cosa. Nell’autunno 2015 Regeni aveva ottenuto un finanziamento di 10mila sterline da una fondazione britannica che si occupa di progetti di sviluppo. Era una somma di denaro che Regeni avrebbe potuto usare come sostegno per le ricerche del suo dottorato e come aiuto per le persone che stava studiando. Ne parlò con Mohamed Abdallah, uno dei leader del sindacato indipendente dei venditori di strada, che però si mostrò interessato più ai soldi che al progetto in sé. Il 7 gennaio Abdallah denunciò Regeni alle autorità egiziane. Dopo la morte di Regeni, Abdallah raccontò a un giornale egiziano di averlo fatto per proteggere il suo paese, ma insistette nel dire di non essere una spia. Gli egiziani hanno ammesso di aver indagato Regeni ma sostengono che il caso fu archiviato dopo tre giorni, senza conseguenze.

In risposta all’omicidio e ai depistaggi compiuti dalle autorità egiziane, nell’estate del 2016 il governo Renzi decise di ritirare l’ambasciatore italiano in Egitto, Maurizio Massari. Nell’agosto 2017, dopo circa un anno di assenza e in seguito a una maggiore collaborazione da parte della procura di Giza, il governo ha nominato un nuovo ambasciatore in Egitto, Giampaolo Cantini.

Le indagini
Le indagini condotte dalle autorità egiziane produssero quello che la procura di Roma, che collabora con la procura di Giza, ha definito una lunga sequenza di tentativi di depistaggio. La procura egiziana disse in un primo momento che Regeni era morto in un incidente stradale. La tesi fu smentita quando venne eseguita l’autopsia in Italia: Regeni era morto per lo spezzamento del collo, dopo essere stato sottoposto a numerose torture. I suoi denti erano stati spezzati, le sue mani fratturate. Gli investigatori italiani arrivati in Egitto furono ostacolati in ogni modo. Non gli venne permesso di interrogare i testimoni, se non in presenza della polizia egiziana e per pochi minuti. La procura di Giza richiese troppo tardi i video delle telecamere che si trovavano vicino al luogo della sparizione: i filmati di quella notte, a quel punto, risultavano essere già stati cancellati.

Ma il caso di despitaggio più clamoroso fu il modo in cui vennero ritrovati i documenti di Regeni. Il 24 marzo il ministro degli Interni egiziano scrisse su Facebook che il caso era risolto: i colpevoli erano quattro membri di una banda criminale «specializzata nel fingersi agenti di polizia, nel sequestrare cittadini stranieri e rubare loro i soldi». I sequestratori erano stati tutti uccisi in uno scontro a fuoco con la polizia, quindi non poterono fornire la loro versione.

Il governo egiziano diffuse comunque le foto del passaporto di Regeni, della sua carta d’identità italiana, di una carta di credito e del suo tesserino dell’Università di Cambridge, tutto materiale che secondo gli agenti era stato trovato in possesso del gruppo di criminali. La ricostruzione, però, non resse che pochi giorni. Venne fuori che al momento della scomparsa di Regeni il capo della banda criminale si trovava a più di 100 chilometri dal luogo del sequestro. E c’erano altre cose che non tornavano: per esempio le autorità egiziane non seppero spiegare il motivo per cui dei criminali comuni avrebbero dovuto torturare Regeni per una settimana intera prima di ucciderlo.

L’attività degli investigatori italiani portò comunque qualche risultato, scrivono Carlo Bonini e Giulio Foschini su Repubblica.


Oggi sappiamo che Giulio fu oggetto di una stringente attività di spionaggio ingrassata dalla paranoia degli apparati del regime egiziano alla vigilia del quinto anniversario della rivoluzione di piazza Tahrir. Che quella attività fu alimentata dal tradimento di chi Giulio si fidava, l’allora leader del sindacato degli ambulanti, Mohammed Abdallah (uomo dal passato miserabile e dal presente disperato, in cerca di denaro facile per sostenere l’operazione di cancro di sua moglie), pronto a venderlo nella sua veste di informatore di polizia e Servizi. Che a consegnare a Giulio la patente di “spia”, quale non era, per conto dei Servizi britannici, fu la “”colpa” del suo lavoro di ricerca condotto per l’università di Cambridge. Che della “pratica Regeni” si occupò la National security agency, il servizio segreto civile che aveva e ha come suo referente politico il ministro dell’Interno Abdel Ghaffar, l’altra figura chiave del regime con il presidente Al Sisi e contraltare di quest’ultimo. Che il regime egiziano per due anni ha depistato le indagini, arrivando a concepire e consumare la macabra messa in scena della morte di cinque innocenti da offrire all’Italia come responsabili della morte di Giulio.


Queste informazioni, scrivono i due giornalisti di Repubblica, provengono da «un’informativa dello Sco della Polizia e del Ros dei Carabinieri consegnata e condivisa dalla Procura generale del Cairo, nel dicembre scorso, che identifica nove, tra poliziotti e agenti dei Servizi, che aldilà di ogni ragionevole dubbio, furono coinvolti quantomeno nel sequestro di Giulio».

Le inchieste dei giornali
Accanto alle indagini ufficiali, nel corso degli ultimi due anni sono state pubblicate diverse inchieste giornalistiche. Del caso si è occupata l’agenzia di stampa Reuters che nell’agosto 2016 pubblicò uno dei primi articoli a sottolineare l’importanza dei rapporti di Regeni con i sindacati dei venditori ambulanti. A ottobre dello stesso anno il Guardian pubblicò una lunga ricostruzione dell’intera vicenda, in cui il giornalista Alexander Stille scrisse che la causa della morte di Regeni era probabilmente dovuta al clima di paranoia che in quel periodo stava vivendo il regime egiziano, quando le agenzie di sicurezza sospettavano qualsiasi straniero di essere una spia e un potenziale complice di forze rivoluzionarie.

Tra dicembre e gennaio, media arabi ed egiziani raccontarono la storia di Abdallah, il sindacalista che aveva denunciato Regeni. Fu pubblicato anche un video, che mostrava il sindacalista chiedere dei soldi al ricercatore egiziano, mentre nell’agosto del 2017, il New York Times scrisse che il governo italiano aveva ricevuto informazioni da quello americano sul coinvolgimento dei servizi segreti egiziani nella sparizione. Il governo italiano disse però che erano informazioni generiche, senza riscontri.

Anche la stampa italiana si è occupata a lungo del caso, seguendo le indagini della polizia e dei carabinieri italiani in Egitto e quelle della procura di Roma. Oltre a concentrarsi sulle responsabilità del governo egiziano, i giornalisti italiani si sono occupati a lungo dei professori di Regeni, accusandoli spesso di averlo “mandato allo sbaraglio”, spingendolo a fare ricerche in un ambiente molto rischioso. Alcuni quotidiani sono arrivati a suggerire che Regeni potesse essere stato manipolato e utilizzato più o meno inconsapevolmente come spia dai suoi professori. L’Università di Cambridge ha sempre respinto le accuse e ha difeso la professionalità di Regeni, sostenendo che era del tutto qualificato per il suo compito. Anche la procura di Roma ha seguito questa pista, interrogando e sequestrando diverso materiale alla professoressa Rabab El Mahdi, tutor di Regeni. Per il momento però non sono emerse prove di un comportamento scorretto da parte dell’università.

La situazione oggi
In una lettera al Corriere della Sera pubblicata oggi, il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone spiega l’attuale stato delle indagini e la loro difficoltà. Racconta, per esempio, come sulla base delle informazioni raccolte dagli investigatori italiani sarebbe già possibile arrivare ad alcune conclusioni.


