venerdì 11 marzo 2016

Fukushima 5 anni dopo

I danni all'impianto nucleare sono ancora oggi i segni più evidenti del terremoto e dello tsunami dell'11 marzo 2011, e lo saranno ancora per decenni

Operai al lavoro nell'impianto nucleare di Fukushima Daiichi - Fukushima, Giappone (Christopher Furlong/Getty Images)

Da cinque anni migliaia di persone sono al lavoro per mettere in sicurezza la centrale nucleare di Fukushima Daiichi, danneggiata dal terremoto di magnitudo 9.0 e dal conseguente tsunami con onde alte fino a 40 metri che colpirono il Giappone l’11 marzo del 2011. Le immagini in diretta riprese dagli elicotteri dell’acqua di mare che in pochi minuti aveva invaso l’entroterra, portandosi via barche, automobili e intere abitazioni, resero da subito evidente la grandezza e l’estensione del disastro naturale, che causò la morte di quasi 19mila persone. La gravità di quanto stesse accadendo a Fukushima non fu invece chiara da subito, in parte a causa delle reticenze della Tepco, l’azienda energetica che aveva in gestione l’impianto. Nei giorni seguenti, mentre iniziava una grande operazione di recupero e soccorso nel nord del Giappone, si scoprì che terremoto e tsunami avevano causato seri danni a Fukushima, portando a uno dei più gravi disastri nucleari della storia dopo quello di Chernobyl, in Ucraina, del 1986.

Cosa accadde a Fukushima
Al momento del terremoto in Giappone, l’impianto di Fukushima Daiichi aveva tre reattori nucleari attivi e uno fermo in fase di manutenzione. Non appena fu rilevata la scossa, i sistemi di sicurezza avviarono le procedure per fermare i tre reattori in funzione. Il terremoto fece crollare alcuni tralicci, lasciando la centrale isolata dal resto della rete elettrica, cosa che fece avviare i generatori diesel di emergenza per fornire la corrente necessaria a fare funzionare la sala di controllo dell’impianto. Si stavano ancora valutando i danni quando una grande onda dello tsunami raggiunse la centrale, che affaccia sul mare, e ne invase i sotterranei dove erano stati collocati i generatori. La grande quantità d’acqua li fece andare in avaria, lasciando la centrale fuori controllo e senza la possibilità di mantenere attivi i circuiti di raffreddamento, necessari per tenere sotto controllo la temperatura nei reattori.





Solo dopo alcuni giorni, e sotto la pressione del governo giapponese, Tepco ammise che la situazione a Fukushima era più grave del previsto e che il livello di radiazioni stava aumentando. Gli abitanti nel raggio di 20 chilometri dallo stabilimento furono evacuati, mentre i tecnici iniziarono a studiare un piano di emergenza per lo stabilimento. La pericolosità della situazione si era comunque già resa evidente il 12 marzo, quando si verificò una forte esplosione nell’edificio che ospita il reattore 1, causata da un accumulo di idrogeno, che ne causò il crollo del soffitto di cemento. Nei giorni seguenti si verificarono esplosioni simili in altri edifici, mentre restava il problema di come raffreddare i reattori per evitare che il combustibile nucleare al loro interno si fondesse.


Essendo i normali circuiti per il raffreddamento in avaria e inutilizzabili, si decise di procedere riversando acqua di mare negli edifici dei reattori. L’estensione dei danni in quei momenti non era ancora del tutto chiara, per questo motivo i dirigenti Tepco erano contrari a questa soluzione perché l’acqua salina avrebbe reso irrecuperabili i reattori, costati svariati miliardi di euro. In seguito, si scoprì che nei tre reattori si era verificata una parziale fusione del combustibile, l’esito più grave in un incidente nucleare di questo tipo. La soluzione dell’acqua marina, sostenuta dal governo e dal direttore dell’impianto, prevalse e si iniziarono a pompare con potenti idranti migliaia di litri d’acqua al giorno sui reattori. A distanza di cinque anni, quella di riversare acqua sui reattori continua a essere l’unica soluzione efficace per tenerli sotto controllo ed evitare che il materiale fuso all’interno si scaldi troppo ed emetta grandi quantità di radiazioni.

