giovedì 2 aprile 2015

Autismo, in Italia mancano anche i dati sulle diagnosi

Le persone affette da autismo sono tra 350 e 500mila. Ma ogni regione cura i pazienti a modo suo

Lidia Baratta

(Flickr/Eleonora Di Quattro)

Silenzi, balbettii, occhi bassi, isolamento. La diagnosi dell’autismo non è immediata. Non c’è alcun difetto fisico che si possa individuare a occhio né un problema di salute evidente da curare. Fino a qualche anno fa bisognava aspettare i tre-quattro anni per diagnosticare la malattia. Oggi si può fare anche a 18 mesi. Che non è una cosa da niente. Perché con l’autismo prima si comincia le terapie rieducative e riabilitative del comportamento meglio è. In Italia gli autistici sono tra i 350 e i 500mila. Dati certi non ne esistono. E già questo fa capire quanta attenzione ci sia verso questa sindrome le cui diagnosi sono in continuo aumento. Gli ultimi dati americani parlano di un bambino ogni 68, quattro volte su cinque si tratta di maschi.

Il 2 aprile l’Onu celebra la Giornata mondiale della consapevolezza dell’autismo. Quella del 2015 è l’ottava edizione. E proprio il 1 aprile è nata a Roma la Fondazione italiana per l’autismo onlus ideata dall’Associazione nazionale genitori soggetti autistici (Angsa) con la collaborazione del ministero dell’Istruzione, e presieduta dal sottosegretario Davide Faraone, anche lui papà di una bimba affetta da autismo (la nascita della fondazione sarà celebrata il 2 aprile a Roma, qui per iscriversi e donare). Il primo compito della fondazione sarà l’avvio della linea blu per l’autismo, un numero verde per dare sostegno alle famiglie e indicazioni sulle cure e le strutture più adeguate sul territorio.

In Italia, ormai da quattro anni esistono le linee guida per il trattamento dei disturbi dello spettro autistico stilate dall’Istituto superiore di sanità e approvate dalla Conferenza Stato Regioni. Ogni regione avrebbe dovuto adeguare le sue strutture a questi standard condivisi, ma finora ognuno ha fatto a modo suo. «Nessuno segue le linee guida perché comportano una riprogrammazione del lavoro nelle singole strutture», spiega Liana Baroni, presidente dell’Angsa. «Bisognerebbe formare adeguatamente gli operatori e rivedere gli accreditamenti. Oggi si fa un’ora di psicomotricità e un’ora di logopedia alla settimana senza neanche un progetto individuale. Se si seguono le linee guida, questo schema va cambiato e adeguato a ciascun paziente».

Negli anni nei cassetti del Parlamento si sono accumulate quattro proposte e diversi disegni di legge. E solo lo scorso 18 marzo una legge organica per la cura e l’inserimento sociale delle persone affette da autismo ha tagliato il primo traguardo, con l’approvazione in sede deliberante in Commissione sanità del Senato. Quattro articoli in tutto che puntano a inserire le attività di riabilitazione delle linee guida tra i Lea, livelli essenziali di assistenza gratuiti o accompagnati dal ticket, che sono in fase di aggiornamento da parte del ministero della Salute. Dove, raccontano i genitori, la presenza delle linee guida finora è stata talmente ignorata che lo stesso dipartimento che si occupa dei Lea non ne era a conoscenza.

«Finora l’autismo è stato confuso tra tutte le altre patologie», spiega Giovanni Marino, papà di due ragazzi autistici e presidente della federazione di associazioni Fantasia. «L’autismo ha bisogno invece di percorsi specifici, con una organizzazione sociale e sanitaria adeguata che dia garanzia della diagnosi e della presa in carico del paziente con progetti individuali costanti lungo tutto l’arco della vita».

Progetti che potrebbero cambiare di anno in anno, visto che l’approccio con l’autismo è in fase di studio ed evoluzione continua. E negli ultimi anni si sono fatti passi da gigante, a partire dall’individuazione delle cause. «Fino a qualche decennio fa si credeva che l’autismo del bambino dipendesse dalla mamma che non voleva in grembo il figlio», racconta Marino. «Così si curavano la mamma e il figlio con sedute psicologiche». Oggi si parla invece di cause biologiche e addirittura genetiche. «Non malati psicologici ma organici, che quindi hanno bisogno di cure specifiche».

