sabato 18 febbraio 2017

A che punto sono nel PD

Le cose da sapere sull'assemblea nazionale di domenica, uno dei momenti più delicati nei quasi dieci anni di storia del partito

(FILIPPO MONTEFORTE/AFP/Getty Images)

Domenica si riunirà a Roma l’assemblea nazionale del PD – una specie di “parlamento” del partito – ed è una riunione importante, perché potrebbe sancire la prima grande scissione nella storia del Partito Democratico, a poco meno di dieci anni dalla sua nascita. Nel corso dell’assemblea Matteo Renzi annuncerà le sue dimissioni da segretario del partito, innescando così il processo che porterà al prossimo congresso per scegliere il suo successore. Renzi vuole che la data venga anticipata rispetto alla scadenza prevista per l’autunno, in modo da non tenere il partito in una situazione incerta di segretari “reggenti” o senza un mandato forte; sostiene che dopo il referendum del 4 dicembre sia necessario coinvolgere di nuovo gli iscritti e i simpatizzanti del partito e vorrebbe probabilmente ricandidarsi alla segreteria, vincere e ottenere così un nuovo forte mandato popolare prima di affrontare una serie di difficili appuntamenti elettorali il prossimo giugno.

Gli oppositori di Renzi dopo il referendum chiedevano di fare il congresso subito, prima di eventuali elezioni anticipate: oggi chiedono invece che il congresso si svolga a settembre, sia per avere il tempo di elaborare un nuovo programma condiviso con il resto del partito sia per aumentare le loro possibilità di vittoria, al momento piuttosto ridotte. In caso contrario, almeno una parte minaccia di uscire dal partito: e per la prima volta dopo quasi dieci anni le chiacchiere infinite sulla “scissione del PD” sembrano avere almeno qualche concretezza. È una vicenda in cui si intrecciano antipatie personali, calcoli politici e motivazioni ideologiche e che, in parte, riflette nel nostro paese uno scontro in corso in quasi tutti i grandi partiti della sinistra europea.

Cose da sapere sull’assemblea nazionale
Si svolgerà domenica all’hotel Parco dei Principi a Roma e comincerà alle 10 di mattina. All’assemblea sono convocati circa 1.500 delegati, di cui circa due terzi sono stati eletti alle primarie del partito del dicembre 2013, tramite le liste collegate ai candidati segretario. Una larga maggioranza dell’assemblea, secondo alcuni circa il 75 per cento, sostiene Renzi. Al momento, non c’è ancora un ordine del giorno, ma è probabile che l’assemblea cominci con un discorso del presidente del partito Matteo Orfini a cui seguirà una relazione con cui Renzi dovrebbe formalizzare le sue dimissioni.
Bisognerà tenere d’occhio anche la presenza o meno degli esponenti della minoranza che si oppone a Renzi: chi ci sarà tra di loro e chi deciderà di intervenire. Da questi elementi sarà possibile capire se ci sarà una scissione e nel caso quali dimensioni avrà.

Dopo i discorsi iniziali comincerà un dibattito; potrebbero essere presentati ordini del giorno o altre mozioni da mettere al voto. L’atto conclusivo della giornata sarà il voto con cui l’assemblea deciderà di sciogliersi in seguito alle dimissioni del segretario. In quel caso il presidente del partito dovrà fissare la data delle elezioni per il nuovo segretario e per la nuova assemblea nazionale entro i quattro mesi successivi, cioè al più tardi alla metà di giugno. Le date più probabili, però, sono aprile o i primi giorni di maggio: ci vogliono come minimo due mesi per svolgere tutti i passaggi che richiedono le primarie, il momento finale del congresso.

Il PD si divide?
Tra gli oppositori di Renzi ci sono posizioni molto diverse sull’opportunità di uscire dal partito. I due estremi sono rappresentati da Massimo D’Alema – il più determinato a lasciare il PD, che secondo i giornali avrebbe già deciso di andarsene – e dal ministro della Giustizia Andrea Orlando, il più incline ad accettare una mediazione. Anche i cosiddetti “bersaniani” sembrano vicini all’abbandono, mentre sembrano più incerti i presidenti di regione, Michele Emiliano della Puglia ed Enrico Rossi della Toscana: entrambi si sono candidati alla segreteria ed entrambi meno di due mesi fa volevano fare il congresso subito. La trattativa per cercare di evitare la scissione al momento è condotta soprattutto dall’area centrista del partito, il cui esponente più importante è Dario Franceschini, ministro della Cultura ed esponente della maggioranza di Renzi. Franceschini ha proposto di anticipare il congresso, come vuole Renzi, ma di rimandarlo il tanto che basta da soddisfare almeno una parte della minoranza: si parla di spostare le primarie da aprile a maggio.

Nelle ultime ore si è discusso molto di quanto serie siano queste trattative e quanto impegno ci stiano mettendo i vari componenti del PD per cercare di evitare la frattura. I bersaniani, per esempio, sono accusati di aver preso già da tempo la loro decisione e di essere soltanto in cerca di una scusa per lasciare il partito. Dall’altra parte, in un video diffuso venerdì mattina, si sente il ministro per le Infrastrutture Graziano Delrio dire – senza sapere di essere registrato – che Renzi non ha fatto nemmeno una telefonata per sanare la situazione. Poche ore dopo però il presidente della Puglia Emiliano ha detto di aver ricevuto una telefonata da Renzi. Poi, sabato mattina, Emiliano ha scritto su Facebook di essere riuscito a convincere Renzi a sostenere Gentiloni fino al 2018 e a rimandare il congresso fino a settembre. Il segretario del PD non ha ancora risposto pubblicamente ad Emiliano.


