venerdì 6 maggio 2016

Il terremoto in Friuli, 40 anni fa

La storia del giorno in cui una scossa distrusse interi comuni, uccidendo 990 persone; e dell'esemplare ricostruzione successiva ("prima le fabbriche, poi le case, poi le chiese")

(ANSA)

Poco dopo le 21 del 6 maggio del 1976, quarant’anni fa, un terremoto di magnitudo 6,4 colpì il Friuli e l’intera regione Friuli-Venezia Giulia, in Italia. L’epicentro del sisma era vicino a Osoppo e Gemona del Friuli, a nord di Udine: in totale vennero coinvolti 137 comuni. Morirono 990 persone (la lista è stata aggiornata qualche giorno fa, perché un uomo non era stato inserito), più di 3 mila rimasero ferite e più di 100 mila furono costrette ad abbandonare le loro case: 18 mila furono completamente distrutte e 75 mila rimasero danneggiate. Alle commemorazioni di oggi parteciperà anche il presidente della Repubblica Sergio Mattarella: per ricordare le vittime e anche per celebrare una ricostruzione considerata esemplare, soprattutto per gli standard italiani in situazioni del genere.

In molti ricordano come quella sera facesse molto caldo. Arrivò una scossa violentissima, le comunicazioni si interruppero all’improvviso, le linee erano sovraccariche, e ad avere e dare notizie furono solo i radioamatori. «Qui è tutto un polverone, si sentono grida… non capiamo, forse c’è stato un terremoto»: così dicevano i camionisti e i radioamatori che si trovavano nelle zone colpite. Quel giorno, a quell’ora, un ragazzo di nome Mario Garlatti, residente a Tricesimo, stava trasferendo dal giradischi a una cassetta la canzone dei Pink Floyd Shine on your crazy diamond. In quella cassetta restò impresso anche l’arrivo della prima scossa del terremoto.



Il buio non aiutò e le prime notizie si ebbero solo la mattina. La scossa era stata avvertita in un’area vastissima, estesa a tutta l’Italia centro-settentrionale fino a Roma e a Torino, all’Austria, alla Svizzera, alla Germania e alla Croazia e in parte della Francia, della Polonia e dell’Ungheria. Gli effetti più distruttivi furono nella zona a nord di Udine lungo la valle del Tagliamento, dove interi paesi furono distrutti: Gemona, Forgaria, Osoppo, Venzone, Trasaghis, Artegna, Buia, Magnano in Riviera, Majano, Moggio Udinese e molti altri. Vi furono danni fino a Gorizia e a Trieste e in alcune zone del Veneto e del Trentino-Alto Adige. Il Messaggero Veneto scrisse in prima pagina che il terremoto fu “catastrofico”. Tutt’ora in Friuli Venezia-Giulia chiunque abbia più di quarant’anni ha la sua storia da raccontare sul terremoto e quel che accadde dopo.


I primi soccorsi furono organizzati dai cittadini, che cominciarono a cercare i sopravvissuti tra le macerie senza attrezzi, con le mani; i sindaci formarono delle squadre con l’aiuto dei vigili del fuoco e degli alpini che si erano subito dati da fare per organizzare delle tendopoli. L’8 maggio, a due giorni dalla scossa, il consiglio regionale del Friuli Venezia Giulia mise a disposizione 10 miliardi di lire per l’assistenza e la ricostruzione. Il governo guidato allora da Aldo Moro scelse Giuseppe Zamberletti come commissario straordinario per l’emergenza. Quattro mesi dopo, l’11 settembre e poi il 15, arrivarono altre scosse: due del 5,8 della scala Richter, altre due di 6 gradi della scala Richter. Ci furono altri crolli e altri morti. La priorità divenne allora mettere in sicurezza bambini e anziani, lontano dalla zona coinvolta dalle scosse: intere comunità vennero trasferite nelle città più vicine al mare, come Grado, Lignano, Bibione e Caorle.

L’8 maggio la Stampa pubblicò un editoriale intitolato «Non rifare gli errori del Belice», con riferimento al terremoto avvenuto nel 1968 in Sicilia. Sergio Gervasutti, primo inviato del Gazzettino ad arrivare su posto, ricorda che all’epoca venne fatta una scelta precisa e fondamentale: «Tutti, anche il nostro arcivescovo di Udine, Alfredo Battisti, avevano condiviso di ricostruire prima le fabbriche, poi le case e, infine, le chiese». Il motto di allora fu proprio “prima le fabbriche, poi le case, poi le chiese”: per chi era rimasto senza casa ma era in grado di lavorare furono recuperate migliaia di roulotte in giro per l’Italia, per garantire un minimo il lavoro nelle aziende che non erano state colpite. Poi si cominciò a pensare alla ricostruzione, che si voleva fare «dov’era e com’era». La ricostruzione venne definitivamente conclusa solo nel 2006 ma già nel 1998 Luigi Offeddu, inviato del Corriere della Sera, passeggiando per le strade di Gemona, scriveva:


«Gruppi di turisti fotografano il Duomo e passeggiano sotto i portici di via Bini. Duomo e portici che sembrano così com’erano prima del 6 maggio 1976, ma che invece l’Orcolat (cioè l’orco, come da quelle parti viene soprannominato il terremoto, ndr) aveva frantumato, e che la gente ha ricostruito pezzo per pezzo secondo il procedimento chiamato anastilosi: raccogliere ogni pietra, numerarla, ricollocarla al suo posto. Ancora oggi, su alcune pietre dei portici si legge un numero. Ma quel numero, insieme a uno spezzone della chiesa della Madonna delle Grazie, è l’unica traccia che ricordi il passaggio dell’orco».

Fonte: Il Post

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