In una indagine ordinaria, sulla base dell’informativa depositata la Procura avrebbe potuto già trarre alcune, seppur parziali conclusioni. Invece, la collaborazione tra i due uffici impone un percorso più lento e faticoso: condividere l’informativa, dare il tempo ai colleghi di studiarla e, quindi, valutare assieme a loro le successive attività da compiere. Un iter complesso, basato sul reciproco spirito di collaborazione. Un metodo che non può avere la speditezza che tutti noi desidereremmo. Ma è l’unico possibile. Qualunque fuga in avanti da parte nostra si trasformerebbe in un boomerang in grado di vanificare quanto fin qui con fatica costruito.


Pignatone poi rivendica i successi della procura, che ha contribuito a evitare che le indagini prendessero strade sbagliate, per esempio insistendo sull’inesistente attività di spionaggio di Regeni o sull’ipotesi che a compiere l’omicidio fossero stati criminali comuni. Nella sua lettera, Pignatone critica l’Università di Cambridge per le “contraddizioni” nelle versioni che sarebbero state fornite su quanto accaduto a Regeni, e ringrazia invece il procuratore Nabeel A. Sadek, che guida le indagini in Egitto. «Da parte nostra», conclude la sua lettera, «possiamo assicurare che proseguiremo con il massimo impegno nel fare tutto quanto sarà necessario e utile affinché siano assicurati alla giustizia i responsabili del sequestro, delle torture e dell’omicidio di Giulio».

Fonte: Il Post

Gli arresti contro la famiglia Spada a Ostia

Questa notte 32 persone sono state fermate in una grande operazione di polizia: l'accusa è di associazione a delinquere di tipo mafioso


32 persone sono state arrestate questa notte a Ostia, in provincia di Roma, in una grande operazione di polizia e carabinieri coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia. Gli arresti sono stati disposti dal Giudice per le indagini preliminari Simonetta D’Alessandro e le accuse sono di associazione a delinquere di stampo mafioso.

L’operazione è cominciata intorno alle 4 di notte e ha coinvolto decine di mezzi della polizia e dei carabinieri, coordinati dall’alto da un elicottero. Tra gli arrestati ci sono diversi membri della famiglia Spada, quella di cui si era cominciato a parlare molto dopo l’aggressione al giornalista Daniele Piervincenzi, lo scorso novembre: “Carmine (il boss), Armando, Ottavio, Massiliano, Enrico (detto Maciste), Roberto il fratello del boss già rinviato a giudizio dopo che a novembre fece finire in ospedale Daniele Piervincenzi”, dice Repubblica. Tra i reati a loro contestati ci sono “omicidio, estorsione, usura, intestazione fittizia”, scrive sempre Repubblica.

Fonte: Il Post

Cosa sappiamo del treno deragliato fuori Milano, in breve

Ci sono almeno tre morti: il treno era partito da Cremona ed è uscito dai binari a Pioltello, probabilmente per il cedimento di un binario

(PIERO CRUCIATTI/AFP/Getty Images)

Questa mattina, pochi minuti prima delle 7, un treno di Trenord partito da Cremona e diretto alla stazione di Milano Porta Garibaldi è deragliato all’altezza di Seggiano di Pioltello. Tre persone sono morte e diverse decine sono state ferite. Sembra che il deragliamento sia stato causato dal cedimento di un pezzo di binario.

Luciana Lamorgese, prefetta di Milano, ha confermato tre persone morte (tutte donne), 100 feriti lievi, 8 in codice giallo e 5 in codice rosso, cioè il livello di gravità più alto assegnato in pronto soccorso. Croce Rossa Lombardia ha detto che tutte le persone che erano a bordo del treno sono state fatte uscire. I feriti sono stati portati agli ospedali milanesi San Raffaele, Humanitas, e Policlinico, e al San Gerardo di Monza.

Rete Ferroviaria Italiana (RFI) ha detto che probabilmente l’incidente è stato causato dal cedimento di un binario (inizialmente si era parlato invece di un problema con uno scambio). Ad uscire dai viari – “sviare”, come si dice tecnicamente – non è stata la motrice del treno, ma tre vagoni al centro del convoglio, che poi hanno continuato la loro corsa fuori dai binari per più di due chilometri prima di sbattere contro un palo della trazione elettrica. L’ipotesi del cedimento di un binario spiegherebbe anche le “forti vibrazioni” avvertite dai passeggeri a bordo del treno poco prima dell’incidente. La procura di Milano ha aperto un fascicolo di indagine per “disastro ferroviario colposo”.

Il treno, formato da cinque vagoni, era partito da Cremona alle 5.32 di questa mattina ed era diretto alla stazione di Milano Porta Garibaldi. Il treno deragliato questo mattina viene usato soprattutto da lavoratori pendolari e studenti che ogni giorno raggiungono Milano da altre città e paesi della Lombardia, principalmente dalle province di Bergamo e Cremona (il treno passa per Crema e Treviglio, per esempio). La circolazione dei treni tra Milano e Pioltello è stata interrotta con conseguenti ritardi per gli altri treni in arrivo a Milano su diverse tratte.

Fonte: Il Post

mercoledì 24 gennaio 2018

L’attacco contro Save the Children in Afghanistan

Un gruppo di uomini armati è entrato nell'edificio dell'organizzazione a Jalalabad: ci sono almeno 2 morti, l'ISIS ha rivendicato

Soldati afghani fuori dall'edificio di Save the Children a Jalalabad (NOORULLAH SHIRZADA/AFP/Getty Images)

In Afghanistan è in corso un attacco contro la sede dell’organizzazione internazionale Save the Children a Jalalabad, 150 chilometri a est della capitale Kabul. L’attacco è iniziato alle 9.10 ora locale (in Italia erano le 5.40 di notte) con l’esplosione di un’autobomba, ha raccontato il portavoce del governo provinciale a BBC News. Poi alcuni uomini armati sono entrati nell’edificio, forse usando un lanciarazzi per abbattere il cancello. Sohrab Qaderi, un membro del consiglio provinciale di Nangarhar (la provincia di Jalalabad), ha detto che le forze speciali afghane si stanno scontrando con due o tre assalitori armati di granate e mitragliatrici.

Per il momento ci sono notizie di 2 persone uccise e 12 ferite. Lo Stato Islamico (o ISIS) ha rivendicato l’attacco, parlando di tre assalitori, mentre in precedenza il portavoce dei talebani, Zabihullah Mujahid, aveva smentito su Twitter il coinvolgimento del suo gruppo. Non è chiaro se all’interno dell’edificio ci sia ancora personale di Save the Children.

Il portavoce di Save the Children ha detto che il gruppo è «devastato» dalla notizia dell’attacco. Save the Children, che è presente in Afghanistan dal 1976 e che oggi gestisce progetti in 16 diverse province afghane, ha deciso di sospendere tutte le sue attività nel paese.

L’ultimo attacco in Afghanistan era stato compiuto nella notte tra il 20 e il 21 gennaio, quando un gruppo di uomini armati aveva tenuto prigionieri per dodici ore gli ospiti dell’Intercontinental Hotel di Kabul, uccidendo 22 persone, molte delle quali straniere.

Fonte: Il Post

Almeno 34 persone sono morte in un duplice attentato a Bengasi, in Libia

La città libica di Bengasi. Credit: Afp

Almeno 34 persone sono morte in un duplice attentato avvenuto il 23 gennaio 2018, a Bengasi, nell’est della Libia, dove due autobombe sono esplose, nei pressi della moschea di Bait Radwan.

Secondo quanto riportano alcune fonti ospedaliere locali, sono almeno 87 le persone rimaste ferite negli attacchi. Secondo i primi resoconti, le esplosioni sarebbero avvenute a poca distanza di tempo l’una dall’altra, la seconda all’arrivo delle ambulanze, in un attacco che sembra sia stato programmato per causare vittime tra i soccorritori.