Cos’è oggi Fukushima
Per i primi due anni dopo lo tsunami, Fukushima Daiichi fu una sorta di caotico ospedale da campo, spiega oggi l’attuale responsabile dello spegnimento dell’impianto, Naohiro Masuda: mentre si sparava in modo piuttosto rudimentale dell’acqua con gli idranti negli edifici dei reattori, si lavorava per rimuovere le macerie e per fare spazio alle nuove strumentazioni. La durata dei turni di lavoro era condizionata dalla quantità di radiazioni cui si era esposti, con lunghe procedure per isolarsi dall’ambiente circostante e per controllare, alla fine di ogni turno, che non ci fossero state contaminazioni. Masuda dice che ora la situazione, per lo meno da quel punto di vista, si è normalizzata e “che possiamo guardare avanti”. Il livello di radiazioni è basso e sotto controllo e Fukushima sembra un grande cantiere, dove lavorano 1.200 operai Tepco e altri 6mila lavoratori di imprese che hanno ricevuto appalti nell’area.

Contenere le radiazioni è stato un risultato importante, ma negli ultimi cinque anni non se ne sono registrati molti altri. Nel 2014 è stata condotta un’operazione molto rischiosa per rimuovere le barre di combustibile nucleare dalla piscina in cui erano contenute nell’edificio del reattore in manutenzione quando si verificò il terremoto. Quelle barre rimasero sommerse nella loro piscina per una pura combinazione, grazie a un’avaria di una valvola che metteva la vasca in comunicazione con quella che sovrasta il reattore: se così non fosse stato, l’acqua nella piscina sarebbe evaporata esponendo le barre all’aria e producendo un disastro ancora più grave.


Rimozione del combustibile
La sfida più grande deve essere ancora compiuta e riguarda la rimozione del combustibile che si è fuso all’interno dei tre reattori attivi nel marzo del 2011. A distanza di cinque anni non è ancora nota la gravità dei danni perché i tre grandi recipienti sono inavvicinabili a causa delle radiazioni. L’utilizzo di droni automatici di vario tipo per ispezionare l’area per ora non ha portato a risultati soddisfacenti e non è chiaro nemmeno quanto tempo sarà necessario per risolvere il problema. Le principali preoccupazioni riguardano il reattore 1, il più difficile da raffreddare: è probabile che il grande calore sviluppato al suo interno abbia danneggiato il sistema di contenimento, permettendo al combustibile nucleare fuso (“corium”) di raggiungere la spessa piattaforma di cemento su cui era stato installato il reattore. Per i reattori 2 e 3 la situazione dovrebbe essere meno grave, ma anche in questo caso ci sono incognite sulle loro condizioni.

Tepco ha spiegato che attualmente non è possibile dire con certezza a che livello si trovi il combustibile nucleare e che sono in corso altri studi. Nonostante questo, la società dice che continua a essere plausibile l’obiettivo di mettere in sicurezza Fukushima Daiichi entro i prossimi 30 – 40 anni, con una spesa complessiva che potrebbe essere intorno ai 18 miliardi di euro. Secondo i detrattori, il governo giapponese – guidato dal liberal democratico Shinzo Abe – insiste su questa scadenza per dimostrare che l’energia nucleare è comunque sicura e per cambiare l’orientamento dell’opinione pubblica, diventata contraria all’utilizzo dell’energia atomica nel paese proprio dopo il disastro di Fukushima. L’ex primo ministro Naoto Kan, al governo nel 2011 durante l’emergenza nazionale dovuta al terremoto, aveva disposto la chiusura di tutti gli impianti nucleari per precauzione. Da allora solo un reattore dei circa 40 disponibili in Giappone è tornato operativo, nonostante i piani di Abe a favore del nucleare.


