domenica 21 novembre 2010

Dell’Utri, ecco la sentenza: “Fece il mediatore tra Berlusconi e Cosa nostra”

Marcello Dell’Utri “ha svolto, ricorrendo all’amico Gaetano Cinà ed alle sue ‘autorevoli’ conoscenze e parentele, un’attività di ‘mediazione’ quale canale di collegamento tra l’associazione mafiosa cosa nostra, in persona del suo più influente esponente dell’epoca Stefano Bontate, e Silvio Berlusconi, così apportando un consapevole rilevante contributo al rafforzamento del sodalizio criminoso al quale ha procurato una cospicua fonte di guadagno illecito rappresentata da una delle più affermate realtà imprenditoriali di quel periodo, divenuta nel volgere di pochi anni un vero e proprio impero finanziario ed economico”. Sono queste le conclusioni a cui è arrivata la Corte d’Appello che ha giudicato Marcello Dell’Utri, condannandolo a sette anni per concorso esterno in associazione mafiosa. Secondo la Corte Dell’Utri non avrebbe svolto quel ruolo di mediazione per aiutare l’amico Berlusconi a risolvere i suoi problemi con le richieste di Cosa nostra, ma “ha invece coscientemente mantenuto negli anni amichevoli rapporti con coloro che erano gli aguzzini del suo amico e datore di lavoro, incontrando e frequentando sia Gaetano Cinà che Vittorio Mangano, pranzando con loro ed a loro ricorrendo ogni qualvolta sorgevano problemi derivanti da attività criminali rispetto ai quali i suoi amici ed interlocutori avevano una sperimentata ed efficace capacità di intervento”. In questo modo “ha oggettivamente fornito un rilevante contributo all’associazione mafiosa cosa nostra consentendo ad essa, con piena coscienza e volontà, di perpetrare un’intensa attività estorsiva ai danni del facoltoso imprenditore milanese imponendogli sistematicamente per quasi due decenni il pagamento di ingenti somme di denaro in cambio di ‘protezione’ personale e familiare”.

“NESSUN PROVA DEL PATTO POLITICO” - La Corte ha ridotto di due anni la pena di Dell’Utri (che in primo grado era stato condannato a nove anni) perché, a parere dei giudici, mancherebbero “elementi certi” che provino “condotte di contributo materiale ascrivibili a Marcello Dell’Utri aventi rilevanza causale in ordine al rafforzamento dell’organizzazione criminosa” dopo il 1992. Su questa parziale riforma della sentenza di primo grado (condanna fino al 1992 ma assoluzione dal 1992 al 1994) si era molto dibattuto dopo la sentenza: assolvendo il fondatore di Forza Italia negli anni della sua attività politica in molti speravano che la Corte mettesse una pietra definitiva sulle accuse di collusione mafiosa che, da Dell’Utri, si estendevano di riflesso a Berlusconi. Nelle motivazioni della sentenza depositate ieri si legge che “non sussiste alcun concreto elemento ancorché indiziario comprovante l’esistenza di contatti o rapporti, diretti o indiretti, tra Marcello Dell’Utri ed i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano”, gli uomini con cui, secondo l’accusa, Dell’Utri avrebbe intavolato una trattiva politica per conto di Berlusconi (nonostante la Corte confermi rapporti diretti di Dell’Utri con uomini vicini ai fratelli Graviano, documentati dalle stesse agende del senatore). “L’obiettivo e rigoroso esame dei dati processuali acquisiti, costituiti prevalentemente da plurime dichiarazioni di collaboratori di giustizia, non ha evidenziato - da parte dei giudici - prove certe idonee a supportare la grave accusa contestata a Marcello Dell’Utri di avere stipulato nel 1994 un accordo politico-mafioso con cosa nostra nei termini richiesti per la configurabilità della fattispecie” di concorso esterno in associazione mafiosa “nel caso paradigmatico del patto di scambio tra l’appoggio elettorale da parte della associazione e l’appoggio promesso a questa da parte del candidato”. Tuttavia “tra la fine del 1993 ed i primi mesi del 1994, in concomitanza con la nascita del partito politico di Forza Italia, voluto da Silvio Berlusconi e creato con il determinante contributo organizzativo di Marcello Dell’Utri, all’interno di Cosa Nostra maturò diffusamente la decisione di votare per la nuova formazione”, ma “il sostegno al nuovo partito di Forza Italia ad opera di molti associati a cosa nostra” è stato “conseguente ad una scelta spontanea originata dalla condivisione della linea garantista che ne caratterizzava l’impegno ed il programma politico”.

