lunedì 28 marzo 2016

Speranze di cura per la malattia di Alzheimer?


Di Marco Cedolin

La malattia di Alzheimer che causa la degenerazione progressiva delle cellule del cervello dei soggetti colpiti, invalidandone la memoria e le capacità cognitive ha un'incidenza che continua ad aumentare in maniera esponenziale dal momento in cui fu scoperta nel 1906 dallo psichiatra e neuropatologo tedesco Alois Alzheimer. Nel 2006 vi erano nel mondo 26,6 milioni di persone malate di Alzheimer che sono salite a 46,8 milioni nel 2015 e secondo le stime del rapporto mondiale Alzheimer 2015 potrebbero raggiungere i 74,7 milioni nel 2030 ed i 131,5 milioni nel 2050....

Nonostante la gravità della patologia e l'incremento della sua diffusione, le ricerche mediche non sono finora riuscite a comprendere appieno i meccanismi attraverso i quali insorge la patologia, né tanto meno a realizzare una qualche forma di cura che possa influenzare significativamente il decorso della malattia. Il malato viene sostanzialmente abbandonato al proprio destino, con una terapia farmacologica palliativa ed il supporto di un'assistenza (familiare o presso le case di riposo) che con il progredire della malattia necessita di essere sempre più pesante e di difficile gestione.

All'orizzonte sembra esserci, perlomeno in nuce, qualche nuova speranza che emerge dalle ricerche più innovative.
Una ricerca compiuta dall'Istituto di biomedicina ed immunologia molecolare del Consiglio nazionale delle ricerche (Ibim-Cnr) di Palermo e pubblicata sulla rivista Biomaterials focalizza la propria attenzione sul rapporto fra insulina ed Alzheimer, partendo dal fatto che i pazienti affetti dal morbo di Alzheimer sviluppano una resistenza all'insulina cerebrale e dunque una condizione considerata fattore di rischio per lo sviluppo della malattia. Da qui l'idea di usare l'ormone come terapia sperimentale al fine di migliorare le facoltà cognitive in soggetti con l'Alzheimer, inibendo la neuro-degenerazione. Il problema maggiore era rappresentato dal fatto che la consueta somministrazione periferica di insulina, utilizzata nella terapia diabetica provocava il rischio d'insorgenza ed aumento d'ipoglicemia e resistenza all'insulina, oltre a dimostrarsi poco efficace a livello delle cellule cerbrali. Per ovviare alla problematica i ricercatori hanno creato un nanogel costituito da piccolissime particelle polimeriche reticolate idrofile, prodotte attraverso un processo innovativo che fa ricorso alle radiazioni ionizzanti create da un acceleratore di elettroni, comunemente utilizzate per la sterilizzazione industriale di dispositivi biomedicali. Le nanoparticelle sono così in grado di veicolare l'insulina direttamente al cervello, evitando gli effetti collaterali delle terapie ordinarie, superando la barriera emato encefalica ed arrivando più velocemente a contatto delle cellule cerebrali tramite la mucosa olfattoria. Secondo il parere dei ricercatori gli effetti neuroprotettivi del nanogel sarebbero stati verificati sulla capacità di inibire i diversi meccanismi neurodegenerativi (stress ossidativo, disfunzione mitocondriale, morte cellulare) indotti da Abeta, un peptide coinvolto nella malattia diAlzheimer e costituirebbero un primo passo nel tentare di ottenere una cura.

Un'altra ricerca, condotta dall'Università del Michigan, focalizza invece la propria attenzione sulla proteina Igf-I che è in relazione con i processi di proliferazione, migrazione e differenziazione cellulare. I ricercatori hanno constatato come aumentando di circa 50 volte i livelli di Igf-I in una linea di cellule staminali neuronali queste hanno iniziato a produrre cellule cerebrali che sono risultate resistenti all'Alzheimer e persino in grado di riparare le cellule danneggiate dalla malattia. Hanno inoltre scoperto che L'Igf-I bloccherebbe anche la perdita delle cellule del cervello e avrebbe effetti anti-infiammatori. Alla luce di questi studi, secondo la ricercatrice Eva Feldman il trapianto di cellule staminali neuronali rappresenterebbe un nuovo approccio interessante per il trattamento dell'Alzheimer. Sempre stando alle parole della ricercatrice le cellule staminali neuronali hanno una capacità di auto-rinnovamento a lungo termine, il potenziale di differenziarsi in vari tipi di cellule neuronali e la capacità di fornire una fonte illimitata di cellule per la medicina rigenerativa. Il trapianto di staminali neuronali si è in effetti già dimostrato efficace nel migliorare le funzioni del cervello e quelle motorie dopo l'ictus, il morbo di Parkinson e la SLA. Secondo i ricercatori, questi stessi risultati positivi si potrebbero ottenere anche per l'Alzheimer. A suffragare questa tesi recenti ricerche indicano che quando le cellule neuronali umane vengono trapiantate nel cervello di topi con Alzheimer, dopo dieci settimane la cognizione degli animali migliora così come il tasso di sopravvivenza dei neuroni e la funzione delle sinapsi. 

Nonostante le timide speranze che in prospettiva potrebbero derivare dalle nuove sperimentazioni, la medicina purtroppo continua ad ignorare le vere cause che contribuiscono ad innescare la malattia di Alzheimer e si limita a considerarla una "patologia multifattoriale" indotta da una lunga serie di concause che talvolta ed in determinati soggetti determinano l'insorgere della malattia. Le 7 linee guida per prevenire l'Alzheimer diffuse nel 2013 al termine della "International Conference an Nutrition on the Brain" tenutasi a Washington, somigliano da vicino al consiglio di bere molta acqua e stare all'ombra, ripetuto come un mantra dai media durante l'estate con lo scopo di prevenire i colpi di caldo.
Fra gli studi più interessanti fra quelli che hanno tentato di fare luce sulle reali cause della malattia di Alzheimer vanno sottolineati senza dubbio quelli che mettono in relazione l'intossicazione da metalli pesanti, in particolare l'alluminio ed il rame, con la patologia. All'interno delle cellule cerebrali dei soggetti deceduti a causa dell'Alzheimer sono infatti state riscontrate alte concentrazioni di entrambi questi elementi.
L'intossicazione da alluminio determina una serie di sintomi quali perdita della funzione intellettuale, smemoratezza, mancanza di concentrazione, drammaticamente simili a quelli provocati dell'Alzheimer e più in generale danni a livello cerebrale interferendo anche con alcuni neurotrasmettitori.
Riguardo al rame è stato dimostrato il suo coinvolgimento nei meccanismi che sono ritenuti alla base della cascata 'amiloidea', cioè della serie di processi neuropatologici che coinvolgono la proteina beta amiloide che forma le placche nel cervello dei pazienti con la malattia di Alzheimer e portano alla morte dei neuroni, le cellule che formano il cervello.
La relazione con l'intossicazione da allumio e rame potrebbe anche spiegare il repentino incremento dei casi di Alzheimer durante i decenni della "modernità", dal momento che il progresso espone sempre più massicciamente i nostri organismi all'accumulo di questi elementi con i quali veniamo sistematicamente a contatto, attraverso gli utensili da cucina, il confezionamento dei cibi, i farmaci di uso comune e perfino la maggior parte dei vaccini.

Fonte: IL CORROSIVO di marco cedolin

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