Secondo osservatori e analisti internazionali, è comunque improbabile che i problemi di Fukushima possano essere risolti entro 40 anni. La stessa idea di iniziare a rimuovere le prime parti del combustibile nucleare nel 2021 appare non realistica, considerato che devono essere ancora progettati e sperimentati i sistemi per farlo. Lo scetticismo è condiviso da alcuni membri della stessa commissione incaricata di soprintendere i lavori a Fukushima. Secondo Toyoshi Fuketa, uno dei commissari, saranno necessari decenni e tra 70 – 80 anni i lavori di rimozione del combustibile fuso potrebbero non essere ancora finiti. Per questo motivo Toyoshi propone di rimuoverne il più possibile in tempi brevi e di seppellire il resto sotto uno spesso strato di cemento.

Tepco ha però escluso che si possa seguire una soluzione di questo tipo, che su scale diverse è stata seguita negli ultimi 30 anni a Chernobyl. Il combustibile nucleare nei reattori di Fukushima è molto e potrebbe portare a esplosioni durante i lavori per immergerlo nel cemento e altri materiali inerti, senza contare che potrebbe comunque farsi strada negli anni attraverso l’isolante fino a contaminare il suolo. Solo le ricognizioni dei contenitori dei reattori con i robot potranno chiarire se i danni agli involucri sono riparabili, in modo da potere mantenere il combustibile nucleare sommerso nell’acqua mentre si procede alla sua estrazione, riducendo al minimo le radiazioni. Saranno necessari anni prima di poterlo stabilire.

Tonnellate d’acqua
In attesa di nuove soluzioni, da circa cinque anni Tepco riversa enormi quantità d’acqua nei sotterranei degli edifici che ospitano i reattori, per evitare che il combustibile nucleare al loro interno si scaldi troppo. Finora si è rivelata l’unica soluzione efficace, ma comporta grandi problemi logistici e ambientali. L’acqua mista a un liquido refrigerante passa attraverso un intricato labirinto di tubi, raggiunge la base dei reattori e poi torna indietro per essere nuovamente raffreddata e rimessa in circolo. Nei pressi dei reattori, dove non è possibile intervenire direttamente, si utilizza parte del vecchio circuito di raffreddamento che ha diverse crepe: l’acqua contaminata allaga i sotterranei e ogni giorno Tepco ne deve estrarre circa 720 tonnellate, che vengono conservate in enormi serbatoi intorno alla centrale. In cinque anni ne sono stati costruiti e riempiti 1.000 per un totale di quasi un milione di tonnellate d’acqua e ce ne sono altri in costruzione: è un po’ come vuotare una barca fallata usando un secchio.


Parte dell’acqua viene decontaminata, quasi del tutto, e poi riversata in mare in attività settimanali che portano allo sversamento di 2.000 tonnellate. Tepco dice che quell’acqua non costituisce un pericolo per gli ecosistemi marini e che viene comunque diluita nel resto dell’oceano Pacifico. Gli ambientalisti la pensano diversamente e si attendono i risultati delle ricerche sulla fauna marina nell’area nei pressi della centrale, dove comunque continua a essere vietata la pesca.

Muro di ghiaccio
Tepco sta anche lavorando a un progetto molto ambizioso per isolare la centrale dal territorio circostante, in modo che l’acqua contaminata nei sotterranei non si propaghi. Il procedimento consiste nel pompare nel suolo composti chimici di vario tipo per congelarlo, creando una sorta di muro di ghiaccio sotterraneo, impermeabile al passaggio dell’acqua. I tentativi fatti finora non hanno però portato a grandi risultati, anche perché questo sistema non era mai stato usato prima su una scala di questo tipo. Secondo le stime di Tepco, saranno necessari ancora almeno quattro anni prima di risolvere il problema dell’acqua contaminata.

Sfollati
A cinque anni dal disastro a Fukushima, ci sono ancora quasi 100mila persone che non possono tornare a vivere nelle loro abitazioni, perché si trovano nell’area sgomberata per il pericolo di contaminazione nucleare. Circa 26mila operai sono al lavoro per decontaminare la zona, ripulendola dagli strati più superficiali del suolo e dalle macerie dello tsunami. Più del 60 per cento degli sfollati dice comunque di non volere tornare a vivere vicino alla centrale.

Fonte: Il Post

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