Il capitano Tarek Alkharraz, portavoce delle forze militari e di polizia a Bengasi, ha detto che la prima esplosione è avvenuta nel quartiere di Salmani verso le 20:20 di ieri, mentre la seconda bomba è denotata mezz’ora dopo, proprio quando medici e residenti erano accorsi per assistere i feriti.

Le Nazioni Unite hanno condannato l’attacco sui social media, affermando che tali atti indirizzati contro i civili sono contrari al diritto internazionale.

Al momento nessun gruppo ha rivendicato l’attentato.

Fonte: The Post Internazionale

domenica 21 gennaio 2018

C’è stato un attacco al più grande hotel di Kabul

Sei persone sono morte durante l'assedio dell'hotel durato 12 ore, fino all'intervento dell'esercito: l'attacco è stato rivendicato dai talebani

L'Intercontinental Hotel di Kabul, dopo la fine dell'attacco avvenuto tra il 20 e il 21 gennaio 2018 (AP Photo/Rahmat Gul)

Nella notte tra il 20 e il 21 gennaio l’Intercontinental Hotel di Kabul, il più grande albergo della città, dove solitamente alloggiano funzionari governativi, è stato attaccato da un gruppo di uomini armati che per circa dodici ore hanno tenuto prigionieri gli ospiti: sei civili – tra cui una donna straniera – e tre attentatori sono morti e sette persone sono state ferite. Oltre 150 persone, 41 delle quali straniere, sono state tenute in ostaggio fino a quando l’esercito afghano non ha fermato gli autori dell’attacco ed evacuato l’hotel. L’attacco è stato rivendicato dai talebani. Nei giorni scorsi l’ambasciata statunitense di Kabul aveva diffuso un avviso secondo cui era possibile che alcuni gruppi armati stessero pianificando degli attacchi contro gli hotel della città e altri luoghi frequentati da stranieri.

Secondo i racconti dei testimoni, all’arrivo degli attentatori – le 21 ora locale – la maggior parte degli ospiti dell’hotel si trovava a cena. Alcune testimonianze dicono che gli autori dell’attacco sono entrati passando per una porta delle cucine: vedendo il gruppo armato (con armi da fuoco e granate) tutti si sono spaventati e molti si sono nascosti nelle proprie stanze, sotto i letti o nei bagni. Alcune persone hanno anche cercato di uscire dall’hotel usando delle lenzuola per calarsi da un balcone all’ultimo piano. Le forze speciali dell’esercito afghano sono entrate nell’hotel dopo essere arrivate sul tetto dell’edificio trasportate da elicotteri, e le immagini dell’hotel trasmesse dalla TV afghana hanno mostrato una grossa colonna di fumo nero proveniente da alcuni incendi interni.

L’Intercontinental di Kabul, che non fa parte dell’omonima catena internazionale ed è di proprietà dello stato afghano, si trova sul fianco di una collina che sovrasta la capitale e ha 200 camere. È molto sorvegliato, dato che solitamente ospita funzionari del governo e stranieri che vivono in città. La scorsa notte ad esempio si trovavano all’interno della struttura molti funzionari del ministero delle Telecomunicazioni, perché in programma per oggi c’era un convegno di tecnologia informatica. Non è la prima volta che l’hotel subisce un attacco: era già successo nel 2011, quando una notte un gruppo di miliziani talebani aveva assaltato l’hotel per poi scontrarsi con l’esercito. In quell’occasione erano morti almeno 10 civili.

Il ministero dell’Interno afghano ha annunciato che ci sarà un’indagine per stabilire come sia stato possibile per gli attentatori entrare nell’hotel, nonostante i sistemi di sicurezza. Solo due settimane fa la sorveglianza della struttura era stata appaltata a un’azienda privata.

Negli ultimi mesi ci sono stati numerosi gravi attacchi terroristici a Kabul, cosa che ha messo in dubbio le capacità del governo di gestire la situazione. L’ultimo era stato alla fine di dicembre, quando nei pressi della redazione di un’agenzia stampa e di un centro culturale musulmano di dottrina sciita c’era stato un attentato suicida in cui erano morte 41 persone. Questo attacco e molti altri sono stati rivendicati dalla branca afghana dello Stato Islamico (o ISIS); altri sono stati attribuiti al gruppo estremista “Rete Haqqani”, formato da una fazione di talebani che hanno base in Pakistan. Un’altra quarantina di persone era morta a ottobre in un attacco dell’ISIS a una moschea sciita.

Fonte: Il Post

giovedì 18 gennaio 2018

Anche la Bulgaria si sta spopolando

Ed è il paese del mondo che lo sta facendo più rapidamente: è un fenomeno iniziato negli anni Novanta per il quale il governo non ha ancora trovato soluzioni

Belene, Bulgaria (AP Photo/Valentina Petrova)

La Bulgaria ha un primato particolare: è il paese del mondo che si sta spopolando più rapidamente. Secondo alcune stime dell’ONU, nel 2050 la popolazione bulgara sarà di 5,2 milioni di persone, 2 milioni in meno di quella attuale. Le ragioni di questo fenomeno sono diverse, ha spiegato l’Economist, e risalgono alla traumatica transizione post-comunista degli anni Novanta, quando centinaia di migliaia di giovani bulgari decisero di trasferirsi nei paesi dell’Europa occidentale, più ricchi e più stabili. Nonostante negli ultimi anni il governo bulgaro abbia promosso diverse politiche per invertire questa tendenza, i risultati tardano ad arrivare e oggi sembra difficile immaginare una soluzione al problema.

Una delle zone della Bulgaria che più sta soffrendo dello spopolamento, ha scritto l’Economist, è il nord-est, «la regione più povera del paese più povero dell’Unione Europea». Ogni anno per esempio la popolazione della città di Vratsa, che fino a diverso tempo fa era un centro industriale piuttosto importante, si riduce di circa 2mila persone, senza che il sindaco locale, Kalin Kamenov, riesca a trovare soluzioni. Kamenov ha detto che senza investimenti e senza il sostegno del governo bulgaro, Vratsa sarà virtualmente estinta nel giro di 10 anni. Situazioni simili sono diffuse soprattutto nelle zone rurali della Bulgaria, dove ci sono sempre meno giovani e sempre più anziani. Georgi Angelov, un economista che lavora all’Open Society Institute a Sofia, la capitale della Bulgaria, ha detto all’Economist: «Abbiamo un problema da paese ricco [l’aumento del numero dei pensionati], ma non siamo un paese ricco».

Uno dei piani promossi di recente dal governo bulgaro per contrastare lo spopolamento è stato attrarre lavoratori stranieri dai paesi vicini con comunità bulgare rilevanti, come l’Ucraina e la Moldavia. Molti di questi immigrati sono impiegati da anni durante la stagione turistica negli hotel e nei resort sciistici del paese. Gli sforzi fatti finora non sembrano però essere stati sufficienti a invertire la tendenza, soprattutto perché non sono stati diretti in eguale misura verso i migranti provenienti da altre parti del mondo.

Finora la Bulgaria ha adottato politiche migratorie molto intransigenti. Nei mesi in cui era aperta la cosiddetta “rotta balcanica” usata dai migranti per raggiungere l’Europa occidentale partendo dalla Turchia, tra il 2015 e il 2016, la Bulgaria rimase sostanzialmente estranea agli enormi flussi migratori, grazie alle barriere fisiche costruite lungo il confine bulgaro-turco e alla particolare reputazione delle sue forze di sicurezza, accusate di rispondere in maniera brutale ai tentativi di superamento della frontiera. Gli stessi politici bulgari hanno alimentato una intensa retorica anti-immigrazione che li ha portati anche a prendere decisioni bizzarre: per esempio nel 2016 il governo locale di Vratsa decise di vietare i centri per profughi nel territorio comunale, anche se non ne esisteva nessuno e nessuno aveva proposto di costruirne.