Secondo molti, a questo punto per Renzi sarebbe un successo se riuscisse a limitare la scissione a D’Alema e i bersaniani, mantenendo nel partito Emiliano, Rossi e il ministro Orlando.

Le ragioni della frattura
Sono molte e varie e in genere più complesse di come sono state presentate. Spesso i giornali hanno sottolineato le antipatie personali tra i vari leader di minoranza e maggioranza, accumulate nel corso degli scontri degli ultimi anni: e il fatto che Renzi sia stato il primo segretario della storia del PD – e dei partiti di centrosinistra che lo hanno preceduto – a vincere il congresso battendo la vecchia classe dirigente formata negli anni del PCI. Ma ci sono anche ragioni di tattica politica.

Renzi, per esempio, ha bisogno di ricevere una nuova investitura popolare prima delle elezioni amministrative di giugno e dei referendum della CGIL, due eventi che rischiano di andare molto male per il PD. Una larga vittoria alle primarie subito prima dell’eventuale sconfitta alle amministrative e al referendum avrebbe probabilmente l’effetto di neutralizzare molte delle critiche che gli arriverebbero dall’interno del partito. Per le stesse ragioni la minoranza preferirebbe affrontare Renzi in autunno, dopo le eventuali sconfitte che ne indebolirebbero ulteriormente la leadership.

Oltre alla tattica, ci sono anche questioni di politica più “alta”: se ne parla da mesi, ma sono emerse in particolare nel corso della direzione nazionale del partito lunedì scorso, quando diversi esponenti hanno chiesto uno spostamento a sinistra del partito. Secondo Bersani, ma ultimamente lo hanno detto anche leader della maggioranza, come il presidente Orfini e Orlando, negli ultimi anni il PD si è spostato troppo verso il centro, cedendo una parte del suo elettorato storico a formazioni populiste e di destra radicale, come il Movimento 5 Stelle e la Lega Nord. La soluzione che propongono è riportare al centro del programma del partito temi della sinistra tradizionale, come le tutele sul lavoro e lo stato sociale. In altre parole chiedono che il PD compia un “ritorno a sinistra” come in questi ultimi mesi hanno fatto molti altri partiti socialdemocratici europei; dall’altra parte, Bersani e i suoi governavano il PD fino al 2013, cioè pochissimo tempo fa, applicando proprio questa linea più tradizionale e di sinistra: e le elezioni politiche successive per il PD andarono disastrosamente male.

Renzi non si è mai espresso chiaramente sui programmi futuri che intende adottare come leader di partito, e rivendica di aver fatto alcune cose più di sinistra di quelle dei suoi predecessori, dai famosi 80 euro al Jobs Act. I suoi sostenitori dicono che il luogo dove discutere questi temi è il congresso, dove i candidati alla segreteria si sfidano presentando i loro programmi e confrontando la loro linea politica. La minoranza risponde che il congresso è principalmente uno scontro tra persone, che non permette di risolvere questioni complesse come quelle che riguardano il programma del partito. Per questa ragione, nel suo intervento alla direzione di lunedì scorso, Orlando aveva chiesto una “conferenza programmatica”, cioè un momento in cui il partito si riunisce per elaborare i confini politici entro i quali le sue varie componenti politiche possono riconoscersi. La mediazione di Franceschini servirebbe anche a questo: allungare il congresso di un mese, in modo da consentire – in teoria – un dibattito politico sulla direzione da far prendere in futuro al partito.

La questione della legge elettorale
L’ultimo punto importante da tenere presente è che la scissione all’interno del PD è in qualche modo favorita dalle attuali leggi elettorali. Con un sistema maggioritario, come quello in vigore fino alle ultime elezioni, i partiti sono incentivati ad allearsi per formare ampie colazioni in grado di ottenere il premio di maggioranza (come nel caso del famoso Porcellum) oppure per vincere i collegi assegnati col maggioritario (come con il Mattarellum). Il PD, nato nel 2007 dall’alleanza di socialdemocratici, liberaldemocratici e cristianosociali, ha una “vocazione maggioritaria”, che consiste nel diluire le differenze in modo da raccogliere il numero maggiore di consensi possibili.

Ma in Italia oggi c’è un sistema proporzionale che non crea incentivi ad alleanze e coalizioni, anzi. Con il proporzionale è più conveniente presentarsi agli elettori con un programma e un’identità chiari, in modo da raccogliere il consenso degli elettori che hanno preferenze specifiche, senza diluire la propria natura in una coalizione eterogenea. Questo è il motivo, per esempio, per cui Silvio Berlusconi sembra incline a presentare Forza Italia da sola, e non in un’unica lista insieme alla Lega. In caso di scissione del PD, quindi, nascerebbe in teoria un partito di sinistra dall’identità forte che sarebbe favorito dal sistema proporzionale. Inoltre, in seguito alla scissione la minoranza del PD potrebbe avere in Parlamento un numero sufficiente di deputati e senatori per bloccare ogni tentativo di modificare l’attuale legge elettorale in senso maggioritario.

Fonte: Il Post

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