venerdì 24 aprile 2015

«Il blocco navale è irrealizzabile e illegale»

L’Unione Europea ha deciso di triplicare i fondi per “Triton”. L’alternativa proposta da Lega e centrodestra – il blocco navale – non è realistica

Giovanni Zagni

Una barca proveniente dalla Libia vicino a Sfax, sulla costa tunisina, 4 giugno 2011. (HAFIDH/AFP/Getty Images)

Che cosa fare per evitare una nuova strage di migranti nelle acque del Mediterraneo: mentre l’Europa decide di potenziare l’operazione già in corso, “Triton”, il dibattito ruota intorno ad alcune parole ripetute da diversi esponenti politici, in particolare il blocco navale.

Ma il blocco è un’operazione militare dai contorni molto precisi, dicono gli esperti, e al momento non c’è possibilità che venga messa in atto. Il diritto internazionale parla chiaro: senza un esplicito assenso della Libia e delle Nazioni Unite, mettere in pratica un blocco navale lungo le sue coste è un atto di guerra.

Certo non aiuta il fatto che in Libia, al momento, ci siano due governi diversi e in lotta: uno dei due, quello di Tripoli – non riconosciuto da gran parte dei paesi occidentali – ha già detto che non accetterà raid aerei contro le imbarcazioni dei trafficanti sulle sue coste, figurarsi uno schieramento di navi militari autorizzate ad usare la forza a poche miglia dalla riva.

Se poi guardiamo alla storia recente delle politiche messe in atto dal governo italiano (e non solo) in termini di azioni marittime, ci sono pochi precedenti confortanti: misure come il respingimento forzato sono risultate – e in altre parti del mondo risultano – in gravi violazioni dei diritti umani e condanne degli organismi internazionali, senza contare le tante tragedie che hanno causato in modo diretto o indiretto.

Che cosa si è deciso a Bruxelles

L’Europa non ha ancora deciso un chiaro cambiamento di politiche nel Mediterraneo. Giovedì 23 aprile si è tenuta a Bruxelles una riunione speciale del Consiglio europeo, l’organo che riunisce i capi di Stato e di governo dell’Unione, per discutere le misure da prendere per contrastare il traffico illegale dei migranti attraverso il Mediterraneo ed evitare una nuova tragedia come quella del 19 aprile scorso, in cui oltre 700 persone sono morte nel Canale di Sicilia.

Secondo quanto dichiarato dal presidente del Consiglio europeo, il polacco Donald Tusk, l’intesa di massima tra i 28 Paesi dell’Ue è stata raggiunta su alcuni punti fondamentali. Tra questi, gli stati europei hanno dato mandato all’Alta rappresentante per la politica estera Federica Mogherini di proporre azioni per «catturare e distruggere» le imbarcazioni utilizzate dai trafficanti «prima che queste vengano usate».

A Bruxelles si è deciso soprattutto di «triplicare le risorse» destinate all’operazione “Triton”, partita il 1° novembre dello scorso anno con mezzi fortemente ridotti rispetto alla precedente “Mare Nostrum”: attualmente “Triton” costa circa 2,9 milioni di euro al mese, contro i 9,5 di “Mare Nostrum”, e l’aumento riporterebbe quindi l’operazione attuale più o meno agli stessi livelli di finanziamento. I Paesi europei, ha detto Tusk, hanno promesso «molti più vascelli, aerei ed esperti».

Infine, si è deciso un programma pilota per il reinsediamento di alcune migliaia di richiedenti asilo (si parla di 5 mila posti per la prima fase) nei Paesi europei, che parteciperanno però «su base volontaria» (e il Regno Unito, in cui sono prossime le elezioni, si è ad esempio già chiamato fuori).

“Triton” è un’operazione di pattugliamento, che rimane a un raggio di 30 miglia nautiche dalle coste italiane. Non è un’operazione che blocca attivamente gli sbarchi e non ha i mezzi per soccorrere in modo efficace tutte le imbarcazioni in difficoltà tra Italia e Libia. Negli ultimi giorni, molti esponenti politici italiani hanno parlato anche di un altro tipo di azione che invece è presentata come risolutiva: il blocco navale.