La Bulgaria non è l’unico paese dell’Europa non-occidentale ad avere problemi di spopolamento. Nella classifica degli spopolamenti più rapidi, i primi nove posti sono occupati da stati dell’Europa non-occidentale. Per tutti lo spostamento di decine di migliaia di persone verso altre zone di mondo (soprattutto verso l’Europa occidentale) è iniziato dopo il crollo del Muro di Berlino e durante la transizione dal comunismo ai sistemi democratici. Per alcuni paesi, come per esempio la Lettonia, la spinta principale è stato l’ingresso nell’Unione Europea. Nel 2000, poco prima di diventare stato membro della UE, la Lettonia aveva 2,38 milioni di abitanti; oggi ne ha 1,95 milioni e si stima che nel giro di una ventina d’anni il numero potrebbe scendere sotto il milione mezzo, cioè poco più della popolazione dell’Abruzzo. Il motivo è abbastanza immediato: nonostante negli ultimi 15 anni il PIL della Lettonia sia più che triplicato, le condizioni socio-economiche rimangono decisamente inferiori rispetto a quelle offerte dai paesi dell’Europa occidentale, e la cittadinanza europea ha consentito ai lettoni più giovani di cercare lavoro in posti dove gli stipendi sono più alti e la qualità della vita migliore.

Oggi più di 1 milione di bulgari vive all’estero, di cui circa 700mila in altri paesi dell’Unione Europea. Nonostante al momento non sembrino esserci in vista soluzioni efficaci per il problema dello spopolamento, ha scritto l’Economist, la Bulgaria non sta andando così male: i tassi di occupazione sono più alti che mai e le finanze pubbliche sono messe piuttosto bene, per gli standard bulgari. Finora però il governo non è riuscito a risolvere alcuni problemi strutturali che sembrano essere parte delle cause dello spopolamento: gli altissimi livelli di corruzione, una qualità media delle scuole molto bassa e gli scarsi investimenti esteri.

Fonte: Il Post

Le “parlamentarie” del Movimento 5 Stelle sono state molto agitate

La votazione per scegliere i candidati al Parlamento del M5S è finita ieri tra problemi, ritardi, candidati spariti e attivisti candidati a loro insaputa


Tra martedì e mercoledì ci sono stati parecchi problemi durante le primarie del Movimento 5 Stelle per la scelta dei candidati al Parlamento. Numerosi iscritti al partito si sono lamentati della lentezza dei server e dei problemi nell’esprimere le sei preferenze che avevano a disposizione. Diversi candidati, tra cui alcuni parlamentari uscenti, hanno accusato il Movimento di averli esclusi senza motivo, mentre altri si sono trovati candidati a loro insaputa. Le votazioni si sono svolte sulla piattaforma Rousseau, il nuovo sito utilizzato per prendere decisioni interne al partito che già in passato aveva manifestato parecchi problemi. Con un post pubblicato mercoledì sera sul blog di Grillo, il Movimento ha respinto tutti gli attacchi, ha detto che le “parlamentarie” si sono svolte regolarmente e che i risultati saranno comunicati domenica.

I problemi sulla piattaforma Rousseau sono cominciati martedì e in tarda mattinata sono arrivate le proteste sui social. Viviana Guarini, ex consigliera regionale del Movimento in Puglia, sembra sia stata la prima a usare su Twitter l’hashtag #annullatetutto, accusando il Movimento di aver escluso attivisti di lunga data e di aver invece ammesso alla votazione persone che non intendevano partecipare. I giornali riportano i nomi di almeno due attivisti del Movimento 5 Stelle che hanno scritto pubblicamente sui social network di essere stati candidati a loro insaputa. Una di loro ha mostrato sui social network la foto della denuncia che ha fatto ai carabinieri nei confronti del Movimento per l’uso improprio dei suoi dati personali. Anche alcuni esclusi hanno minacciato denunce e i giornali riportano almeno un caso, avvenuto in Calabria, di un ricorso per un’esclusione presentato d’urgenza mercoledì mattina. Fonti interne al Movimento hanno confermato al Post i problemi del sistema.

Mercoledì Marco Canestrari, ex dipendente della Casaleggio Associati e, insieme al giornalista Nicola Biondo autore del libro “Supernova”, dedicato alla vicende interne del Movimento negli ultimi anni, ha pubblicato un audio in cui si sente quello che viene indicato come un senatore del Movimento 5 Stelle chiedere ai suoi sostenitori di non votarlo, poiché il sistema Rousseau sembra avere grosse difficoltà. «Il sistema è andato in tilt, mancano troppi candidati all’appello, addirittura manca anche un candidato senatore uscente. Il sistema non sta funzionando», spiega il senatore. Le parlamentarie, continua il senatore, saranno probabilmente annullate in giornata e infine accusa i gestori del sistema di incapacità e dice di essere stanco del modo approssimativo in cui lavorano. Poi conclude: «Comincio a essere stanco di tutti questi problemi creati dallo staff per incompetenze ormai palesi a tutti». La voce somiglia a quella di un noto senatore siciliano del Movimento.

A quanto sembra, buona parte dei problemi sperimentati dagli utenti sono stati causati dall’elevato numero di visite che ha portato a un sovraccarico del sistema Rousseau che a sua volta ha prodotto rallentamenti e difficoltà nell’esprimere il proprio voto. Non è la prima volta che accade e già in passato, in occasione di quasi tutte le consultazioni interne che si sono svolte su Rousseau, gli utenti hanno lamentato simili difficoltà. La questione delle esclusioni di alcuni candidati sembra invece più complessa.

Il Movimento aveva ricevuto lo scorso dicembre circa diecimila domande di candidature che avrebbero dovuto essere scremate sulla base di una serie di criteri oggettivi (per esempio non aver condanne o precedenti esperienze politiche) e soggettivi (come non aver mai pregiudicato l’immagine del Movimento). Non è chiaro, però, chi si sia occupato di fare le selezioni sulla base di questi criteri; non si conoscono i loro nomi e i loro ruoli e non è chiaro se siano attivisti del Movimento, dipendenti della Casaleggio Associati oppure personale dell’Associazione Rousseau.

Secondo alcuni, però, parte delle esclusioni sarebbe stata dettata dalla difficoltà di gestire l’elevato numero di richieste pervenute in meno di tre settimane. Altri danno la colpa della loro esclusione a faide e ritorsioni da parte dei loro rivali interni al Movimento. L’avvocato Lorenzo Borrè, che difende numerosi politici e militanti espulsi dal Movimento negli anni scorsi, ha detto: «Mi hanno chiamato una trentina [di candidati] tra ieri e oggi». Secondo Borrè ci sarà presto un «ricorso di massa» da parte degli esclusi. Sul blog di Grillo il Movimento ha risposto alle critiche: «Non c’è nessun timore di ricorsi da parte degli esclusi. Le regole che hanno accettato tutti coloro che hanno proposto la candidatura erano molto chiare e molto rigide. Sono state applicate in maniera severa. Alcuni si sono lamentati dell’esclusione dalle liste, è vero. È stato fatto per tutelare al massimo il MoVimento 5 Stelle. Per esempio anche il turpiloquio nei confronti degli avversari politici a mezzo social è stato considerato ostativo ai fini della candidatura».

