La crisi economica continua a manifestarsi foriera di opportunità per l’imprenditoria di rapina, governata da banche e multinazionali, che proprio fra le pieghe del tracollo economico passato e venturo sta portando a compimento tutta una serie di obiettivi che solo una decina di anni fa sarebbero sembrati eccessivamente ambiziosi e difficilmente raggiungibili.
La progressiva limatura al ribasso dei salari (reali) dei lavoratori, la soppressione dei diritti acquisiti nel tempo, ottenuta con la complicità dei sindacati e la sempre maggiore diffusione del dumping sociale, hanno rappresentato gli strumenti attraverso i quali il lavoratore è stato deprivato della propria dignità e trasformato in una figura precaria, priva di coordinate, costretta a manifestarsi prona a qualsiasi capriccio o volere gli venga imposto in funzione di un interesse superiore.
Se la trasformazione dei lavoratori in individui mal pagati, di scarse pretese, duttili e condiscendenti rispetto ad ogni esigenza “superiore”, anche qualora in netto contrasto con i propri interessi, ha posto le basi per una migliore massimizzazione dei profitti, tale obiettivo può essere ulteriormente implementato attraverso la pratica del ricatto occupazionale che proprio sulle ali della crisi economica sembra trovare sempre più massiccia applicazione.
Gli esempi più eclatanti, sul tappeto proprio in questi giorni, sono costituiti dai casi relativi alla multinazionale americana Alcoa, al Gruppo Fiat e alle multinazionali della raffinazione petrolifera.
L’Alcoa (multinazionale dell’alluminio responsabile di gravissimi stravolgimenti ambientali in Islanda) minaccia la chiusura di due stabilimenti, in Sardegna e in Veneto, con conseguente licenziamento di circa 2000 lavoratori, se il governo non accetterà le proprie condizioni. Condizioni che comportano il “baratto” dei posti di lavoro con una tariffa energetica personalizzata che permetta all’azienda (la produzione dell’alluminio è fra le pratiche in assoluto più energivore) di pagare l’energia molto meno degli altri, magari caricando il costo dell’operazione sulle bollette di tutti gli italiani, già infarcite di tasse e prelievi di ogni sorta.
La Fiat, da sempre azienda privata sovvenzionata dallo stato a fondo perduto, intenzionata a chiudere gli impianti produttivi di Termini Imerese e Pomigliano, come contemplato nel proprio piano di ristrutturazione e delocalizzazione all’estero della produzione, ha iniziato anch’essa un braccio di ferro con il foraggiatore di sempre. Sul piatto anche in questo caso il futuro di alcune migliaia di lavoratori, in cambio di una grande quantità (centinaia di milioni di euro) di denaro pubblico, da devolvere come sempre a fondo perduto, nella speranza che il disimpegno Fiat nei confronti dell’impianto siciliano e di quello napoletano possa venire procrastinato di qualche anno.
L’Unione Petrolifera, per bocca del suo presidente Pasquale De Vita, ha fatto sapere in questi giorni che a causa della riduzione dei consumi e del calo della domanda mondiale, sarebbero a rischio chiusura cinque raffinerie, con conseguente perdita del posto di lavoro per circa 7500 dipendenti. Le raffinerie a rischio sarebbero quelle di Livorno e Pantano, Falconara, Gela e Taranto. Secondo le parole di De Vita, al di là della riduzione dei consumi il vero problema sarebbe costituito dagli alti costi della manodopera e dalle troppo severe normative in materia di riduzione delle emissioni inquinanti. In cambio del mantenimento in vita dei 7500 posti di lavoro l‘UP non domanda in questo caso l’elargizione di sovvenzioni a fondo perduto, ma afferma di “accontentarsi” di un quadro normativo meno severo che le permetta d’inquinare più abbondantemente senza incorrere in sanzioni, con l’unica clausola che vengano tacitate le associazioni dei consumatori, ree in quest’ultimo periodo di reiterati attacchi nei suoi confronti.
Dal momento che la strada ormai è tracciata, resta da aspettarsi nei prossimi mesi ed anni un vero e proprio fiorire di ricatti occupazionali di ogni sorta, avendo la grande imprenditoria di rapina ben compreso la concreta possibilità di “riciclare” il lavoratore vessato e spogliato dei diritti in formidabile arma di ricatto per ottenere prebende, sgravi fiscali, finanziamenti a fondo perduto, deroghe ad inquinare e tutele di vario genere. A ben guardare si potrebbe affermare che per alcuni soggetti, quali grandi banche e multinazionali, la crisi economica stia rivelandosi un vero e proprio toccasana per rimpinguare i bilanci e costruire sempre nuovi profitti, se possibile più abbondanti di quelli del passato. Un toccasana, la crisi economica, arrivato proprio nel momento in cui si apprezzava il bisogno di aprire “nuovi orizzonti”, a volte stupisce quanto puntuali possano essere le fatalità.
Fonte: Il Corrosivo
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