(ANSA/ALESSANDRO DI MARCO)
La sera del 25 gennaio 2016 Giulio Regeni, un ricercatore italiano dell’università di Cambridge, scomparve al Cairo mentre stava lavorando alla sua tesi di dottorato sui sindacati egiziani. Il suo corpo venne trovato nove giorni dopo, il 3 febbraio. Era stato abbandonato ai lati di una strada e sul corpo c’erano i segni di innumerevoli torture. «Ho riconosciuto mio figlio solo dalla punta del naso», ha raccontato sua madre, Paola Regeni. Due anni dopo, nonostante i forti sospetti sul coinvolgimento delle autorità egiziane nel sequestro e nell’omicidio, non si conoscono ancora i responsabili e le indagini sembrano essere arrivate a un punto morto.
Cosa sappiamo degli ultimi giorni di Regeni
Alle 19.41 del 25 gennaio Regeni mandò un messaggio alla sua ragazza: «Esco». Fu il suo ultimo messaggio, scritto mentre stava raggiungendo a piedi la fermata della metropolitana più vicina a casa sua. Regeni, che aveva 28 anni, viveva in un appartamento nel quartiere Dokki di Giza, una città a una ventina di chilometri a sud-ovest del Cairo. Era uscito per raggiungere la festa di compleanno di un amico, organizzata vicino a piazza Tahir, la piazza più importante del Cairo.
Regeni era stato a casa tutto il giorno, anche perché il 25 gennaio non era una data come le altre: era il quinto anniversario della rivoluzione del 2011, quella che portò alla caduta di Mubarak e alla successiva ascesa dei Fratelli Musulmani. La situazione non era tranquilla, come tutti i 25 gennaio dal 2011 a oggi: nelle ore precedenti la polizia egiziana aveva compiuto migliaia di perquisizioni per bloccare iniziative e proteste contro il governo del presidente Abdel Fattah al Sisi. Il quartiere un po’ periferico dove viveva Regeni, comunque, non ne era stato coinvolto. Regeni scomparve quella sera nel tragitto da casa sua al posto dove era stata organizzata la festa con gli amici. Su quello che accadde tra la sera del 25 gennaio e il 3 febbraio ci sono solo sospetti.
Quello che sappiamo per certo era il motivo per cui Regeni si trovava in Egitto. Stava lavorando a una ricerca sui sindacati indipendenti dei venditori ambulanti, un tema politico molto delicato in Egitto. Regeni cominciò a studiare i venditori di strada adottando un approccio conosciuto come “ricerca partecipata”, un metodo che prevede di trascorrere molto tempo con i soggetti della ricerca. Una data che sembra importante nella ricostruzione di quello che successe dopo è l’11 dicembre 2015, quando Regeni partecipò a un incontro pubblico e autorizzato sui sindacati indipendenti. Accaddero due cose: la prima è che Regeni fu impressionato dagli argomenti e dall’energia emersi dalla riunione, e ci scrisse sopra un articolo con frasi abbastanza forti; la seconda è che durante l’incontro a un certo punto gli si avvicinò una donna con il velo e lo fotografò. Regeni non era tra gli oratori e l’episodio lo mise in agitazione, raccontarono alcuni amici.
Poi successe un’altra cosa. Nell’autunno 2015 Regeni aveva ottenuto un finanziamento di 10mila sterline da una fondazione britannica che si occupa di progetti di sviluppo. Era una somma di denaro che Regeni avrebbe potuto usare come sostegno per le ricerche del suo dottorato e come aiuto per le persone che stava studiando. Ne parlò con Mohamed Abdallah, uno dei leader del sindacato indipendente dei venditori di strada, che però si mostrò interessato più ai soldi che al progetto in sé. Il 7 gennaio Abdallah denunciò Regeni alle autorità egiziane. Dopo la morte di Regeni, Abdallah raccontò a un giornale egiziano di averlo fatto per proteggere il suo paese, ma insistette nel dire di non essere una spia. Gli egiziani hanno ammesso di aver indagato Regeni ma sostengono che il caso fu archiviato dopo tre giorni, senza conseguenze.