Fonte: Il Post

mercoledì 17 gennaio 2018

Tre operai sono morti in un incidente sul lavoro a Milano

E un altro è ricoverato in gravi condizioni: stavano ripulendo un forno di un'azienda di laminati quando hanno perso i sensi, forse per un ristagno di gas

(ANSA)

Tre operai sono morti martedì pomeriggio in un grave incidente sul lavoro a Milano, all’interno della Lamina, azienda che si occupa della lavorazione di acciaio e titanio. Stavano lavorando alla pulizia di un forno interrato con l’aiuto di altri tre colleghi, uno dei quali è ricoverato in condizioni gravi, quando hanno perso conoscenza probabilmente dopo avere respirato gas che si erano accumulati nel vano in cui stavano lavorando. Dopo non averli visti tornare, i colleghi hanno dato l’allarme e sul posto, in via Rho in zona Greco, sono arrivate diverse squadre dei vigili del fuoco, ambulanze, carabinieri e polizia locale.

Un caposquadra dei vigili del fuoco, tra i primi a intervenire e a raggiungere il forno, è rimasto lievemente intossicato ed è stato trasportato d’urgenza in ospedale per accertamenti. Le indagini sull’accaduto sono ancora in corso per verificare che cosa non abbia funzionato nelle procedure di sicurezza, considerato che l’operazione di pulizia era sostanzialmente di routine e senza particolari complicazioni. Il nucleo NBCR (Nucleare, biologico, chimico e radiologico) dei vigili del fuoco ha fatto alcune rilevazioni per analizzare i gas presenti nel vano dove è avvenuto l’incidente.

Secondo la ricostruzione del Corriere della Sera, Arrigo Barbieri di 57 anni – responsabile di produzione – è stato il primo a scendere all’interno del vano, seguito poi da Marco Santamaria, elettricista di 42 anni. Raggiunto il forno, avrebbero perso i sensi a causa della scarsa concentrazione di ossigeno e agli alti livelli di azoto, gas inodore. Non sentendo più rumori provenire dal forno, Giancarlo Barbieri – 61 anni e fratello di Arrigo – ha dato l’allarme attirando l’attenzione di altri colleghi. È poi sceso all’interno del vano sotterraneo, insieme a Giuseppe Setzu, collega di 48 anni. Altri due operai sono scesi poco dopo, tornando indietro dopo essersi resi conto della pericolosità della situazione. Dopo l’arrivo dei vigili del fuoco e delle ambulanze, i soccorritori hanno trasportato gli operai privi di coscienza in ospedale in condizioni gravissime: i primi tre a essere entrati nel forno sono morti, mentre Giancarlo Barbieri è in fin di vita.

È il più grave incidente sul lavoro degli ultimi anni a Milano, in un’azienda piuttosto conosciuta nel campo dei lavorati metallici, fondata nel 1949 e da allora sempre nella medesima sede alle spalle della Stazione Centrale. La società impiega una trentina di operai e non ha mai avuto particolari problemi per quanto riguarda la sicurezza sul lavoro. Il forno dove è avvenuto l’incidente era stato revisionato poche settimane fa dalla ditta tedesca produttrice, così come erano stati controllati i sistemi di allarme. Gli operai avevano anni di esperienza e avevano eseguito altre volte operazioni simili di pulizia.

Fonte: Il Post

martedì 16 gennaio 2018

Un edificio è crollato ad Anversa dopo un’esplosione

Due persone sono morte e ha causato seri danni ad altri due palazzi: ci sono almeno 15 feriti


Nella notte tra il 15 e il 16 gennaio, una forte esplosione ha causato il crollo di un edificio e seri danni a due palazzi adiacenti ad Anversa, città portuale del Belgio. Nell’incidente sono morte 2 persone e almeno 15 sono rimaste ferite. Uno degli edifici ospitava al piano terra una pizzeria e alcuni appartamenti agli altri piani. Le facciate dei palazzi sono crollate quasi completamente, con alcune persone rimaste sotto le macerie. I soccorritori hanno lavorato diverse ore per recuperare gli abitanti degli edifici rimasti bloccati e per mettere in sicurezza la zona. Le persone sono state ferite quasi tutte in modo lieve, ma ci sono comunque notizie di almeno un ferito in condizioni critiche.

Stando ai media locali, l’esplosione sarebbe stata causata da una fuga di gas. Inizialmente non si era escluso che l’origine dell’esplosione potesse essere legata a un attentato, ma la polizia ha rapidamente smentito queste circostanze, parlando di un incidente. In Belgio l’allerta terrorismo è molto alta, soprattutto da quando furono condotti gli attacchi terroristici coordinati a Bruxelles nel marzo del 2016.

Fonte: Il Post

È morta a 46 anni Dolores O’Riordan dei Cranberries

È successo a Londra, dove la cantante dei Cranberries si trovava per una sessione di registrazione: al momento non ci sono spiegazioni sulla sua morte

Un concerto dei Cranberries a Shanghai Cina, 26 luglio 2011 (AP Images)

Lunedì a Londra è morta a 46 anni Dolores O’Riordan, nota soprattutto per essere stata la cantante dei Cranberries, gruppo rock irlandese che ha ottenuto un grande successo in tutto il mondo negli anni Novanta. La notizia è stata confermata dal suo agente, che ha parlato di morte improvvisa e ha detto che O’Riordan era a Londra per una «breve sessione di registrazione», mentre martedì la polizia ha detto che la sua morte non è trattata come «sospetta». Il corpo è stato trovato all’hotel Hilton di Park Lane.

I Cranberries diventarono molto famosi nel periodo in cui uscirono i loro primi due dischi. Suonavano un rock molto influenzato dalla musica tradizionale irlandese: tra gli elementi più apprezzati e riconoscibili c’era proprio la voce di O’Riordan, che era caratterizzata da un forte accento e fu determinante per il successo del gruppo. Nel maggio del 2017, dopo aver pubblicato una raccolta dei loro maggiori successi, i Cranberries avevano annullato il loro tour europeo dopo poche date a causa dei problemi di salute di O’Riordan, che sul sito della band erano stati descritti come problemi alla schiena. Poco prima di Natale O’Riordan aveva scritto un post su Facebook in cui diceva di sentirsi meglio e di aver cantato alcune canzoni ad un evento privato. Lo scorso 4 gennaio aveva pubblicato una sua foto su Twitter dicendo «Andiamo in Irlanda».

O’Riordan era nata nel 1971 a Limerick, nel sud ovest dell’Irlanda, aveva sei fratelli e diventò la voce dei Cranberries nel 1990, dopo aver letto un annuncio su un giornale locale (la band Cranberry Saw Us cercava una cantante). Insieme ai Cranberries pubblicò sette dischi, l’ultimo dei quali uscito nel 2017. Il loro primo successo fu la canzone “Linger”, del 1993, che raggiunse la Top 10 delle classifiche americane e irlandesi.

No Need To Argue, uscito nel 1994, fu il disco di maggiore successo, con circa 17 milioni di copie vendute nel mondo. Conteneva “Zombie”, la canzone che diede ai Cranberries la fama internazionale e che diventò una delle più famose degli anni Novanta. Fu scritta dopo gli attacchi di Warrington, compiuti nel 1993 dall’Irish Republican Army (IRA), l’organizzazione militare indipendentista irlandese, in cui furono uccisi un bambino di tre anni e uno di dodici: il testo della canzone parlava delle violenze compiute nel Novecento nella lotta per l’indipendenza dell’Irlanda del Nord dal Regno Unito.

Nel 2003 i Cranberries si sciolsero, perché i membri volevano dedicarsi alle rispettive carriere da solisti: O’Riordan pubblicò da solista Are You Listening? nel 2007 e No Baggage nel 2009, prima di riunirsi con la band nel 2009. O’Riordan aveva tre figli, avuti con il marito Don Burton, ex tour manager dei Duran Duran, dal quale si era separata dopo vent’anni di matrimonio nel 2014. Quello stesso anno, O’Riordan era stata arrestata all’aeroporto di Shannon, in Irlanda, perché aveva aggredito una hostess su un volo di linea e un agente di polizia che nel frattempo era intervenuto: non subì però una condanna perché le fu diagnosticato un disturbo bipolare.