Cure che non possono essere uguali per tutti. L’autismo ha diverse sfumature. Si va dalle persone non autosufficienti, che hanno bisogno di aiuto per qualsiasi attività quotidiana, fino a quelli che si laureano e si sposano. La diagnosi è un momento importante. «In passato davanti a bambini che non parlavano o che ripetevano più volte lo stesso suono ci si sentiva dire dal pediatra che erano bambini chiusi e che bisognava aspettare, oggi si può avere la diagnosi precoce già a 18 mesi». La terapia più indicata da attuare subito si chiama Aba, Applied Behavioral Analysis, analisi applicata del comportamento. «Se applicata precocemente cambia la vita», dice Giovanni Marino. «E questo potrebbe far risparmiare sui costi sanitari. Oggi mantenere un autistico non autosufficiente in una residenza costa da 6mila euro in su. Se si punta da subito sullo sviluppo della persona, in futuro si spenderà di meno».

Ma riuscire ad avere la giusta diagnosi in Italia è un po’ una lotteria. «Da noi si parla di un’incidenza di circa il 3-4 per mille», spiega Liana Baroni. «Negli Stati Uniti si sale al 12-13 per mille. Questo significa che da noi le diagnosi sono molte meno. Diversi articoli scientifici dicono inoltre che l’aumento dei casi di autismo non dipende dalla crescita delle diagnosi ma dall’aumento intrinseco della malattia stessa».

E anche la scuola non è preparata. Ogni anno molti bambini si trovano ad avere a che fare con insegnanti di sostegno diversi, e spesso non formati. Se negli elenchi specializzati non è rimasta più alcuna disponibilità, il ministero all’inizio dell’anno scolastico pesca nel mare magnum dei precari. Laureati in matematica, lettere o filosofia accettano di fare gli insegnanti di sostegno per qualche anno per guadagnare punti e salire in graduatoria, nella speranza di arrivare un giorno dietro la cattedra. «In pratica», spiega Giovanni Marino, «si spendono dei soldi per pagare gli insegnanti di sostegno ma senza alcuna efficacia sui bambini malati». Nel disegno di legge sulla “Buona scuola” qualcosa sembra muoversi, con la previsione di percorsi di formazione e graduatorie ad hoc per insegnanti di sostegno specializzati in specifici disturbi. «Avendo due figli autistici», racconta Giovanni Marino, «ogni anno mi sono trovato a dover conoscere insegnanti di sostegno diversi, tutti precari, che cambiavano anche durante l’anno». Una logica, dice, «contraria all’autismo stesso. L’autismo è una patologia antitetica al cambiamento. I ragazzi autistici vogliono sempre gli stessi colori, diventano aggressivi se cambiano classe o si pitturano le pareti di un altro colore».

Una volta usciti dalla scuola, le cose vanno anche peggio. Le alternative sono due: l’isolamento in famiglia, o le residenze. Le strutture private accreditate, al contrario di quanto scritto nelle linee guida, ospitano spesso ospitano oltre 40 persone. Le eccellenze ci sono, ma sono sparse a macchia di leopardo. E non sempre si ha la possibilità di accedervi.

Per quanto riguarda le possibilità di lavoro, le persone affette da autismo rientrerebbero nelle categorie protette. In base a una legge del 1999 le aziende sopra i 15 dipendenti sono obbligate ad assumere un certo numero di lavoratori dalle categorie protette. Ma meno della metà delle aziende rispetta gli obblighi di legge. La stessa cosa vale per la pubblica amministrazione. E oggi l’80% degli autistici non lavora. Senza dimenticare però che «le persone con autismo non possono essere semplicemente portate a lavorare», dice Marino. «Bisogna disegnare un percorso protetto all’interno di un contesto in cui non si cambino abitudini da un giorno all’altro». Il signor Marino, ex ingegnere nucleare in pensione, un percorso del genere lo sta creando in provincia di Reggio Calabria, con la sua Fondazione Marino. «Tre dei dieci ospiti della fondazione avevano raggiunto un livello di autosufficienza tale per cui avrebbero potuto fare esperienze lavorative», racconta. Così a ottobre 2014, vicino alla fondazione è nata una mensa per i poveri in cui i tre ragazzi autistici lavorano. «I ragazzi vanno dalla fondazione alla mensa e hanno le loro abitudini», dice. Il passo successivo? «Mi devo adoperare perché questi ragazzi si sentano sprecati a dormire nella fondazione, e vadano ad abitare in una casa protetta, da dove partono per lavorare magari in un vero ristorante».

Fonte: Linkiesta.it

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