martedì 3 novembre 2009

Carceri: è ora di aprire un riflessione seria

In carcere si vive. Lo sanno bene gli oltre 61 mila uomini e donne che abitano le nostre sovraffollate galere. E in carcere si muore. Le due vicende molto diverse tra loro di Stefano Cucchi e di Diana Blefari Melazzi ce lo hanno messo sotto gli occhi. Anche se non ci piace guardare questo aspetto della vita prigioniera. Nella notte in cui si è uccisa Diana Blefari, un altro detenuto si è tolto la vita e il drammatico conteggio dei suicidi dietro le sbarre tenuto da Ristretti è salito a sessantuno. Sessantuno vite spezzate, appese alle sbarre, soffocate dal gas dei fornelletti, finite per sempre. Poi ci sono i morti per malattia, per “cause da accertare”, per overdose. Centoquarantasei detenuti morti in carcere in dieci mesi. Della maggior parte di loro si sa poco o nulla. Non meritano neanche qualche riga sul giornale. E poi è meglio non parlare di questi cittadini che affidati alla giustizia tornano cadaveri. Ricordo le parole di una madre al funerale del figlio trovato morto qualche anno fa nella sua cella di Rebibbia: “ho consegnato mio figlio alla giustizia giovane e sano. Lo ritrovo oggi tossicodipendente, malato di aids e morto”.

La morte tutta da chiarire di Stefano Cucchi e il suicidio annunciato di Diana Blefari Melazzi alzano il coperchio su questo dramma, sull’omertà che vige non solo nella Napoli del video dell’uccisione a volto scoperto ma anche nei luoghi della Giustizia, con la G maiuscola, sulle carenze della tutela della salute di chi è rinchiuso in carcere.

Speriamo che tutto ciò serva a riaprire la discussione sulle carceri che non può essere liquidata con un progetto edilizio e che serva migliorare la condizione di vita di decine di migliaia di persone condannate alla privazione della libertà ma non alla morte, alla malattia, alla disperazione e alla perdita della dignità. Perché il carcere deve “tendere alla rieducazione del condannato” come sancisce la Costituzione italiana e non alla sua distruzione fisica o mentale.


Concordo con quest'articolo. La speranza è veramente quella di migliorare la condizione di vita di chi vive in carcere. Il carcere deve essere un vero e proprio luogo di rieducazione e di crescita come una scuola. Lo Stato deve tutelare i carcerati, e non abbandonarli e lasciarli morire. Sono comunque esseri umani e non bestie!

6 commenti:

@enio ha detto...

ma si rimettiamoli tutti fuori, che diamine !!! e vediamo in quanti giorni riavremo lo stesso problema e staremo quì a riparlarne! La tizia che si è impiccata era una brigatista non era santa bernadetta !

SCIUSCIA ha detto...

Ma chi ha parlato di mettere fuori chi?
E' possibile che non si possa affrontare un argomento senza cadere in sparate?

Kaishe ha detto...

A parte il discorso sul "merito" o meno di stare in galera, che forse non ci compete.
Il problema, lo SCANDALO, è eventualità che potrebbe interessare TUTTI di essere fermati per una sciocchezza e capitare in un girone infernale dal quale si esce solo morti.
L'episodio di Cucchi non è il primo del quale sappiamo.
I familiari dei morti non hanno diritto alla verità?
Tutti i cittadini italiani non hanno diritto di sapere se la Giustizia è GIUSTA?

Andrea De Luca ha detto...

Ripeto la mia opinione che ho espresso nell'articolo: la speranza è veramente quella di migliorare la condizione di vita di chi vive in carcere. Il carcere deve essere un vero e proprio luogo di rieducazione e di crescita come una scuola. Lo Stato deve tutelare i carcerati, e non abbandonarli e lasciarli morire. Sono comunque esseri umani e non bestie!

vincenzo ha detto...