In un’intervista del 2013 citata da BBC O’Riordan raccontò di essere stata abusata quando era una bambina e che in seguito sviluppò un disturbo alimentare. In quell’occasione parlò della sua famiglia, e in particolare dei suoi figli, come della sua «salvezza».

Fonte: Il Post

venerdì 12 gennaio 2018

In Germania c’è un pre-accordo per una nuova grande coalizione

È stato trovato questa notte tra CDU e SPD, a più di 100 giorni dalle elezioni: le cose ora sembrano mettersi meglio per Angela Merkel

La cancelliera tedesca Angela Merkel (CDU) e Martin Schulz (SPD) durante un incontro a Berlino lo scorso 7 gennaio (Carsten Koall/Getty Images)

A più di 100 giorni di distanza dalle elezioni politiche in Germania, l’Unione Cristiano-Democratica (CDU, conservatore) e il Partito Socialdemocratico (SPD, centro-sinistra) hanno stretto un accordo per avviare le trattative che serviranno a definire una nuova coalizione, con l’obiettivo di formare un governo e mettere fine a uno dei più lunghi periodi di incertezza politica nella storia tedesca recente. Per la cancelliera uscente Angela Merkel, che dopo le elezioni ha ricevuto il mandato di governare nuovamente, la buona notizia arriva al termine di settimane molto difficili, durante le quali si era parlato dell’eventualità di tornare a votare per risolvere la situazione.

L’accordo è stato raggiunto nella notte tra giovedì e venerdì, dopo giorni di trattative e discussioni sui punti più importanti dell’eventuale programma di governo condiviso tra i due partiti più importanti della Germania. Ora potrebbero essere comunque necessarie settimane, prima che sia fissato un progetto definitivo per governare in coalizione. Il programma dovrà essere concordato in ogni dettaglio, in modo da garantire stabilità al nuovo governo e aumentare le sue probabilità di durare per l’intera legislatura. Da questo punto di vista, la politica tedesca è di solito molto pragmatica, come hanno dimostrato i governi precedenti di “grande coalizione”, che hanno visto CDU e SPD collaborare per lungo tempo.

Dopo le elezioni dello scorso settembre, Merkel aveva provato a mettere insieme una coalizione che comprendesse CDU (e il partito fratello bavarese CSU), Verdi e Partito Liberale Democratico. Le trattative non erano però andate a buon fine, fallendo a novembre dopo numerosi incontri e tentativi di mediare tra la richieste dei vari esponenti politici, con Merkel sempre più in difficoltà. Riscontrata l’impossibilità di creare una coalizione a tre, Merkel aveva chiesto un confronto con l’SPD, dicendo di essere comunque aperta all’eventualità di tornare a votare, se fosse stato necessario per sbloccare la situazione.

Il lungo periodo di incertezza, che ora sembra essere destinato a risolversi, aveva creato seri problemi d’immagine ad Angela Merkel e logorato almeno in parte la sua leadership non solo in Germania, ma anche nell’Unione Europea. Le trattative delle prossime settimane saranno quindi fondamentali non solo per dare un governo ai tedeschi, ma anche per rilanciare l’immagine di Merkel in ambito internazionale. La Germania è la forza economica più importante dell’Unione Europea e le politiche volute in questi 12 anni dalla sua cancelliera hanno contribuito molto alla sua stabilità. L’Unione Europea ha davanti a sé sfide molto importanti, da Brexit ai problemi economici e dei migranti, e molti leader europei attendono che la Germania abbia un governo per avere un interlocutore su questi temi.

Quello raggiunto nella notte, è bene ricordarlo, è solamente un “pre-accordo”. L’SPD è stato finora molto cauto sul tema della nuova grande coalizione, considerato che i precedenti anni di governo con la CDU/CSU lo hanno ampiamente logorato e reso meno credibile sulle sue proposte di centro-sinistra. I membri del partito dovranno approvare l’avvio delle trattative in un’assemblea, organizzata per il prossimo 21 gennaio. Ottenuta l’approvazione, i leader del partito concorderanno con quelli della CDU/CSU i punti chiave del programma di governo.

Fonte: Il Post

Ignazio Marino è stato condannato per peculato e falso

L'ex sindaco di Roma è stato giudicato colpevole di aver pagato cene personali con i soldi del comune


L’ex sindaco di Roma Ignazio Marino è stato condannato in appello a due anni per le spese fatte con la carta di credito del comune. Marino, che era stato assolto in primo grado, è stato condannato per i reati di falso e peculato. Secondo i giudici, Marino avrebbe speso 13 mila euro per 26 cene avvenute «in tempi liberi da impegni istituzionali». Diversi ristoratori, inoltre, avrebbero riconosciuto nell’unico altro partecipante alla cena la moglie del sindaco. In altre parole, Marino avrebbe usato la carta di credito del comune per pagare alcune sue cene personali. Marino è stato invece assolto dall’accusa di truffa per alcuni presunti pagamenti irregolari a un dipendente della sua Onlus Imagine. Il cosiddetto “scandalo degli scontrini” è uno dei numerosi episodi che spinsero il Partito Democratico a ritirare il suo appoggio al sindaco di Roma e a far cadere la giunta nell’ottobre 2015.

Fonte: Il Post

martedì 9 gennaio 2018

Raffale Marra – ex dirigente del comune di Roma – è stato rinviato a giudizio, il processo inizierà il 20 aprile


L’ex dirigente del comune di Roma Raffaele Marra è stato rinviato a giudizio con l’accusa di falso. Il suo processo inizierà il prossimo 20 aprile. Marra, ex capo del personale, è accusato di aver favorito il fratello per fargli ottenere un posto in comune. Marra è un ex ufficiale della Guardia di Finanza, a lungo collaboratore dell’ex sindaco di Roma Gianni Alemanno. La sindaca Virginia Raggi lo considerava uno dei suoi collaboratori più fidati e lo ha difeso pubblicamente più volte, anche dagli attacchi degli altri membri del Movimento 5 Stelle. Marra era indagato insieme a Raggi, accusata di falso per aver avvallato le nomine di Marra. Raggi ha richiesto di essere giudicata con rito immediato. Il suo processo inizierà il 21 giugno.

Fonte: Il Post

Cosa si sono dette le due Coree nel loro primo vertice in due anni

L'8 gennaio 2018 sono iniziati i colloqui di alto livello tra Corea del Nord e Corea del Sud durante i quali, tra le altre cose, si è discusso della partecipazione di atleti nordcoreani alle Olimpiadi invernali di Pyeongchang

Il ministro sudcoreano per l'Unificazione, Cho Myung-Gyun, stringe la mano al delegato nordcoreano Ri Son-Gwon, durante il vertice dell'8 gennaio 2018 a Panmunjom. Credit: Afp/ Dong-A Ilbo 

Funzionari delle due Coree si sono incontrati dopo più di due anni in un vertice di alto livello. Tra i primi risultati raggiunti vi è quello secondo il quale la Corea del Nord invierà una delegazione ai Giochi olimpici invernali del 2018 che si terranno in Corea del Sud, Pyeongchang, a febbraio 2018.

La delegazione includerà atleti, funzionari, osservatori e sostenitori.

I colloqui sono iniziati l’8 gennaio nel “villaggio della pace” o della “tregua” di Panmunjom nella zona smilitarizzata al confine tra i due paesi. Dopo che la guerra coreana si concluse con una tregua nel 1953, Panmunjom fu designato come l’unico luogo in cui i funzionari di entrambe le parti potessero incontrarsi.

La Corea del Sud ha inoltre proposto di tenere riunioni familiari durante le Olimpiadi invernali per le persone separate dalla guerra di Corea.