In risposta all’omicidio e ai depistaggi compiuti dalle autorità egiziane, nell’estate del 2016 il governo Renzi decise di ritirare l’ambasciatore italiano in Egitto, Maurizio Massari. Nell’agosto 2017, dopo circa un anno di assenza e in seguito a una maggiore collaborazione da parte della procura di Giza, il governo ha nominato un nuovo ambasciatore in Egitto, Giampaolo Cantini.
Le indagini
Le indagini condotte dalle autorità egiziane produssero quello che la procura di Roma, che collabora con la procura di Giza, ha definito una lunga sequenza di tentativi di depistaggio. La procura egiziana disse in un primo momento che Regeni era morto in un incidente stradale. La tesi fu smentita quando venne eseguita l’autopsia in Italia: Regeni era morto per lo spezzamento del collo, dopo essere stato sottoposto a numerose torture. I suoi denti erano stati spezzati, le sue mani fratturate. Gli investigatori italiani arrivati in Egitto furono ostacolati in ogni modo. Non gli venne permesso di interrogare i testimoni, se non in presenza della polizia egiziana e per pochi minuti. La procura di Giza richiese troppo tardi i video delle telecamere che si trovavano vicino al luogo della sparizione: i filmati di quella notte, a quel punto, risultavano essere già stati cancellati.
Ma il caso di despitaggio più clamoroso fu il modo in cui vennero ritrovati i documenti di Regeni. Il 24 marzo il ministro degli Interni egiziano scrisse su Facebook che il caso era risolto: i colpevoli erano quattro membri di una banda criminale «specializzata nel fingersi agenti di polizia, nel sequestrare cittadini stranieri e rubare loro i soldi». I sequestratori erano stati tutti uccisi in uno scontro a fuoco con la polizia, quindi non poterono fornire la loro versione.
Il governo egiziano diffuse comunque le foto del passaporto di Regeni, della sua carta d’identità italiana, di una carta di credito e del suo tesserino dell’Università di Cambridge, tutto materiale che secondo gli agenti era stato trovato in possesso del gruppo di criminali. La ricostruzione, però, non resse che pochi giorni. Venne fuori che al momento della scomparsa di Regeni il capo della banda criminale si trovava a più di 100 chilometri dal luogo del sequestro. E c’erano altre cose che non tornavano: per esempio le autorità egiziane non seppero spiegare il motivo per cui dei criminali comuni avrebbero dovuto torturare Regeni per una settimana intera prima di ucciderlo.
L’attività degli investigatori italiani portò comunque qualche risultato, scrivono Carlo Bonini e Giulio Foschini su Repubblica.
Oggi sappiamo che Giulio fu oggetto di una stringente attività di spionaggio ingrassata dalla paranoia degli apparati del regime egiziano alla vigilia del quinto anniversario della rivoluzione di piazza Tahrir. Che quella attività fu alimentata dal tradimento di chi Giulio si fidava, l’allora leader del sindacato degli ambulanti, Mohammed Abdallah (uomo dal passato miserabile e dal presente disperato, in cerca di denaro facile per sostenere l’operazione di cancro di sua moglie), pronto a venderlo nella sua veste di informatore di polizia e Servizi. Che a consegnare a Giulio la patente di “spia”, quale non era, per conto dei Servizi britannici, fu la “”colpa” del suo lavoro di ricerca condotto per l’università di Cambridge. Che della “pratica Regeni” si occupò la National security agency, il servizio segreto civile che aveva e ha come suo referente politico il ministro dell’Interno Abdel Ghaffar, l’altra figura chiave del regime con il presidente Al Sisi e contraltare di quest’ultimo. Che il regime egiziano per due anni ha depistato le indagini, arrivando a concepire e consumare la macabra messa in scena della morte di cinque innocenti da offrire all’Italia come responsabili della morte di Giulio.
Queste informazioni, scrivono i due giornalisti di Repubblica, provengono da «un’informativa dello Sco della Polizia e del Ros dei Carabinieri consegnata e condivisa dalla Procura generale del Cairo, nel dicembre scorso, che identifica nove, tra poliziotti e agenti dei Servizi, che aldilà di ogni ragionevole dubbio, furono coinvolti quantomeno nel sequestro di Giulio».