CIRCOLO
SANDRO PERTINI
TROMELLO

OLTRE LE SBARRE
Il carcere tra diritto alla sicurezza e
dovere della rieducazione

Conversazione pubblica

partecipano
VINCENZO ANDRAOUS
Tutor e responsabile servizi interni
della Casa del Giovane di Pavia

PATRIZIA ROMANO
Responsabile provinciale PD
per la giustizia e sicurezza


SALA RIUNIONI
MUNICIPIO DI TROMELLO (PV)
(ingresso da via Laboranti)
VENERDI’ 27 NOVEMBRE
ore 21.00
Tutti i cittadini sono invitati

Referente la Dott.ssa Paola Comelli 347-5309715

vincenzo ha detto...

GIUSTIZIA CHE NON ABBANDONA MAI NESSUNO AL PROPRIO DESTINO

C’è una distesa di sangue e di corpi intorno a noi, è scompaginata la storia sotto di noi, è in atto un vero e proprio abbattimento dei sentimenti.
Scorrono le immagini alla tv, le foto sui quotidiani, i labiali dei commentatori sembrano ghigni, alla meno peggio scrollate di spalle, l’obiettivo da raggiungere è convincere, non stabilire come lo si fa.
Eppure in carcere il cittadino muore a ritmo di sei detenuti al mese, in strada si cade tumefatti da entità invisibili, si spara alle spalle, alla testa, nel mucchio, è tutto un video show che non trattiene commozione, unicamente scariche di adrenalina a poco prezzo, infatti “non succede a me, accade agli altri”.
C’è chi ricatta, chi compra, chi vende, per qualcosa di ipocritamente proibito, chi addirittura inventa un gioco nuovo in una sociologia vetusta, per riuscire a sentirci innocenti di essere colpevoli, per una realtà altamente ingiusta, sino a rendere la vita un salvadanaio che non rigetta monete, neppure quando sono sporche di sangue.
Il dispendio di violenza fisica, psicologica, verbale, ha decretato la sconfitta dei buoni sentimenti, delle emozioni, meglio renderle inoffensive, e circuirle, e addomesticarle, costringerle mansuete con la disattenzione più colpevole.
Pena certa, giustizia giusta, chi sbaglia paga, sono diventati slogan per obbligare la mente a non fare il proprio dovere, costringendo in condizioni vergognose pilastri universali come la compassione, la pietà, il perdono, giungendo a mettere al muro della berlina mediatica, quanti non intendono accettare una giustizia che offre verità poco corrispondenti alla realtà.
Quando si parla di carcere, di punizione, lo si fa senza tentare quanto meno di raggiungere una meta sociale possibile, senza inciampare nelle giustificazioni, nelle spiegazioni più inverosimili, trasformando la speranza di un preciso interesse collettivo in una pratica di minore importanza, rispetto agli interessi presuntamene superiori.
C’è sempre meno spazio per la commozione, la riflessione, aumenta la spinta a colpire la pancia, a mettere fuori gioco la compassione etico cristiana, quella che si muove dentro ogni persona, e fa cambiare di assetto, di volontà politica, perché coinvolge ognuno a immedesimarsi, a consegnare una risposta, non rimanendo ancorati a una ingiustizia travestita di rancore.
Tutto ciò non dimissiona alcuna responsabilità, non relega a una parte infinitesimale i frammenti che compongono una persona, la normale anormalità della morte, del dolore e della sofferenza, di chi è vittima e di chi è colpevole, di coloro che scontano la propria condanna e tentano di riparare, di ritornare a essere parte viva del consorzio sociale, nel silenzio laborioso della rivisitazione.
Quando scompaiono le idee, gli ideali, rimangono le rivalse, le rivincite, che non producono nulla, che non tutelano alcuno, tradendo il compito di aprire a un altro scenario, che può finalmente significare non solo la necessità-esigenza di una riforma, ma la nascita di una giustizia vera, alta, condivisa, davvero, che non assolve né condanna in nome di qualche recondito potere contrattuale, una giustizia che possiede attenzione sufficiente a non abbandonare mai nessuno al proprio destino.