I funzionari di Seoul hanno proposto che gli atleti di entrambe le Coree possano marciare insieme alla cerimonia di apertura a Pyeongchang come hanno fatto ai Giochi olimpici invernali del 2006.

Tra le proposte “politiche”, la Corea del Sud ha inoltre avanzato l’idea di riprendere i negoziati sulle questioni militari e sul programma nucleare di Pyongyang, dicendosi disposta a revocare temporaneamente le sanzioni, in coordinamento con le Nazioni Unite, per facilitare la partecipazione del Nord alle Olimpiadi.

La risposta del Nord alle diverse proposte del Sud non è ancora stata resa nota.

Nel suo discorso per il nuovo anno, il leader nordcoreano Kim Jong-un aveva detto che stava pensando di inviare una squadra alle Olimpiadi. Il capo delle Olimpiadi della Corea del Sud aveva già detto in precedenza che gli atleti del Nord sarebbero stati i benvenuti.

Dopo l’apertura rappresentata dal discorso di Kim Jong-Un, Seoul ha colto la palla al balzo, proponendo i colloqui di alto livello, evento che non si verificava da almeno due anni.

Pyongyang ha accettato di prendere parte ai colloqui solo dopo che gli Stati Uniti e la Corea del Sud hanno accettato di ritardare le esercitazioni militari congiunte fino a dopo le Olimpiadi.

Alcuni critici negli Stati Uniti vedono la mossa del Nord come un tentativo di dividere l’alleanza USA-Corea del Sud.

Poco più di una settimana fa la Corea del Nord stava minacciando la guerra nucleare: ieri una delegazione di Pyongyang ha attraversato la linea di demarcazione che divide la Corea del Nord e del Sud e ha confermato che una delegazione nordcoreana parteciperà ai Giochi di Pyeongchang.

Si tratta di un cambiamento improvviso e drammatico dopo mesi di tensione. Ma pochi credono che questo possa rappresentare un primo inizio in un eventuale percorso per la distensione tra i due paesi.

Gli esperti sostengono che il leader della Corea del Nord, Kim Jong-un, ha sempre più paura che gli Stati Uniti stiano pianificando un attacco militare contro di lui, e ha deciso di fare qualcosa per allentare le tensioni.

La Corea del Nord aveva boicottato i giochi olimpici del 1988 a Seoul.

Fonte: The Post Internazionale

venerdì 5 gennaio 2018

Auguri Peppino


Oggi, 5 gennaio, Peppino Impastato avrebbe compiuto 70 anni. Peppino era un militante della sinistra extraparlamentare. Sin da ragazzo si era battuto contro la mafia, denunciandone i traffici illeciti e le collusioni con la politica. Il 9 maggio del 1978 nel piccolo paese di Cinisi, a 30 km da Palermo, viene ucciso. Il suo corpo viene dilaniato da una carica esplosiva posta sui binari della tratta Palermo-Trapani. A far uccidere Peppino fu Gaetano Badalamenti, il capo di Cosa Nostra negli anni settanta.

Di Pietro dice che forse si ricandida

Con il PD, con Liberi e Uguali o con tutti e due: «Nel mio Molise, come indipendente per il centrosinistra»

(ANSA/DANIEL DAL ZENNARO)

Su Repubblica di venerdì c’è un’intervista di Sergio Rizzo ad Antonio Di Pietro, ex magistrato famoso per l’inchiesta Mani Pulite e poi leader dell’Italia dei Valori, partito alleato del centrosinistra che per molti versi anticipò il Movimento 5 Stelle, nei toni e nei contenuti. Di Pietro ha detto:


«In effetti sto valutando se candidarmi. Nel mio Molise».
Con chi?
«Come indipendente per il centrosinistra. Nel maggioritario, ovviamente».


Di Pietro ha spiegato che deve ancora decidere definitivamente, ma che nel caso si candiderebbe con il Partito Democratico o con Liberi e Uguali, oppure vorrebbe presentarsi come candidato di entrambi i partiti, nonostante siano avversari: «Me l’hanno chiesto tutti, di candidarmi».

Di Pietro ha lasciato l’IdV nel 2014: nello stesso anno il partito aveva preso lo 0,65 per cento alle elezioni europee, mentre alle politiche del 2013 il partito era nella coalizione Rivoluzione Civile, rimasta fuori dal Parlamento per aver ottenuto soltanto il 2,2 per cento dei voti.

Nell’intervista con Rizzo, Di Pietro ha anche parlato della sua esperienza politica, dicendo che l’IdV è stato «apripista del Movimento 5 Stelle», e che «lo sbaglio più grosso l’ho fatto nella costruzione della classe dirigente del partito», riferendosi alle candidature di parlamentari controversi come Sergio De Gregorio, Domenico Scilipoti e Antonio Razzi.

Fonte: Il Post

Il processo a Virginia Raggi inizierà il 21 giugno


Il giudice per l’udienza preliminare ha accolto la richiesta della sindaca di Roma Virginia Raggi, di essere giudicata col rito immediato nel processo che subirà per falso al tribunale di Roma. Secondo l’accusa, Raggi mentì alla responsabile anticorruzione del comune di Roma in merito alla nomina a capo del dipartimento del Turismo di Renato Marra (fratello di Raffaele, l’ex capo del personale del comune poi arrestato con l’accusa di corruzione).

Grazie alla richiesta, Raggi salterà la fase di udienza preliminare che era già stata fissata per il 9 gennaio, a meno di due mesi dalle elezioni politiche. Il processo “regolare” inizierà invece il 21 giugno.

Fonte: Il Post

giovedì 4 gennaio 2018

Come stanno le cose sui sacchetti biodegradabili di frutta e verdura a pagamento

Una nuova legge introduce nei supermercati dei nuovi sacchetti leggeri, che dovranno pagare i consumatori

ANSA

Dal primo gennaio 2018 è entrata in vigore una legge, approvata lo scorso agosto, che porta delle novità nell’uso dei sacchetti di plastica leggeri e ultraleggeri nei supermercati: per intenderci, sono quelli comunemente utilizzati per imbustare frutta, verdura, carne e salumi, che – tra le altre cose – sono tra i principali responsabili dell’inquinamento dei mari. La norma ha previsto l’introduzione di nuovi sacchetti biodegradabili da far pagare ai consumatori, al pari delle normali buste della spesa. Il costo dei sacchetti potrà variare da un negozio all’altro, ma dovrebbe aggirarsi tra 1 e 5 centesimi ciascuno. I sacchetti, come già quelli biodegradabili venduti alle casse dei supermercati, potranno essere usati per contenere i rifiuti organici.

La legge è quella di conversione del decreto legge 2017 n. 91, Disposizioni urgenti per la crescita economica del mezzogiorno, e dice che i sacchetti (chiamati spesso “shopper”) con spessore della singola parete inferiore a 15 micron siano biodegradabili e compostabili, certificati da enti appositi. I nuovi sacchetti dovranno essere composti da materiali biodegradabili per il 40 per cento, che diventerà 50 per cento dal primo gennaio 2020 e 60 per cento dal primo gennaio 2021. Per chi non rispetta la nuova legge si prevedono sanzioni che vanno dai 2.500 ai 25 mila euro.

Quello che ancora non è chiaro è se nei supermercati sarà possibile utilizzare buste portate da casa al posto dei sacchetti biodegradabili a pagamento, o se lo si potrà fare solo con i prodotti acquistati al mercato. Il Fatto Alimentare scrive che questa idea «è stata bocciata dalle catene dei supermercati per motivi igienici (poco plausibili), logistici (impossibilità di controllare i prodotti acquistati se i sacchetti non sono trasparenti), e di sicurezza (contenitori di materiale inadatto al contatto con gli alimenti)», ma spiega che «la circolare del Ministero dello sviluppo economico del 7 dicembre 2017 ammette la possibilità di usare borse riutilizzabili, anche se rimanda per il benestare definitivo a un parere del Ministero della salute che dovrebbe valutare gli aspetti igienici e quelli sanitari». Sicuramente non si potrà usare la stessa busta per più prodotti, visto che devono essere confezionati in sacchetti diversi a seconda del costo.