Perché si parla di blocco navale

Il giorno prima della riunione di Bruxelles, la Camera dei deputati italiana ha approvato una risoluzione di maggioranza e un’altra presentata da Forza Italia. Le risoluzioni parlamentari hanno solo un generico valore d’indirizzo e non obbligano il governo, ma ha fatto notizia che in quella di Forza Italia si facesse riferimento agli articoli 41 e 42 dello Statuto delle Nazioni Unite, in cui si nominano, tra diverse misure possibili per contrastare «minacce alla pace», anche l’interruzione delle comunicazioni e i blocchi navali.

Nelle ore successive, diversi esponenti di Forza Italia – ad esempio Giovanni Toti e Mariastella Gelmini – hanno espresso il loro sostegno al blocco navale. Un’apertura a questa soluzione c’è stata anche da parte del presidente della commissione Esteri del Senato Pierferdinando Casini e del sottosegretario alla Difesa Gioacchino Alfano, che però ha specificato che dovrebbe essere effettuato dalle autorità locali e dalle organizzazioni internazionali.

Ma il più grande sponsor della misura è probabilmente il segretario della Lega Nord Matteo Salvini, che negli ultimi giorni ha più volte detto che si tratta, a suo dire, dell’unica soluzione possibile al problema degli sbarchi.

Che cos’è il blocco navale?

L’ammiraglio Fabio Caffio, tra i massimi esperti delle questioni di diritto marittimo in Italia, è molto netto: «Credo che ci sia un equivoco terminologico che magari giova a qualcuno. Credo che nessuno si riferisca a un “blocco in mare” intendendo un respingimento coattivo, forzato. Nessuno che abbia un minimo di cognizione del diritto si può immaginare qualcosa del genere». Per questo, prosegue Caffio, «il blocco in mare è irrealizzabile e illegale».

Nel suo Glossario di diritto del mare, del 2007, Caffio spiega quali sono i termini della questione. Il blocco navale è «una classica misura di guerra volta a impedire l’entrata o l’uscita di qualsiasi nave dai porti di un belligerante». I precisi termini della sua applicazione sono definiti dalla consuetudine, visto che in materia non ci sono trattati internazionali, ma si tratta in sostanza di una grande forza aerea e navale che opera a ridosso del Paese che subisce il blocco e che è pronta – anche con la forza – a impedire ogni arrivo o partenza dalle coste, attaccando ad esempio i mercantili che provano a forzarlo.

Il blocco deve essere formalmente dichiarato e notificato agli Stati coinvolti, riguarda le navi di qualsiasi nazionalità e tipo, compresi i mercantili, con l’unica eccezione dei beni di prima necessità e degli aiuti umanitari.

Lo Statuto delle Nazioni Unite citato nella risoluzione di Forza Italia, inoltre, stabilisce che può essere utilizzato solo nei casi di legittima difesa e in una risoluzione dell’Assemblea generale dell’Onu del 1974 è compreso tra gli «atti di aggressione».

I blocchi negli ultimi anni

Un blocco navale vero e proprio è stato avviato anche molto di recente e il caso dà l’idea di quali siano i contesti in cui viene messo in pratica. All’interno dell’intervento militare in Yemen coordinato con diversi altri paesi arabi e sostenuto dagli Stati Uniti, l’Arabia Saudita ha annunciato il 30 marzo scorso un blocco navale delle coste del Paese vicino, cinque giorni dopo l’inizio di una campagna di bombardamenti contro i ribelli Houthi.

Dopo quattro settimane di attacchi aerei l’operazione è stata dichiarata conclusa il 21 aprile, ma il blocco navale continua. Nonostante gli Stati Uniti abbiano sette navi militari nella zona, non partecipano al blocco.

Un altro blocco navale è stato messo in pratica nel marzo 2011, durante l’operazione Nato “Unified Protector” contro il regime di Gheddafi: oltre alla pioggia di missili Tomahawk su obiettivi libici e agli attacchi aerei, le navi militari hanno bloccato le navi rimanendo in acque internazionali.

