Tale comma sbarrava la strada a un qualsiasi supplente di Palermo che avesse voluto inserirsi in graduatoria a Varese, per il semplice fatto che era nato a Palermo. Ciò ha portato all’imbarazzante sentenza della Consulta, che ha dovuto spiegare alla Gelmini, nell’anno del 150esimo anniversario dell’Unità del nostro paese, che l’Italia è una sola e i titoli di studio hanno lo stesso valore in tutto il territorio nazionale.
Secondo questo decreto di matrice leghista un insegnante che vuole lavorare in un’altra provincia non si inserisce in graduatoria secondo il punteggio maturato, ma si deve “accodare” ai suoi colleghi autoctoni, anche se questi hanno un punteggio inferiore, in barba alla meritocrazia. L’incostituzionalità della norma è lampante, come anche la sua insulsaggine.
Questa norma non mancherà di avere ripercussioni politiche e soprattutto economiche. È necessaria infatti la revisione delle graduatorie, nonché l’assunzione di tutti quei docenti che si sono visti ingiustamente soffiare l’immissione in ruolo dai loro colleghi meno meritevoli. Ancora, gli insegnanti colpiti da questa norma chiederanno, a ragione, un risarcimento con un danno erariale non di poco conto per le casse del nostro stato. Sono già stati inoltrati infatti 15mila ricorsi all’Anief (Associazione nazionale degli insegnanti ed educatori in formazione). E se ne prevedono altri.
Se non avessimo un po’ di rigore intellettuale e un minimo senso del decoro, chiederemmo alla Gelmini perché ha costretto il nostro erario allo spreco di tante risorse, che potevano magari essere utilizzate per “trovare una ragazza come Yara di cui non si hanno tracce”. Ma non lo faremo, certe buffonate non ci appartengono. È tuttavia doveroso interrogarsi sul perché l’istruzione di 56 milioni di persone debba essere alla mercé di una donna capace di tali pasticci.
E quindi delle due l’una. O la Gelmini sapeva che quella norma era incostituzionale ma l’ha comunque inserita nella legge, e allora siamo di fronte a un uso criminoso del potere pubblico. Oppure non lo sapeva, e allora siamo di fronte a un raro esempio di deficienza istituzionale, di incompatibilità per mancanza di oggettive capacità a ricoprire il suo ruolo. In più, così come vengono conferite lauree ad honorem, sarebbe il caso che certe lauree venissero revocate “per dis-honorem”. E quello della Gelmini è uno di quei casi.
Ma due parole le merita anche la Lega Nord, la cui impronta sul decreto legge è assolutamente riconoscibile. Se i leghisti hanno così a cuore la loro identità, tanto da voler minare il principio costituzionale della libera circolazione sul territorio nazionale, che lo dicessero apertamente. Raccogliessero le firme tra tutti i loro elettori, attraverso una petizione o un’iniziativa legislativa popolare, al fine di porre il problema al centro del dibattito parlamentare. Se credono che l’essere padano entri in conflitto con l’essere italiano, non si capisce perché non debba essere riconosciuta la loro diversità identitaria. Non saremo noi Italiani a trattenerli, fedeli al principio sacrosanto dell’autodeterminazione dei popoli. E, se tanto è il loro ribrezzo per il nostro paese, che se ne andassero dall’Italia. Altrimenti, che se ne andassero al diavolo.
Fonte: Agoravox Italia
1 commento:
D'accordo su tutto tranne l'ultima frase. Bisogna cominciare a chiamare le cose col loro nome. I leghisti possono andare tranquillamente affanculo. (Del resto il loro terreno dialettico di scontro è questo, non ma sarà bello ma a non abbassarsi mai si rischia che un sacco di porcate passino sotto il nostro naso)
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