Le inchieste dei giornali
Accanto alle indagini ufficiali, nel corso degli ultimi due anni sono state pubblicate diverse inchieste giornalistiche. Del caso si è occupata l’agenzia di stampa Reuters che nell’agosto 2016 pubblicò uno dei primi articoli a sottolineare l’importanza dei rapporti di Regeni con i sindacati dei venditori ambulanti. A ottobre dello stesso anno il Guardian pubblicò una lunga ricostruzione dell’intera vicenda, in cui il giornalista Alexander Stille scrisse che la causa della morte di Regeni era probabilmente dovuta al clima di paranoia che in quel periodo stava vivendo il regime egiziano, quando le agenzie di sicurezza sospettavano qualsiasi straniero di essere una spia e un potenziale complice di forze rivoluzionarie.
Tra dicembre e gennaio, media arabi ed egiziani raccontarono la storia di Abdallah, il sindacalista che aveva denunciato Regeni. Fu pubblicato anche un video, che mostrava il sindacalista chiedere dei soldi al ricercatore egiziano, mentre nell’agosto del 2017, il New York Times scrisse che il governo italiano aveva ricevuto informazioni da quello americano sul coinvolgimento dei servizi segreti egiziani nella sparizione. Il governo italiano disse però che erano informazioni generiche, senza riscontri.
Anche la stampa italiana si è occupata a lungo del caso, seguendo le indagini della polizia e dei carabinieri italiani in Egitto e quelle della procura di Roma. Oltre a concentrarsi sulle responsabilità del governo egiziano, i giornalisti italiani si sono occupati a lungo dei professori di Regeni, accusandoli spesso di averlo “mandato allo sbaraglio”, spingendolo a fare ricerche in un ambiente molto rischioso. Alcuni quotidiani sono arrivati a suggerire che Regeni potesse essere stato manipolato e utilizzato più o meno inconsapevolmente come spia dai suoi professori. L’Università di Cambridge ha sempre respinto le accuse e ha difeso la professionalità di Regeni, sostenendo che era del tutto qualificato per il suo compito. Anche la procura di Roma ha seguito questa pista, interrogando e sequestrando diverso materiale alla professoressa Rabab El Mahdi, tutor di Regeni. Per il momento però non sono emerse prove di un comportamento scorretto da parte dell’università.
La situazione oggi
In una lettera al Corriere della Sera pubblicata oggi, il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone spiega l’attuale stato delle indagini e la loro difficoltà. Racconta, per esempio, come sulla base delle informazioni raccolte dagli investigatori italiani sarebbe già possibile arrivare ad alcune conclusioni.
In una indagine ordinaria, sulla base dell’informativa depositata la Procura avrebbe potuto già trarre alcune, seppur parziali conclusioni. Invece, la collaborazione tra i due uffici impone un percorso più lento e faticoso: condividere l’informativa, dare il tempo ai colleghi di studiarla e, quindi, valutare assieme a loro le successive attività da compiere. Un iter complesso, basato sul reciproco spirito di collaborazione. Un metodo che non può avere la speditezza che tutti noi desidereremmo. Ma è l’unico possibile. Qualunque fuga in avanti da parte nostra si trasformerebbe in un boomerang in grado di vanificare quanto fin qui con fatica costruito.
Pignatone poi rivendica i successi della procura, che ha contribuito a evitare che le indagini prendessero strade sbagliate, per esempio insistendo sull’inesistente attività di spionaggio di Regeni o sull’ipotesi che a compiere l’omicidio fossero stati criminali comuni. Nella sua lettera, Pignatone critica l’Università di Cambridge per le “contraddizioni” nelle versioni che sarebbero state fornite su quanto accaduto a Regeni, e ringrazia invece il procuratore Nabeel A. Sadek, che guida le indagini in Egitto. «Da parte nostra», conclude la sua lettera, «possiamo assicurare che proseguiremo con il massimo impegno nel fare tutto quanto sarà necessario e utile affinché siano assicurati alla giustizia i responsabili del sequestro, delle torture e dell’omicidio di Giulio».
Fonte: Il Post
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