“SPATUZZA NON È ATTENDIBILE” – La parte più attesa della sentenza è quella che riguarda le dichiarazioni del pentito Gaspare Spatuzza, che il 4 dicembre, nell’aula bunker di Torino, aveva raccontato in mondovisione che Giuseppe Graviano gli fece “due nomi tra cui quello di Berlusconi. Io chiesi se era quello di Canale 5 e mi disse: sì. C'era pure un altro nostro paesano, Dell’Utri. Graviano disse che grazie alla serietà di queste persone ci avevano messo il paese nelle mani”. Secondo la Corte quelle dichiarazioni, che portarono a mesi di polemiche sui giornali, “al di là del risalto mediatico oggettivamente assunto, si sono palesate prive di ogni effettiva valenza probatoria, sia per l’inutilizzabilità processuale delle mere deduzioni ed inammissibili congetture che hanno caratterizzato l’esame del predetto, sia soprattutto per la manifesta genericità dell’unico concreto riferimento alla persona dell’imputato”. I giudici addirittura rimproverano a Spatuzza di avere “dolosamente taciuto” nei suoi primi interrogatori “quanto egli ha poi affermato di sapere riguardo all’incontro del bar Doney e soprattutto alla grave confidenza ricevuta da Giuseppe Graviano sul conto dell’odierno imputato e di Silvio Berlusconi”. Questo ritardo, che solo “il serrato controesame dei difensori dell’imputato” è riuscito “a fare emergere", è “ingiustificato e rilevante” al punto che “induce a dubitare più che fondatamente anche della credibilità delle sue rivelazioni” su Berlusconi e Dell’Utri. Spatuzza aveva spiegato che “i timori di parlare del presidente del Consiglio Berlusconi erano e sono tanti” e quindi “intendevo prima di tutto che venisse riconosciuta la mia attendibilità su altri argomenti” perché “quando iniziano i primi colloqui c’era come primo ministro Berlusconi”. La Corte non gli crede e arriva addirittura a stabilire che Spatuzza non merita la protezione: “Deve ritenersi provato oltre ogni possibile dubbio che Gaspare Spatuzza ha volontariamente taciuto notizie e informazioni processualmente utilizzabili su fatti o situazioni di particolare gravità che erano a sua conoscenza (…) condotta da cui deriva, secondo l’inequivoco contenuto della legge sopra richiamato, il divieto di concessione delle misure di protezione ovvero, se già accordate, la loro revoca”. E, alla stregua di molti commentatori politici, la Corte, nel valutare l’oggettiva attendibilità delle dichiarazioni di Spatuzza gli accosta giudizi personali negativi (“spietato manovale del terrore, manovrato ed utilizzato dai suoi capi per compiere le più efferate stragi e seminare morti e lutti nel paese”) che, per quanto condivisibili, sembrano quasi piazzati con l’intento di screditarne la moralità.

L’inattendibilità di Spatuzza, poi, sarebbe evidente, secondo la Corte, perché il pentito ha riferito che Giuseppe Graviano, nel raccontargli di avere “il paese nelle mani” sarebbe stato “gioioso, come potrei dire, come se aveva vinto l’Enalotto”. Ma, osserva la Corte, “Giuseppe Graviano, appena qualche giorno dopo quelle tanto entusiastiche quanto infondate previsioni, è stato arrestato a Milano assieme al fratello Filippo iniziando entrambi a patire, sotto il peso di decine di ergastoli, una lunga detenzione, peraltro proprio in regime di 41 bis, che perdura ancora oggi a distanza di oltre 16 anni da quelle improvvide ‘gioiose’ esclamazioni”. Insomma, prima Graviano dice di avere il paese nelle mani e poi si fa arrestare? Impensabile per la Corte che, anzi, dubita dell’intelligenza di Spatuzza: “Risulta davvero incomprensibile allora come Gaspare Spatuzza, avendo assistito all’immediato arresto del suo ‘euforico’ capomandamento e del fratello, nonché nel tempo di tutti gli altri suoi associati mafiosi, prima di essere a sua volta anch’egli arrestato a luglio 1997, possa avere continuato davvero a credere, ormai rinchiuso nella sua cella per tanto tempo in isolamento e sotto il peso dei plurimi ergastoli che si andavano accumulando sulle sue spalle, ripensando alle parole di Giuseppe Graviano al bar Doney, che cosa nostra in quel lontano 1994 avesse il paese nelle mani e soprattutto lo mantenesse ancora nei tanti anni successivi in cui egli doveva fiduciosamente solo attendere che arrivasse ‘ciò che doveva arrivare’”. Tra i tanti rilievi che i giudici muovono a Spatuzza, è “soprattutto” questo a dimostrare l’”inconsistente valenza accusatoria delle poche parole che Spatuzza assume di avere sentito pronunciare da Giuseppe Graviano”.