Fonte: Il Post

Almeno 28 morti in Siria per i bombardamenti di caccia russi sui civili

Tra le vittime anche dei bambini. Il 31 dicembre due soldati russi erano stati uccisi in un attacco dei miliziani dell'opposizione armata siriana


Secondo quanto riferito dall’Osservatorio siriano per i diritti umani, almeno 28 persone sono morte nelle ultime 24 ore in seguito ad alcuni attacchi di caccia russi e dell’artiglieria dell’esercito fedele al governo di Bashar al-Assad in zone residenziali dell’enclave ribelle assediata in Ghouta orientale, alla periferia di Damasco.

Tra le vittime ci sono anche undici donne, sette bambini e un volontario dei Caschi bianchi, l’organizzazione umanitaria per la difesa dei civili in Siria.

L’attacco potrebbe rappresentare una rappresaglia per l’uccisione, avvenuta il 31 dicembre, di due militari russi nella aerea di Hmeymim, a sud di Latakia. Secondo quanto riferito dal ministero della Difesa russo il 4 gennaio, i responsabili dell’attentato sarebbero dei miliziani dell’opposizione armata siriana.

“Il 31 dicembre 2017, al calar della notte, il campo d’aviazione di Hmeymim ha subito un improvviso fuoco di mortaio da parte di un gruppo di miliziani sovversivi: due militari sono rimasti uccisi nel bombardamento”, recita il comunicato del ministero della Difesa russo.

Sempre secondo questo comunicato, citato dall’agenzia di stampa russa TASS, ci sarebbero state 10 violazioni del cessate il fuoco in Siria nelle ultime 24 ore.

Secondo il ministero russo, la maggior parte di queste si è verificata in territori controllati dal gruppo terroristico al-Nusra, legato ad al-Qaeda.

A maggio, Russia, Iran e Turchia hanno raggiunto un accordo per stabilire in Siria quattro zone di de-escalation dove è vietato condurre attacchi. Queste si trovano in Ghouta orientale, alla periferia di Damasco, nella provincia meridionale di Daraa, nell’area circostante la città di Homs e nella provincia di Idlib, insieme ad alcune aeree delle vicine province di Aleppo, Latakia e Hama.

Al momento, quasi 400mila civili sono assediati in Ghouta orientale dalle forze fedeli al governo di Damasco.

Fonte: The Post Internazionale

mercoledì 3 gennaio 2018

Ma esiste, poi, il “pulsante nucleare”?

Trump si è vantato di averne uno «più grande» di quello di Kim Jong-un, ma in realtà non esiste: qual è la procedura per un attacco nucleare

(AP Photo/Pablo Martinez Monsivais, File)

Dopo aver visto un video in cui il dittatore nordcoreano Kim Jong-un si vantava di avere un pulsante nucleare sulla propria scrivania, il presidente statunitense Donald Trump ha scritto su Twitter di possederne uno «più grande» e «più potente». Non è vero, come molte delle cose che dice Trump: un pulsante del genere non esiste – la procedura per avviare un attacco nucleare è molto più complessa – e l’unico pulsante che Trump ha sulla scrivania di cui abbiamo conoscenza serve a ordinare una Coca Cola.

Non sappiamo se la procedura che permetterebbe a Kim Jong-un di ordinare un attacco nucleare sia così semplice, ma quella in vigore negli Stati Uniti non prevede un pulsante.

Secondo quello che si sa, in ogni posto che visita al di fuori della Casa Bianca il presidente statunitense è accompagnato da un funzionario che ha il compito di portare una valigetta – chiamata anche nuclear football – che contiene il black book, cioè una lista di obiettivi pronta all’uso per un eventuale attacco nucleare, e in qualche caso i codici veri e propri, che sono scritti su una carta di plastica grande più o meno come una carta di credito (chiamata anche “il biscotto”).

Il “biscotto” contiene un codice che il presidente deve comunicare in caso di attacco: prima allo Stato maggiore riunito, cioè all’organo che comprende i capi di ciascuna delle forze armate, poi al comando operativo del Dipartimento della Difesa, quindi al Comando Strategico (USSTRATCOM), cioè il centro che materialmente sovrintende l’arsenale nucleare.

La procedura per avviare un attacco nucleare è comunque piuttosto immediata: non durerebbe pochi secondi, come se ci fosse un bottone, ma solamente qualche minuto. Se una mattina Trump si svegliasse con l’idea di colpire tutti gli obiettivi nordcoreani indicati dall’intelligence e desse materialmente l’ordine, nessuno avrebbe l’autorità per fermarlo. Al massimo qualche funzionario potrebbe rifiutarsi di eseguire gli ordini: in quel caso però compirebbe un reato di tradimento, e il presidente potrebbe licenziarlo e passare l’ordine al suo vice. Tempo fa il Washington Post aveva spiegato che il rifiuto di vari funzionari di eseguire un ordine del genere rallenterebbe certamente l’esecuzione dell’ordine, ma non la impedirebbe.

Fonte: Il Post

Il M5S ha prorogato il termine per candidarsi alle sue primarie, per «rallentamenti al sito»


Il Movimento 5 Stelle ha prorogato il termine per poter presentare le candidature alle sue primarie per le elezioni politiche, a causa di «rallentamenti al sito». Il termine per presentare la propria candidatura scadeva oggi alle 12, ma è stato prorogato alle 17. Secondo un post apparso sul blog di Beppe Grillo, i rallentamenti sono dovuti a «un picco di accessi» da parte degli iscritti che intendevano candidarsi. Non è la prima volta che i siti legati al Movimento 5 Stelle hanno problemi di sicurezza e guai tecnici: di recente moltissimi iscritti avevano avuto varie difficoltà a votare alle primarie online per scegliere il leader di partito, vinte da Luigi Di Maio.

Fonte: Il Post

È morto il magistrato Ferdinando Imposimato, aveva 81 anni

Fu parlamentare e giudice istruttore in molti importanti processi degli anni Settanta e Ottanta, come quello sul rapimento di Aldo Moro


È morto a 81 anni Ferdinando Imposimato, magistrato italiano conosciuto per essere stato giudice istruttore in diversi importanti casi di terrorismo politico in Italia, come il rapimento di Aldo Moro e l’omicidio del vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura Vittorio Bachelet, oltre che nel caso dell’attentato a papa Giovanni Paolo II del 1981. Imposimato era stato ricoverato lo scorso 31 dicembre al Policlinico Gemelli di Roma nel reparto di rianimazione.

Imposimato era nato il 9 aprile 1936 a Maddaloni, in provincia di Caserta. Suo fratello Franco, sindacalista, fu ucciso dalla camorra nel 1983. Imposimato era stato anche senatore e deputato, tra il 1987 e il 1996, candidato come indipendente per il Partito Comunista Italiano. A partire dalla fine degli anni Ottanta collaborò con le Nazioni Unite come consulente legale per la lotta al traffico di droga in Sud America. Negli ultimi anni era stato nominato presidente onorario aggiunto della Corte di Cassazione, e si era avvicinato al Movimento 5 Stelle, diventando una delle personalità più apprezzate dai sostenitori del partito di Beppe Grillo, che lo avevano anche considerato come possibile presidente della Repubblica nelle consultazioni online che organizzarono nel 2013.

Fonte: Il Post

lunedì 1 gennaio 2018

Buon Anno


Auguro a tutti i lettori, assidui o frequentatori, e a tutti i blog amici di trascorrere un sereno e felice Anno Nuovo


Andrea De Luca