(ALBERTO PIZZOLI/AFP/Getty Images)
I dipendenti di Alitalia hanno respinto con un referendum il pre-accordo che era stato raggiunto tra la compagnia aerea e i sindacati, con la mediazione dei rappresentanti dei ministeri del Lavoro e dello Sviluppo Economico, per definire i tagli e i licenziamenti da attuare per rilanciare la società: l’affluenza è stata molto alta (circa il 90 per cento degli aventi diritto è andato a votare) e i “no” sono stati il 67 per cento del totale dei voti.
La bozza di accordo era stata concordata tra azienda e sindacati dopo settimane di trattative e scioperi, indetti quando a metà marzo Alitalia aveva annunciato un piano di rilancio aziendale per gli anni 2017-2021 che prevedeva un aumento dei ricavi e un taglio dei costi compresi quelli per il personale e per i salari. I sindacati avevano deciso di sottoporre la bozza di accordo all’approvazione dei 12.500 dipendenti di Alitalia, che hanno votato da giovedì scorso alle 16 di lunedì, in nove seggi tra Milano e Roma. Avevano fatto campagna a favore del sì i sindacati CISL, UIL e UGL, e anche la segretaria della CGIL Susanna Camusso aveva riconosciuto l’importanza della trattativa.
Con il respingimento del pre-accordo, la grave situazione di Alitalia è ulteriormente complicata. Il ministro per lo Sviluppo Economico Carlo Calenda domenica aveva detto che con questo risultato «si va verso il rischio concretissimo di una liquidazione della compagnia», e che il governo «non è intenzionato a mettere ancora soldi pubblici dentro Alitalia». Lo scenario che è stato previsto è quello di un’amministrazione straordinaria, ipotizzata dal ministro dei Trasporti Graziano Delrio: è una procedura istituita nel 2003 dopo la crisi di Parmalat. Prevede che il governo nomini da uno a tre commissari, che nel giro di qualche mese preparino un piano industriale per cessare le attività, riportare la società in attivo oppure venderla a una terza parte (la procedura prevede che l’acquirente mantenga tutti gli attuali posti di lavoro per almeno due anni). Come ha spiegato al Corriere Cesare Cavallini, docente di Diritto fallimentare alla Bocconi, la soluzione dell’amministrazione straordinaria è più complicata per Alitalia, rispetto per esempio a Parmalat o Ilva, perché la società dovrebbe continuare a erogare i propri servizi, con i creditori che vorranno essere pagati subito e il conseguente accumulo di debiti. Questo significa che l’ipotesi di mandare avanti la società nella sua forma attuale, cercando di riportarla in attivo, è molto difficile. Anche trovare un acquirente per una società così grande molto vicina al fallimento è assai arduo, e perciò secondo Cavallini l’ipotesi più probabile è quella che gli eventuali commissari facciano richiesta di fallimento. È anche quello che pensa il presidente di Alitalia Luigi Gubitosi, che nei giorni scorsi ha detto che l’unica possibilità in caso di vittoria del no è «un accompagnamento verso la liquidazione dell’azienda, il fallimento».
Se avesse avuto l’approvazione del referendum, il consiglio di amministrazione di Alitalia avrebbe voluto riunirsi domani per autorizzare una ricapitalizzazione della società per 2 miliardi di euro e ottenere così nuova liquidità. In parte i soldi sarebbero stati ottenuti da una conversione in azioni dei crediti delle banche che avevano prestato soldi ad Alitalia, soprattutto Intesa Sanpaolo e Unicredit. Altri dovevano arrivare da nuovi prestiti e linee di credito, fornite dalle banche stesse. Assieme al piano finanziario, Alitalia avrebbe presentato anche un piano industriale per il rilancio della compagnia: tra le altre cose, aveva spiegato nei giorni scorsi il presidente Luigi Gubitosi, si sarebbero rinegoziati gli accordi con Air France e Delta, i contratti di leasing troppo costosi, l’apertura di nuove rotte a lunga percorrenza, e altri tipi di investimenti.
Nel piano iniziale di Alitalia erano previsti 1.338 esuberi del personale a tempo indeterminato, che nel pre-accordo erano stati ridotti a 980, attraverso il superamento «dei progetti di esternalizzazione delle aree manutentive e di altre esternalizzazioni, il ricorso alla cassa integrazione straordinaria entro il maggio 2017 per due anni, l’attivazione di un programma di politiche attive del lavoro (riqualificazione e formazione del personale) e misure di incentivazione all’esodo, e miglioramenti di produttività ed efficienza». Era previsto anche un taglio dell’8 per cento degli stipendi del personale di volo (inizialmente era del 30 per cento), la riduzione di un o una assistente di volo negli equipaggi a lungo raggio e una riduzione dei riposi dai 120 annuali a 108 con minimo di 7 al mese. Ma il referendum tra i lavoratori ha ora rifiutato anche questo approccio. I dati sono così sintetizzati dal Sole 24 Ore:
A Milano (dove il personale Alitalia è costituito da piloti e assistenti di volo) ha stravinto il no. A Linate i voti contrati sono stati 698 no e i favorevoli 153. A Malpensa i no sono stati 278, i sì 39 (2 bianche e 2 nulle). A Roma, il primo parziale risultato, relativo all’urna che accoglieva i voti del personale di volo (non di quello di terra), mostrava a Fiumicino in netto vantaggio il no con 2315 voti, contro 226 sì. I seggi per votare a Roma erano sei, di cui cinque a Fiumicino e uno alla Magliana. La proclamazione dell’esito del referendum è atteso in nottata.
Il piano originale per il rilancio di Alitalia era stato deciso per provare a risolvere l’ennesima crisi della compagnia aerea, che ora appartiene per il 51 per cento alla cordata di imprenditori italiani CAI, e a Etihad, che di fatto la gestisce con il 49 per cento delle azioni.
Fonte: Il Post
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