LE ELEZIONI EUROPEE DEL ’99 – I giudici hanno anche ritenuto infondata l’ipotesi accusatoria secondo cui Dell’Utri avrebbe stretto un patto elettorale con cosa nostra per le elezioni europee del 1999 a cui si era candidato. Nelle intercettazioni ambientali effettuate nell’autoscuola di Carmelo Amato, uomo di Bernardo Provenzano, si sentivano i vertici di Cosa nostra raccomandare a vari affiliati di votare Dell’Utri per proteggerlo da eventuali mandati di cattura della magistratura. Secondo la Corte “per dimostrare la sostanziale inconsistenza probatoria degli elementi emergenti dalle intercettazioni” basta il fatto che non sia stato eletto “arrivando addirittura terzo con 60mila voti” (Dell’Utri otterrà ugualmente un seggio al Parlamento Europeo perché candidato anche in una circoscrizione al nord). Dunque per i giudici non conta il fatto che cosa nostra l’abbia sponsorizzato, ma che questa sponsorizzazione tra i vertici dell’associazione non abbia avuto effetto. Oltretutto, per la Corte, non esiste nemmeno la prova dell’accordo politico mafioso tra Dell’Utri e cosa nostra: in un’intercettazione ambientale del 2001 il boss Guttadauro disse che Dell’Utri aveva preso impegni con Gioacchino Capizzi, capomandamento di Santa Maria del Gesù, ma, si legge nella sentenza, “nessun elemento neppure indiziario supporta la tesi dell’esistenza di un rapporto, anche soltanto mediato, o di contatti tra l’odierno imputato ed il soggetto, Gioacchino Capizzi, citato nella conversazione captata.”

IL RUOLO DI BERLUSCONI – Silvio Berlusconi esce da questa sentenza come un imprenditore vittima di estorsioni e richieste da parte di cosa nostra, a cui ogni volta che “subiva attentati ed illecite richieste” Dell’Utri si proponeva “come soggetto capace, in forza delle sue risalenti conoscenze, di risolvere il problema con l’unico sistema che conosceva, ovvero favorire le ragioni di cosa nostra inducendo l’amico a soddisfarne le pressanti pretese estorsive”. Per i giudici Dell’Utri “è divenuto dunque costante ed insostituibile punto di riferimento sia per Silvio Berlusconi, che lo ha interpellato ogni volta che ha dovuto confrontarsi con minacce, attentati e richieste di denaro sistematicamente subite negli anni, sia soprattutto per l’associazione mafiosa cosa nostra che sfruttando il rapporto preferenziale ed amichevole con lui intrattenuto dai suoi due membri, Gaetano Cinà e Vittorio Mangano, sapeva di disporre di un canale affidabile e proficuo per conseguire i propri illeciti scopi non rischiando denunce ed interventi delle forze dell’ordine". Vittorio Mangano fu assunto ad Arcore non perché Berlusconi avesse bisogno di un fattore per la sua villa, ma per “assumere un soggetto dotato di adeguato e notorio spessore criminale la cui presenza sui luoghi avrebbe dovuto porre al riparo da minacce ed attentati l’imprenditore milanese il quale era entrato evidentemente nel mirino di organizzazioni malavitose operanti in quel periodo ed in quella zona, attratte dal suo crescente successo ed arricchimento personale”. L’unico appunto che la Corte muove al premier è di avere scelto di non denunciare mai le estorsioni, “convinto che in quegli anni difficili pagare chi lo minacciava o formulava richieste estorsive ed intimidazioni, piuttosto che denunciare, fosse il modo migliore di risolvere i problemi.”

IN BREVE la sentenza – scritta dal giudice Salvatore Barresi, noto per essere stato l’estensore anche della sentenza di primo grado del processo per mafia al senatore Andreotti (l’unica che lo assolse, poi ribaltata nei successivi gradi di giudizio) e di cui Massimo Ciancimino ha raccontato che, prima di diventare magistrato, sarebbe stato un assiduo frequentatore del tavolo di poker di suo padre Don Vito – assolve Dell’Utri dalle accuse di avere siglato un patto politico con cosa nostra (che, quindi, pure avendo stretto per trent’anni un legame d’affari con il senatore avrebbe scelto di non sfruttare quel rapporto quando, in un momento di crisi politica per l’associazione criminale, Dell’Utri fonda un nuovo partito di successo). Condanna invece Dell’Utri per avere messo Berlusconi nelle mani della mafia soprattutto, com'era prevedibile, basandosi sui pagamenti “di denaro effettuati dalla Fininvest per l’installazione in Sicilia dei ripetitori televisivi dai primi anni ’80” (per avere parlato del cosiddetto “pizzo delle antenne” in un suo libro, questa estate il magistrato Luca Tescaroli è stato querelato da Fininvest).

Dell’Utri si è detto insoddisfatto della sentenza e ha annunciato di avere cambiato avvocato: “Della risposta alle motivazioni se ne occuperà l'avvocato Krogh”, già difensore di Bassolino, Giraurdo, Cragnotti, Carlo De Benedetti e della famiglia di Emanuela Orlandi.


IL DOCUMENTO: Scarica il testo integrale della sentenza

1 commento:

NoirPink - modello Pandemonium ha detto...

Ah, povero Silvio... Costretto a trattare con i malavitosi, diventando miliardario e capo del governo...