Valentino Parlato nell'aprile del 2006 (© PIERGIORGIO PIRRONE / TEAM / Lapresse)
Martedì 2 maggio è morto Valentino Parlato, giornalista, scrittore, tra i fondatori del quotidiano comunista Il Manifesto di cui è stato più volte direttore e presidente della cooperativa editrice. Parlato aveva 86 anni. La notizia è stata data su Facebook da Ritanna Armeni e poco dopo il Manifesto ha scritto un breve messaggio sul suo sito:
«Comunista per tutta la vita, ha militato nel Pci fino alla radiazione, lavorato a Rinascita, fondato e difeso il manifesto in tutta la sua lunga storia. Per ora ci fermiamo qui, abbracciando forte la sua splendida famiglia e tutti i compagni che, come noi, l’hanno conosciuto e gli hanno voluto bene».
Valentino Parlato era nato a Tripoli il 7 febbraio del 1931 da una famiglia originaria di Favara, in provincia di Agrigento. Il padre era un funzionario del fisco che fu trasferito dalla Sicilia per lavoro. Parlato si iscrisse al Partito comunista libico, ma nel 1951 venne espulso dal Protettorato britannico: «Ero studente in Legge: se fossi sfuggito a questa prima ondata sarei diventato un avvocato tripolino e quando Gheddafi m’avrebbe cacciato, nel 1979, insieme a tutti gli altri, mi sarei ritrovato in Italia, a quasi cinquant’anni, senz’arte né parte. Sarei finito a fare l’avvocaticchio per una compagnia d’assicurazione ad Agrigento, a Catania. Un incubo. L’ho veramente scampata bella», aveva raccontato.
Parlato si trasferì a Roma dove all’inizio degli anni Cinquanta conobbe Luciana Castellina. In quello stesso periodo si iscrisse al PCI, entrando a far parte della corrente di Giorgio Amendola. Alle elezioni del 1953 accettò di lavorare per la federazione di Agrigento, ma poi decise di tornare a Roma dove cominciò a lavorare per l’Unità come corrispondente e poi a Rinascita come redattore economico. Nel 1969 fu radiato dal PCI con gli altri fondatori e fondatrici del Manifesto: «Io ero il pesce più piccolo, fui licenziato da Rinascita, mi trattarono bene in fondo: ebbi anche la liquidazione». Da quel momento in poi la sua storia politica e lavorativa coincise con quella del nuovo giornale. A quel tempo Il Manifesto era un mensile composto da quattro pagine, costava 50 lire contro le 90 degli altri giornali e già allora non aveva editori, ma era gestito da una cooperativa formata dagli intellettuali e dai giornalisti che ci lavoravano. La proprietà era dunque di un collettivo che non si distingueva dalla redazione e dalla direzione: tutti i lavoratori e le lavoratrici ne facevano parte. Il 28 aprile del 1971 il Manifesto divenne un quotidiano e Parlato ne fu direttore diverse volte: dal 1975 al 1985 (affiancato da altri direttori), poi dal 1988 al 1990 e dal 1995 fino al 30 marzo 1998. E del Manifesto Parlato ha affrontato le ripetute crisi finanziarie, fino all’amministrazione coatta del 2011.
(Valentino Parlato, commosso, abbraccia una giornalista del Manifesto nella redazione del quotidiano alla notizia della liberazione di Giuliana Sgrena, 2005 – Ansa Foto)
La procedura di liquidazione e la richiesta di riduzione dell’organico pretesa dai commissari avevano causato spaccature e tensioni all’interno della redazione tra chi si sarebbe dovuto salvare o lasciar andare via. E avevano portato all’abbandono spontaneo di alcuni e alcune che il giornale l’avevano fondato e di altri che erano considerate “firme storiche”: Vauro, Rossana Rossanda, Joseph Halevi, Marco d’Eramo, Alessandro Robecchi e anche Valentino Parlato.
(Luigi Pintor, Rossana Rossanda e Valentino Parlato con la redazione – Ansa Foto)
Come Ingrao e Rossanda («con Rossanda ci sentiamo ogni settimana al telefono», aveva dichiarato l’anno scorso) anche Parlato aveva raccontato la sua storia: non in un libro, ma in un documentario intitolato “Vita e avventure del Signor di Bric à Brac”, scritto e diretto dal figlio Matteo insieme a Marina Catucci e Roberto Salinas. Parlato ha scritto diversi libri, anche sulla storia del Manifesto (“Se trentacinque anni vi sembrano pochi”, “La rivoluzione non russa. Quaranta anni di storia del Manifesto”). E ha curato le edizioni delle opere di Adam Smith, Lenin e Antonio Gramsci, tra gli altri. Era un fumatore accanito e nel 2007 dichiarò di fumare ancora 70 Pueblo al giorno. Delle limitazioni imposte da Girolamo Sirchia, ministro della Salute del secondo Governo Berlusconi che impose il divieto di fumo nei locali pubblici, disse: «Non escludo che, dopo le sigarette, si passi a vietare tutto il resto».
(Valentino Parlato nella redazione del Manifesto di Via Tomacelli a Roma – Ansa Foto)
Al referendum costituzionale del 4 dicembre 2016 sulla riforma del governo Renzi Parlato aveva votato “No” e alle amministrative di Roma aveva votato (come la sua seconda moglie Maria Delfina Bonada) per Virginia Raggi: «Ero talmente indignato verso il PD che per la prima volta ho tradito la sinistra, spero sia anche l’ultima».
Il 9 aprile del 2017 Parlato aveva scritto un articolo sul Manifesto intitolato “Cambio d’epoca”: raccontava della crisi della sinistra, della politica, della cultura e della scuola non solo in Italia. E si concludeva così:
«Dobbiamo capire che siamo a un passaggio d’epoca, direi un po’ come ai tempi di Marx quando il capitalismo diventava realtà e cambiava non solo i modi di produzione, ma anche i modi di vivere degli esseri umani.
Quando scrivo «passaggio d’epoca» vorrei ricordare che il capitalismo fu, certamente, un passaggio d’epoca, ma conservò modi di pensare e valori e anche autori del passato greco-romano, come dire che nella discontinuità c’è sempre anche una continuità, ma questo non ci deve impedire di capire i mutamenti che condizioneranno la vita dei giovani e delle generazioni future.
Non possiamo non tener conto di quel che sta cambiando: dobbiamo studiarlo e sforzarci di capire, sarà un lungo lavoro e non mancheranno gli errori, ma alla fine un qualche Carlo Marx arriverà».
Fonte: Il Post
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