Altri esempi recenti sono quelli di Israele: alle coste e ai porti del Libano nel luglio-settembre 2006, e da anni alla Striscia di Gaza, al largo della quale la marina israeliana blocca tutte le imbarcazioni – comprese quelle da pesca – se si spingono oltre le 6 miglia marittime dalla costa.

L’operazione di Israele è stata ripetutamente condannata dalle associazioni per i diritti umani, in particolare dopo che commando israeliani salirono a bordo della nave Mavi Marmara, di proprietà di una Ong turca e diretta verso la Striscia di Gaza, e uccisero nove attivisti che si opponevano all’attracco forzato nel porto israeliano di Ashdod per un’ispezione.

Il precedente italiano del 1997

Si parlò di blocco navale contro la Serbia anche nel 1999, durante l’operazione Nato in Kossovo, ma non se ne fece nulla per l’opposizione di Russia e Francia. E il Mediterraneo aveva visto un esempio di blocco – anche se sui generis – pochi anni prima, in un precedente poco fortunato citato a volte anche in queste ore.

Il 25 marzo 1997 il governo italiano di Romano Prodi e quello albanese di Sali Berisha strinsero un accordo a Roma con il quale l’Italia si impegnava – su formale richiesta albanese, il che non lo rende un blocco navale in senso proprio – a impiegare uomini e mezzi a ridosso delle coste albanesi e nelle acque internazionali del canale di Otranto per fermare l’afflusso di migranti verso le coste italiane.

L’operazione scattò già al momento della firma, senza aspettare i protocolli di applicazione (che sarebbero arrivati il 2 aprile); solo due giorni dopo, la motovedetta albanese Katër i Radës, carica di migranti, venne speronata in acque internazionali dalla nave italiana Sibilla: morirono 108 persone. Gli sbarchi, di fatto, non si fermarono, e l’operazione della Marina militare italiana proseguì ancora per qualche mese.

L’accordo con Gheddafi

Al di là dei blocchi navali in senso stretto e della loro fattibilità reale, c’è un altro precedente assai poco onorevole per l’Italia: nel 2009, il governo Berlusconi strinse un accordo con la Libia di Muammar Gheddafi per mettere in atto respingimenti forzati in mare.

A partire dal maggio di quell’anno, le barche vennero trainate di nuovo nei porti libici da cui erano partite dalle unità italiane, senza procedere a nessuna identificazione o valutazione di situazioni che avevano bisogno di assistenza. Non è molto diverso da quanto fa l’Australia dalla fine del 2013 con le barche che provano a raggiungere le sue coste settentrionali – un altro “modello” citato in questi giorni – anche se i flussi migratori sono molto meno ingenti e la situazione non piace ai vicini verso cui vengono trainate le navi né alle Nazioni Unite (senza contare il fatto che l’Australia spende per l’operazione il quadruplo di “Mare Nostrum”).

Quando venne stretto l’accordo con Gheddafi, l’allora ministro degli Interni Roberto Maroni, oggi governatore della Lombardia, parlò di «risultato storico» nel contrasto all’immigrazione clandestina. Le Nazioni Unite protestarono subito contro l’accordo, e presto emersero racconti drammatici – tra torture e maltrattamenti – delle condizioni in cui i libici tenevano i migranti riportati indietro, oltre 500 nel solo primo mese di respingimenti forzati.

Nel 2012, la Corte europea dei diritti umani di Strasburgo ha condannato all’unanimità l’Italia per quella politica: violava il principio internazionale del non respingimento dei migranti e li portava, disse la Corte, in un paese che non garantiva il rispetto dei diritti umani (e che non ha mai ratificato le convenzioni internazionali sui migranti).

In attesa di sapere quali saranno le azioni proposte da Mogherini per distruggere i barconi là dove stanno – in territorio libico, con tutti i problemi giuridici che questo comporta – il dibattito politico italiano gira intorno a soluzioni che, nella storia recente, hanno una lunga serie di precedenti poco edificanti.

Fonte: Linkiesta.it

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